Torna al Teatro India di Roma lo spettacolo Famiglia, scritto e diretto da Valentina Esposito con Fort Apache Cinema Teatro. Recensione.
Al termine di Famiglia, spettacolo presentato da Fort Apache Cinema Teatro al Teatro India di Roma, la regista e autrice Valentina Esposito e la compagnia integrata con attori ex detenuti e detenuti in misura alternativa dialogano con il pubblico. È mattina, in sala sono presenti gli studenti di alcuni istituti superiori romani, entusiasti, e la Scuola di italiano per richiedenti asilo e rifugiati di Asinitas Onlus che con il progetto Spettatori Migranti/Attori Sociali attraverserà quest’anno la stagione del Teatro di Roma.
La prima frase che registro dell’incontro si interroga sul «senso che ha praticare quello che definiamo “teatro sociale”». In un’ora e venti di spettacolo e in circa trenta minuti di incontro Valentina Esposito risponde indirettamente, ma in maniera precisa e organica, alle domande che questa realtà teatrale si sta ponendo: fare teatro sociale significa fare teatro o terapia? La componente pedagogico-riabilitativa travalica la componente catartica più universale? In quale misura l’attenzione del critico e dello spettatore deve guardare al processo e in quale al risultato scenico? Questioni che erano state affrontate anche alla giornata dal titolo Spiragli Urbani – Il teatro come costruzione di comunità tra le comunità, ospitata dall’Angelo Mai lo scorso 11 gennaio (qui il racconto di Renzo Francabandera su PAC).
La risposta liberatoria del potente risultato scenico di Famiglia sembra includere un’altra domanda fondamentale: che valore ha quel teatro – sociale – per chi assiste? Senza dover essere vittima del “ricatto delle buone intenzioni”, senza dover applaudire esclusivamente alla nobiltà del processo autoescludendosi così dalla relazione autentica con l’attore, lo spettatore di Fort Apache riesce a fare esperienza dell’Altro e dell’altrove ritrovando quella dimensione in se stesso. «Vediamo di noi stessi e degli altri sempre e solo un lato», dice un personaggio dello spettacolo, mentre pubblico e attori stanno vedendo proprio nell’Altro l’altro lato del sé.
Rispecchia una questione ontologica, allora, la riflessione che muove il lavoro di Valentina Esposito all’interno dello scenario del teatro sociale, definito oggi quale uno dei luoghi di “rinascita” della ricerca scenica.
Famiglia è infatti innanzitutto – o dopo tutto – uno spettacolo di teatro, e come tale il pubblico riesce a guardarlo. O, per essere più precisi, culmina in un segno scenico che permette allo spettatore di accedere al processo passando per la catarsi del segno artistico. Sembrerà pleonastico, eppure per chi frequenta la scena sociale e teatrale è un memorandum necessario. La sintesi del successo dell’esito del lavoro di Valentina Esposito può esprimersi in due parole: drammaturgia e regia. Queste due scienze universali, anche nelle esperienze teatrali che si confrontano con il disagio, restano inevitabilmente responsabili della riuscita dell’oggetto “testo”, ma a volte rischiano invece di essere barattate con la creazione di un contesto basato esclusivamente sullo scambio empatico.
È dietro la qualità di questo lavoro che la regista ha costruito la “casa” di Fort Apache Cinema Teatro facendo in modo «che il teatro diventi uno strumento messo a disposizione per accompagnare questi uomini in un momento molto difficile dell’esistenza, il momento della detenzione». Proprio all’incontro post-spettacolo, Esposito sostiene che il teatro possa diventare «lenimento alla sofferenza, una possibilità di riflettere su alcuni nodi conflittuali irrisolti, un modo per attivare e innescare un processo di consapevolezza e revisione del passato» ma anche, per queste persone, «una possibilità di riscrittura della propria vita e della propria identità, fornendo le basi tecniche necessarie per fare in modo di proseguire con questo lavoro».
Il progetto di Fort Apache, aperto a tutti, è pensato per chi vive quella zona di confine tra il dentro e il fuori del carcere: «Ormai il teatro nelle carceri è un’attività molto diffusa – spiega ancora la regista – ci sono oltre cento realtà distribuite nei penitenziari italiani, ma al di là della porta blindata non c’era quasi nulla di coordinato e strutturato con le istituzioni. Abbiamo cercato di costruire una rete che facesse dialogare contesti diversi». Fort Apache collabora anche con una serie di produzioni cinematografiche e televisive per cercare di dare così una continuità lavorativa agli attori della compagnia. Il film documentario Ombre della sera, diretto da Valentina Esposito, è interpretato da cinque detenuti in misura alternativa e trae ispirazione dalla biografia dei protagonisti, alcuni dei quali interpreti anche di Famiglia.
Il nodo che con quest’ultimo spettacolo si affronta è quello dei legami famigliari, degli affetti negati dalla distanza che impone la reclusione; questione che resta aperta anche una volta usciti. I rapporti sospesi dai lunghi anni di separazione, infatti, restano un nodo fondamentale che il teatro cerca di sciogliere, di districare. Qui l’intuizione dell’autrice permette al processo sociale di sublimare in arte: «Entrare in carcere è come mettersi improvvisamente gli occhi della morte, vedi da fuori, e in maniera leggibilissima, le dinamiche della vita che continua». Senza portare in scena la detenzione o il pietismo per la condizione del carcerato, «che nulla ha a che fare con la consapevolezza», lo spettacolo presenta allora la storia di una famiglia che si riunisce per il matrimonio dell’unica figlia femmina. Alla festa si ritrovano parenti lontani, padri, figli e i figli dei figli, prigionieri di rancori e di traumi irrisolti; ma anche i morti che, da una realtà altra appunto, osservano la vita; e la morte.
La drammaturgia, scritta a partire da improvvisazioni autobiografiche e poi costruita articolando le storie in relazioni, coinvolge tanto gli attori quanto il pubblico, in un tema che portiamo dietro tutti; le controscene che fanno da specchio a quanto accade in proscenio provano a svelare i punti di vista, la scenografia di Andrea Grossi è riassumibile nella delicatezza di un velo che diventa torta nuziale, tavola imbandita, velatino, o velo del tempo dietro al quale riposano i neonati, o i morti. I costumi di Mari Caselli caratterizzano i morti come comparissero ancora in una vecchia foto sgualcita.
Gli attori plasmano i personaggi sui propri volti, nei propri dialetti, nei propri traumi e in quelli degli altri, forti in una coralità che restituisce la complessa dimensione affettiva. Qualche monologo sembra eccedere in lunghezza, e in quegli attimi si intravede la calce viva del processo sociale/creativo.
«Questo è l’equilibrio funambolesco sul quale ci si ritrova tutte le volte che uno si mette a scrivere per questo tipo di esperienze», dichiara Valentina Esposito, quello di tener presente che, oltre il processo interno del gruppo, in platea c’è un fantasma che guarda e che partecipa alla cerimonia di una famiglia; questa, nella cura del proprio dramma, ci mostra ancora una volta un modo per stare insieme.
Luca Lòtano
Teatro India, Roma – gennaio 2019
FAMIGLIA
scritto e diretto da Valentina Esposito
con Alessandro Bernardini, Christian Cavorso, Chiara Cavalieri, Matteo Cateni,
Viola Centi, Alessandro Forcinelli, Gabriella Indolfi, Piero Piccinin,
Giancarlo Porcacchia, Fabio Rizzuto, Edoardo Timmi, Cristina Vagnoli
e con Marcello Fonte
costumi Mari Caselli
scenografia Andrea Grossi
luci Alessio Pascale
musiche Luca Novelli
una produzione Fort Apache Cinema Teatro con il Patrocinio del Garante delle persone sottoposte a misure restrittive della libertà personale
in collaborazione con La Sapienza Università degli Studi di Roma – Dipartimento di Storia Antropologia Religioni Arte e Spettacolo SARAS
in collaborazione con Direzione di Rebibbia N.C., Tribunale di Sorveglianza di Roma, U.E.P.E. Ufficio di Esecuzione Penale Esterna di Roma, La Sapienza Università degli Studi di Roma – Dipartimento di Storia Antropologia Religioni Arte e Spettacolo SARAS