IN TEATROSOFIA, RUBRICA CURATA DA ENRICO PIERGIACOMI – collaboratore di ricerca post-doc e cultore di storia della filosofia antica presso l’Università degli Studi di Trento – CI AVVENTURIAMO ALLA SCOPERTA DEI COLLEGAMENTI TRA FILOSOFIA ANTICA E TEATRO. OGNI USCITA PRESENTA UN TEMA SPECIFICO, ATTRAVERSATO DA UN RAGIONAMENTO. Nel numero 87 proviamo a proporre tre possibili scenari nel rapporto tra potere e teatro
«O gods and goddesses!
These flow’rs are like the pleasures of the world;
This bloody man, the care on’t».
William Shakespeare, Cimbelino (atto IV, scena 2, vv. 295-297)
Il potere logora chi ce l’ha o chi non ce l’ha? Una risposta a questa domanda richiede che vengano poste due condizioni. Da un lato, è necessario definire che cos’è il potere. Dall’altro, occorre capire se la potenza sia un fine in sé, oppure se sia un mezzo per cercare altro – e in tal caso, che cosa sia a sua volta questo “altro”. Se poi solleviamo la questione dei rapporti tra il potere e il teatro, la questione si complica ancora di più. Si aprono infatti al riguardo almeno tre scenari possibili. O il teatro è identico al potere, oppure è un fine a cui mira il potere, o ancora è un mezzo per raggiungere il potere. Entro questa impalcatura concettuale possiamo allora precisare ancora meglio la questione. Il teatro logora chi lo fa o chi non lo fa?
Sul problema della definizione del potere possiamo procedere speditamente. La potenza consiste nella capacità di un individuo o di un’organizzazione di fare o di non fare qualcosa che si desidera o si vuole. A seconda degli ambiti in cui il potere viene esercitato, ne discenderanno diverse qualificazioni. Avremmo così ad esempio il potere “politico”, se si ha modo di realizzare il desiderio di governare lo Stato, mentre avremo il potere “conoscitivo”, se si ha la facoltà di conoscere un dato fenomeno. Partendo da questa premessa, possiamo forse arrivare alla definizione più complessa del potere come una sorta di “puro neutro dell’azione”. La potenza consiste nella capacità di conseguire una cosa e il suo contrario, a prescindere da quali siano queste cose. Un individuo o un’organizzazione sarà allora tanto più potente quanti minori saranno i limiti o i vincoli a cui deve sottostare. Nel concreto, la sua potenza consiste nell’avere la capacità di decidere in ogni momento se fare la pace o la guerra, cercare la conoscenza o restare ignorante, assecondare un desiderio o reprimerlo.
Già in questa definizione si nasconde dunque un abbozzo della seconda questione che abbiamo sollevato. Il potere non è forse mai un fine in sé, ma sempre un mezzo per altro. Nessuno esercita infatti la potenza di per se stessa, perché tale attività risulterebbe vuota e insignificante. Riprendendo il caso dell’individuo onnipotente che è stato accennato, questi non sceglierà di fare una data cosa o il suo contrario, se non avrà una data ragione per optare per l’una o per l’altro. Disporre dunque del potere assoluto non è sufficiente. Occorre anche capire dove indirizzarlo, altrimenti risulterà semplice forza, violenza, energia bruta.
Questo argomento ci riporta alla questione dei rapporti del teatro con il potere. Se i due sono tra loro identici, ne seguirà la stessa difficoltà appena evocata. Il teatro avrà bisogno di un fine, pena il risultare qualcosa di inerte e superfluo. Se invece il teatro è o il mezzo del potere, oppure è un fine del potere, bisogna capire perché è un mezzo o un fine. Qui purtroppo le opinioni che si possono formulare sono molteplici e non è possibile arrivare a una prospettiva univoca. I filosofi antichi che abbiamo finora studiato ci aprono un labirinto, in cui sono lecite le seguenti vie di uscita.
La prima ipotesi di soluzione è che il potere miri al piacere. In altri termini, si esercita la potenza perché è piacevole farlo, mentre trovarsi incapaci di poter fare qualcosa ci logora perché è sgradevole. Secondo tale prospettiva, il teatro sembra essere più un fine che un mezzo del potere. Gli spettacoli sono intrinsecamente piacevoli, come ad esempio sostenevano Epicurei e Cirenaici, dunque un potente ha tutto l’interesse a sfruttare le sue risorse per organizzarli. Il problema di una simile concezione è che, se il piacere fosse il fine, allora ci si cimenterebbe in un’attività logorante che, a lungo andare, non porterebbe a nulla. È un fenomeno noto che il godimento si dilegui nell’attimo stesso in cui è raggiunto, o che venga subito seguito da un nuovo dolore, e ciò accade anche alle gioie di tipo estetico. Uno spettacolo che ci aveva fatto tanto godere oggi è perduto e, anche se riusciamo a ricordarlo nitidamente nella memoria, non ci procura la stessa piacevolezza che aveva dato in passato. L’assenza di quell’esperienza potrebbe anzi ora farci struggere di nostalgia. Inseguire il piacere del teatro sarebbe vano come tentare di abbracciare un’ombra.
Una seconda ipotesi è, di contro, che il potere miri alla virtù. Esso può servire a creare tutte quelle condizioni affinché rifulgano la giustizia, la temperanza, la saggezza e il coraggio. Così, ad esempio, si userà il potere per organizzare le guerre che porteranno alla cancellazione delle ingiustizie, o a organizzare lo Stato in un modo tale che i cittadini siano temperanti e dotati di buon senso. Qui il teatro sembra allora essere più un mezzo che un fine. Gli spettacoli possono infatti anche non ambire a qualcosa di morale. Lo sapeva bene Platone, che col concetto di “teatrocrazia” e con il suo rigetto del teatro dalla città perfetta – perché gli attori possono innescare negli spettatori delle passioni nocive per il singolo o lo Stato – pensava di rendere il teatro una questione su cui devono decidere i potenti. Bisogna ammettere non tutti gli spettacoli, ma solo quelli che in un qualche modo migliorano moralmente la società. O ancora, possiamo notare che Solone e i sofisti come Protagora ricorrevano al teatro come a una “maschera” per combattere il potere tirannico e per educare i cittadini, evitando l’arte quale gioco fine a se stesso. Questa prospettiva ha il difetto di supporre che la virtù valga sempre il prezzo che comporta e di non accorgersi di promuovere spesso dei vizi sotto il bel nome di “virtù”.
L’esempio della guerra per portare la giustizia è una maschera per commettere l’ingiustizia di trucidare le vite e i talenti di molte persone. E con la scusa di rendere uomini e donne temperanti, spesso i moralisti li o le rendono affette da pigrizia. Essi sostengono che non bisogna sottoporsi al faticoso lavoro di seguire, correggere o sublimare i propri desideri, bensì estirparli per non cadere in tentazioni nocive. A ciò va infine aggiunto che, spesso, gli spettacoli senza fini morali sono apprezzabili proprio perché non sono edificanti. Ci sono lavori teatrali che non insegnano nulla, e tuttavia aprono squarci o visioni poetiche che la virtù non può nemmeno sognare. Se il teatro è un mezzo per un potere che vuole essere virtuoso, allora questo stesso potere si rivela essere tonto e castrato di ogni energia.
Terza e ultima via di uscita dal labirinto delle opinioni sul potere / sul teatro è infine la conoscenza. L’uomo potente mira forse a conoscere la realtà per come è, usando tutti i propri mezzi per condurre quanti più esperimenti ed esperienze possibili. Solo una grande potenza tecnologica e finanziaria può, del resto, spendere enormi risorse per lanciare gli uomini sulla Luna e su pianeti lontani. Anche quando sembra decidere di ignorare qualcosa, il potere lo sta dunque facendo per sapere dove questa ignoranza potrà portare, oppure perché ritiene che non conoscere questo qualcosa sia una forma di conoscenza. È questa concezione generale che tiene insieme prospettive tra loro altrimenti molto diverse, come l’idea di Platone che la conoscenza sia uno “spettacolo” della verità pura, o la prospettiva di Aristotele che vuole che essa consista nella contemplazione della fragilità e degli errori che gravano sull’umanità in senso lato. Da tale punto di vista, il teatro può essere concepito sia come un mezzo che come un fine del potere. Esso è un mezzo quando diventa uno dei tanti strumenti per rappresentare e dunque divulgare il sapere già appreso (si pensi ai lavori dei cosiddetti “teatro-scienza” e “teatro civile”).
È, di contro, un fine laddove si mettano al servizio soldi, talenti e altro per conoscere attraverso il teatro qualcosa di ancora ignoto, tra cui gli abissi dell’animo umano. Anche una simile concezione si espone tuttavia a un banale e pur inevitabile difetto. Conoscere può non sempre essere un bene e meritevole di ricerca. Sapere troppo presto o troppo approfonditamente quali siano le nostre miserie può condurci, per esempio, alla disperazione e all’odio verso l’esistenza, quindi sarebbe ben preferibile a una moderata ignoranza, o a una mezza conoscenza. Sapere aude? E perché dovrei osare con coraggio di conoscere, se così facendo sarò solamente invaso da un incontrollabile terrore?
Vi è poi un limite comune di cui soffrono le tre prospettive considerate. Esse trascurano che anche nelle realtà opposte ai tre fini presi in esame possa esserci qualcosa di buono e meritevole di ricerca attraverso il potere. Il dolore è ben più utile o preferibile al piacere quando è una fatica che affina la mente e ottimizza il tempo (si pensi alla sofferenza dello studio e dell’ascetismo). L’abbandono al vizio dell’intemperanza è efficace per crearsi un abito mentale che pensa fuori dalle regole, dunque per saper guardare a un problema o a una situazione difficile in maniera inconsueta. È del resto da atteggiamenti simili che trae la sua verità il detto secondo cui il genio è parente della sregolatezza. E infine, la menzogna è a volte più buona della verità o della conoscenza. Dobbiamo pur lasciarci ingannare da ideali e utopie che sappiamo benissimo essere fallimentari, affinché la realtà nuda non ci risulti intollerabile. Miseria dell’edonismo, del moralismo, della filosofia, che fanno del piacere, della virtù, della verità un feticcio che logora l’intelletto… E grandezza, forse, del teatro, che rappresenta spesso sulla scena delle visioni amare o dolorose, prive di morale e colme di menzogne che danno qualcosa che le normali esperienze piacevoli, virtuose, conoscitive non possono concedere.
Il paradosso che segue a questo ragionamento è che le rappresentazioni teatrali sembrano unire qualità che normalmente sono tra loro contraddittorie. Il teatro è insieme piacevole e doloroso, virtuoso e immorale, sapiente e menzognero, diversamente dagli oggetti cercati dal potere (piacere, virtù, conoscenza), che sono ottenuti indipendentemente dal loro contrario. Questo risultato rende forse plausibile, in positivo, l’ipotesi secondo cui potere e teatro siano tra loro diversi, nonché che il secondo non possa essere un mezzo per realizzare il primo. Quando ad esempio un potente ricorre al teatro per migliorare la comunità e raggiungere la virtù, esso non sta usando tanto il teatro, quanto una parte del teatro. Specificamente, sta usando quella sua porzione che può essere usata per educare e non quella che, di contro, genera visioni poetiche che di morale non hanno nulla, o addirittura vanno contro il moralismo comune. Il teatro in sé resta incorrotto dalle pretese moralistiche. In negativo, il ragionamento ci presenta adesso il problema di capire che cos’è questo qualcosa che è piacevole-doloroso, virtuoso-immortale, sapiente-menzognero, in poche parole che sembra incarnare il tutto nella sua complessità e nel suo mistero.
Mantenendo la debita cautela, perché qui il discorso si fa complesso e non può essere degnamente approfondito in tal sede, si può presumere che il candidato consista nella “bellezza”. È almeno dai tempi dell’Ippia maggiore di Platone che questa entità mostra di sfuggire a ogni definizione comprensiva. In questo dialogo platonico, del resto, alcune proposte di identificazione del bello (il piacere, l’utile, la convenienza) fatte dal sofista Ippia vengono confutate, mostrando in sostanza che non sempre la bellezza è piacevole, utile e conveniente. E la ragione è, appunto, che il bello ha anche una componente dolorosa, sconveniente e inutile. Si pensi rapidamente alla tragedia. Questa rappresentazione è piacevole da guardare-ascoltare e insieme dolorosa nei contenuti, mostra gesta di eroismo e nello stesso tempo le massime brutture di cui siamo capaci, ci fa conoscere qualcosa di vero sulla nostra vita e contemporaneamente mente con falsi quanto incantevoli miti. La bellezza del teatro è insomma superiore al potere, perché incarna l’ambizione non di governare ed esplorare tutto, bensì di concentrare la totalità in un punto. Sarebbe un po’ come distillare l’oceano in una goccia e condensare tutto il cielo in un grano di respiro.
Certamente questa ipotesi di descrizione della bellezza del teatro suona come inumana o inaudita. Essa ci presenta il bello come talmente terribile e vasto da far sorgere il sospetto che nemmeno la potenza di un dio fornisca mezzi necessari e sufficienti per raggiungerlo. Del resto, basta guardare al nostro mondo per rendersi conto che, se esiste una divinità creatrice, nemmeno essa riesce a far riflettere la piena bellezza nell’universo. Ci sono avvenimenti o luoghi della terra in cui dolori, eventi immorali e manifestazioni di ignoranza che non hanno nulla di bello, perché affossano chi li prova nella mediocrità e le priva delle energie per esercitare le proprie capacità cognitive. Nulla a che vedere, insomma, con l’amarezza, la viziosità o la menzogna estetica del teatro che affina l’intelletto, invece di affossarlo. E se neanche un dio creatore e che dispone del potere assoluto può diffondere ovunque il bello, perché ci dovremmo riuscir noi? La bellezza sembra essere una realtà né umana, né divina. A noi e agli dèi restano solo vaghe approssimazioni.
Platone chiudeva il già citato Ippia maggiore con Socrate che cita un proverbio greco allora popolare: «Le cose belle sono difficili». Qui il filosofo sembra essere stato troppo ottimista. La bellezza del teatro non è difficile. La sua bellezza potrebbe essere impossibile.
Enrico Piergiacomi