I vincitori dei Premi Ubu 2018 fanno emergere un panorama che da anni produce alcune delle esperienze artistiche più importanti, ma che spesso è in ombra. Vincono le produzioni della ricerca, legate ai festival e alle residenze. Una riflessione.
È la prima volta dalla stagione 2003/2004, dalla premiazione di Pescecani di Armando Punzo, che nella più importante categoria dei Premi Ubu appare come vincitore uno spettacolo non prodotto da un Teatro Nazionale, o da quelle istituzioni che, prima dell’ultima riforma del Fus, si chiamavano Teatri Stabili.
I riconoscimenti ideati nel 1978 dal critico e operatore Franco Quadri si sono da sempre dedicati al teatro d’arte (segnalando alcune punte della sperimentazione e del teatro di regia) e, per la maggior parte delle volte, dietro gli spettacoli vincitori c’erano le produzioni dei grandi teatri pubblici, ma in alcune occasioni sono emerse realtà produttive più piccole o laterali rispetto agli Stabili. Basti pensare alle vittorie della Compagnia della Fortezza, ad alcune produzioni di Leo De Berardinis o di Romeo Castellucci che già si riferivano ai festival come elementi produttivi.
Allora, se guardiamo dentro la scatola di Overload, il miglior spettacolo del 2018 secondo i referendari, troviamo una rete produttiva che altro non è se non una fotografia puntuale dello stato dell’arte nel sistema italiano dedicato alle piccole e medie produzioni di teatro d’arte.
Attenzione, le categorie e le etichette sono degli strumenti scivolosissimi, soprattutto da quando, nell’ultimo decennio, hanno iniziato a sovrapporsi o meglio a liquefarsi per cambiamenti strutturali, sociali ed estetici. Sotterraneo di certo non può dirsi una compagnia indipendente in senso stretto ma, appunto, se osserviamo con attenzione la questione è molto più complessa di un’etichetta: Overload beneficia di una coproduzione internazionale (Teatro Nacional D. Maria II nell’ambito di APAP – Performing Europe 2020, Programma Europa Creativa dell’Unione Europea), del contributo di Centrale Fies e di CSS Teatro Stabile di Innovazione del Friuli Venezia Giulia, nonché di altri sostegni pubblici come il Comune di Firenze, la regione Toscana e il Mibact. La geografia si fa ancora più frammentata se aggiungiamo la collaborazione delle tante residenze che alla produzione hanno collaborato ospitando le varie fasi del progetto.
Non si tratta dunque di un inventario di linguaggio tecnicistico. Nei Premi Ubu 2018 [qui tutti i vincitori] un vero e proprio modo di far teatro, a livello professionale nazionale, forse per la prima volta da molti anni, viene fotografato con grande evidenza. Questa edizione può dunque essere guardata da qualsiasi prospettiva: dall’alto dei grandi stabili pubblici, dall’occhio laterale dei privati, dal pubblico che non conosce la geografia frammentata ma è referente indispensabile, dai festival e dalle residenze e, naturalmente, con gli occhi sorridenti di chi invece quel sistema alimenta, lavorandoci con caparbietà e spesso con dolore.
Perché tutto questo, durante l’anno, avviene in un “Paese ombra”, nella nicchia della nicchia, all’indomani della serata di premiazione, svoltasi al Piccolo Teatro Studio Melato di Milano, i giornalisti si saranno trovati a decidere come battere la notizia, chiedendosi probabilmente chi fossero questi ragazzi con meno di quarant’anni che hanno vinto il Premio Ubu senza avere un grande palcoscenico alle spalle, senza avere tra le proprie fila un regista di grido o un dinosauro dell’innovazione novecentesca.
È il sistema che da sempre cerchiamo di raccontare con maggiore slancio su queste pagine, è la geografia apparentemente periferica a vincere. Il collettivo fiorentino Sotterraneo è, ormai da diversi anni, stabilmente residente presso l’Associazione Teatrale Pistoiese, un ente che ora figura come Centro di Produzione e che è nato proprio da una vocazione totalmente pubblica, nel 1984 per iniziativa del Comune di Pistoia. Ma se la provincia toscana è l’epicentro, poi a raggiera la Rete include alcuni dei luoghi più importanti per la ricerca teatrale: la trentina Centrale Fies, l’Emilia Romagna de La Corte Ospitale, fino ad arrivare ai programmi europei dedicati alle performing arts. C’è, insomma, una specializzazione che riesce a permettere ad artisti e gruppi come Sotterraneo di misurare la propria indipendenza attraverso una rete variegata di partner.
La questione diventa evidente se si scorrono anche le altre categorie: ad eccezione della miglior regia a Mimmo Borrelli per La Cupa, prodotto dal Teatro Stabile di Napoli, i premi più importanti vedono un’affermazione proprio del sistema citato sopra: Euforia della compagnia Habillé d’eau – la cui circuitazione troppo esigua si spera possa essere potenziata proprio dal recente riconoscimento nazionale – è prodotto da Inequilibrio Festival di Armunia e da Fabbrica Europa; Francesca Corona e Daniele Del Pozzo sono curatori di due festival (Short Theatre e Gender Bender) dedicati al contemporaneo e sono parte proprio di quella rete di cui si parlava. Il medesimo discorso può essere fatto per le vittorie dei giovani attori/performer, Chiara Bersani, Marco D’Agostin e Pier Giuseppe Di Tanno, che alla serata di premiazione hanno, letteralmente, “dato spettacolo”. Se il discorso di Chiara Bersani ha spopolato sui social network, le performance estemporanee di Di Tanno e D’Agostin, quest’ultimo ansimante su immaginari sci da fondo, hanno tenuto stretta l’attenzione.
Tutto questo avviene in un momento molto particolare: da una parte il sistema descritto, quello delle piccole istituzioni pubbliche che fanno rete con i festival e i soggetti indipendenti lotta spesso per la sopravvivenza e deve vedersela con amministratori locali non sempre in grado di accompagnare i processi; i grandi Stabili raccolgono invece poco rispetto all’investimento profuso nelle grandi produzioni. Nonostante il premio al Miglior Allestimento Scenico per Freud o L’interpretazione dei sogni (Massini/Tiezzi), la crisi del teatro di regia è sotto gli occhi tutti e le grandi istituzioni teatrali fanno ancora fatica a entrare in contatto con un rinnovato “teatro dei gruppi”, pur con la quantità di ottime proposte che emerge dal circuito dei festival e delle residenze. Ecco, forse questo premio deve servire ad attivare dei processi: i direttori dei Teatri Nazionali e dei Tric (alcuni già lo fanno) devono aprirsi sempre di più alle realtà indipendenti, ai giovani collettivi, a ciò che non conoscono, per recuperare sul territorio della creatività e dell’innovazione.
In una interessante conversazione trasmessa da Rai RadioTre nel programma Teatri in Prova curato da Laura Palmieri, si è parlato molto dell’identità dei premi teatrali oggi. Il Premio Ubu era al centro, e parte di un ciclo dedicato dalla radio nazionale alla sua storia e ai suoi cambiamenti, ma abbiamo cercato di comporre una geografia di questi riconoscimenti e di interrogarci sulla sua “biodiversità”. Perché ogni attestazione di eccellenza dovrebbe portare con sé criteri precisi che ne chiariscano le intenzioni. Se Rete Critica (il premio dei blog e delle riviste online) è giovane e sta cercando di definire il proprio posto nel rapporto tra critica e artisti, l’Ubu vanta una storia quarantennale, durante la quale si è di certo affermato come il traguardo più importante per il teatro d’arte italiano.
Facendo girare un microfono nel foyer dello Studio Melato al termine della cerimonia, abbiamo rilevato come, da parte degli artisti e degli operatori ma anche degli stessi referendari, sia vivo l’interesse a comprendere il senso dell’Ubu senza tuttavia costringerlo in definizioni troppo nette. Il problema più grande resta ancora quello della dinamica di votazione. La lista dei giurati include personalità diverse – e questo è un bene; si spande da nord a sud – e anche questo è un bene. Ma, se estesa ed equilibrata appare questa selezione, è il sistema di circuitazione degli spettacoli che non riesce ad apparire tale. Come dimostrano queste righe, è sempre più difficile dividere nettamente il comparto “indipendente” da quello “ufficiale”. Perché fortunatamente cominciano a compenetrarsi, certo, ma lo fanno anche per fronteggiare una comune problematica di sistema.
Il teatro deve essere portato al centro della sua comunità, ma conservandone la natura dinamica e, magari, anche accettando che non tutte le opere hanno modo di incontrare la stessa fortuna presso produttori e operatori: non tanto perché ve ne siano di illuminati e miopi, ma perché queste figure dipendono, a loro volta, da equilibri politici locali impossibili da piegare alle ragioni del teatro.
Forse proprio questo potrebbe essere il compito del Premio Ubu: portare all’attenzione di pubblico, operatori e critici stessi un teatro che riesca, in questo modo, ad affermarsi innanzitutto per eccellenza. Qualcosa, di certo, sta cambiando: il turnover nel gruppo dei referendari, l’ingresso di sguardi più giovani che sono cresciuti seguendo certi gruppi artistici fin dal loro primo debutto e certe linee di collaborazione sul campo tra le generazioni di critici, da qualche anno – e per quanto riguarda il 2018 in particolare – sono riusciti a consegnare la “coppa” a personalità artistiche che così vedono anche riconosciuto un processo oltre a un risultato.
Di certo le famose “cordate”, quelle operazioni di discussione costruttiva e combattiva tra critici, svolgono un ruolo importante, l’impressione è anche che i mutamenti del Premio siano anche la fotografia di un rinnovato vigore dello sguardo critico, sicuramente potenziato dai mezzi di comunicazione in Rete. Le firme che scrivono più spesso, che più spesso girano i festival estivi sono anche le stesse che ancora credono nel senso di questo premio. Un premio storico e che, proprio in virtù di quella storia deve sempre riconoscersi e farsi riconoscere, innanzitutto, come un appuntamento annuale di fortificazione di una comunità.
E allora, anno dopo anno, torna il desiderio di dare all’Ubu la possibilità di essere anche, in tutto e per tutto, un evento teatrale, in grado magari di regalare al pubblico una replica del miglior spettacolo o della migliore regia. Perché la stupenda energia di quella serata si ricompatti, si rafforzi come sta facendo in questa settimana attraverso la dimensione virtuale, ma anche si riconsegni al rituale stesso della visione teatrale. Che genera – lo abbiamo visto con i nostri occhi – così tanto entusiasmo.
Sergio Lo Gatto e Andrea Pocosgnich
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