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Wilde a Broadway nel cine-teatro di Kip Williams

Recensione. The Picture of Dorian Gray con Sarah Snook e la regia di Kip Williams, al Music Box Theatre di Broadway, è in scena fino al 29 giugno, per un totale di tre mesi.

Foto Marc Brenner

Kip Williams è un regista australiano sulla quarantina, in grande ascesa espressiva e di carriera. Presenza corpulenta, riservata e barbuta, un po’ demiurgo un po’ manipolatore, è fautore di una personale, intelligente e ambiziosa sintesi fra cinema e teatro, che utilizza il video in maniera straordinariamente creativa, portandolo ai suoi limiti estremi e sondando possibilità impensate offerte dalle nuove tecnologie. Coniuga spettacolarità e sperimentazione, riuscendo a intercettare un pubblico ampio e giovane e insieme a conquistare la critica, e lo fa con uno stile che è una sintesi brillante dell’estetica visiva elaborata oggi nei grandi concerti dal vivo, con il budget e la professionalità di un musical di livello, ed è certamente debitore e contributore dell’uso del video più interessante sulla scena d’autore europea degli ultimi anni (penso a declinazioni personali – ognuna meriterebbe analisi e distinguo – come ad esempio quelle di Milo Rau, Lukasz Twarkowski, Kornél Mundruczó, Séverine Chavrier).

Foto Marc Brenner

Già per 13 anni direttore artistico della Sydney Theatre Company (89 produzioni, 24 regie, ora proiettato in una dimensione internazionale), enfant prodige cooptato neanche trentenne da Cate Blanchett e Andrew Upton, Williams è reduce dallo straordinario e meritato successo di questa singolare versione scenica del Ritratto di Dorian Gray, romanzo da lui adattato per attrice sola, portato lo scorso anno nel West End. Al Royal Haymarket Theatre di Londra, dove Oscar Wilde allestì alcuni suoi testi teatrali, lo spettacolo è stato “solo quattordici settimane”, come strillava il marketing sul cartellone (teniture che in Italia possiamo solo sognare), ed è valso all’attrice protagonista di questo pirotecnico one-woman-show, Sarah Snook, anche lei di provenienza down under, e conosciuta internazionalmente soprattutto per un ruolo chiave in quella Dinasty newyorkese di spessore shakespeariano che è la serie Succession, un premio Olivier come migliore attrice, praticamente senza partita per le concorrenti inglesi. Questa traduzione teatrale, che ha debuttato nel 2020 a Sydney con differente attrice (Eryn Jean Norvill), porta ora la Snook e il suo Pigmaglione (sostanzialmete impegnato in una regia/montaggio in diretta ogni sera per un paio d’ore abbondanti) a Broadway, dove lo spettacolo, aperto a metà marzo 2025, sarà al Music Box di New York fino a metà giugno.

Foto Marc Brenner

Nello spazio vuoto della scena (“a bare stage”, in didascalia nella riduzione pubblicata da Samuel French), uno schermo enorme (un monolite alto 5-6 metri) e verticale (orientamento da smartphone) è sospeso al centro. Questo luogo spoglio e scuro accoglie lo sguardo dello spettatore in una dimensione solo all’apparenza minimalista, pronta com’è a sbocciare in fioriture e fuochi d’artificio, feritoie e ferite rosso sangue, feste e foreste, camerette d’infanzia e stanze segrete, teatri e piedistalli, specchi e riflettori puntati su corruzione dell’anima, edonismo e perdizione. Sul palco nero le marche colorate fitte fitte di-segnano e pre-figurano infatti una mappa di movimenti e posizionamenti complessa e precisa, frutto di una scenotecnica raffinata, prospettive logistiche e prossemiche labirintiche che ospiteranno un’intricata coreografia, una danza per attrice sola, con troupe video (che si muove, nella penombra, in simbiosi con la protagonista e a momenti balla pure con lei: alla fine saranno una decina gli assistenti di scena a raccogliere gli applausi).

Foto Marc Brenner

Snook, talento “Aussie” che sfodera accenti British, è emersa nel ruolo americano di Shiv Roy, personaggio dal fascino moralmente corrotto al centro della serie HBO Succession (drammaturgia elisabettiana, quattro stagioni 2018-2023 premiate da pubblico e critica, script con dignità di pubblicazione e decisamente da leggere, un cast fenomenale che non a caso dal teatro viene a al teatro torna: a due passi, sempre a Broadway, Kleran Culkin è ora nel revival di Glengarry Glen Ross di David Mamet). Qui entra in scena sul fondo del palco circondata dallo sguardo di cinque videocamere, e per tutto il segmento iniziale (un buon quarto d’ora di “non celebrità”) è insieme nascosta, velata, eppure amplificata in primi e primissimi piani riportati sul maxi schermo (un po’ stella del cinema classico, un pizzico pop star, in filigrana mago di Oz). Per le due ore successive viene vestita, trasformata, rimessa in scena (attraverso costumi, trucco e parrucco, attrezzi indiziari e scorci scenografici) e in quadro (dall’occhio costantemente acceso delle videocamere e dal moltiplicarsi degli schermi) senza tregua, alternando ventisei (26!) personaggi, con quello che, mimetico dello stile wildiano e della sua perpetua mise en abyme (già la trama del libro è ricchissima di teatro nel teatro), pare la forma-formula di una matrioska in carne ed ossa, un gioco di specchi, vertigine percettiva barocca che ben si presta a restituire (anche se la complessità non diventa mai confusione) la natura umana proteiforme e inafferrabile raccontata dal romanzo, e a cogliere, con una messa in scena abissale dell’identità, non solo il ritratto dell’epoca vittoriana e del suo sguardo individualista, ma anche l’opera dell’attore nell’epoca della sua riproducibilità tecnica, fino alle odierne rifrazioni identitarie narcisistiche che sperimentiamo sui profili dei social. Giocando, ma non troppo, si potrebbe allora parlare del Selfie di Dorian GrAI, in tutte le sue sfumature (una nessuna e centomila). Carpe Instagram: lo schermo è maschera, velo, vetrina, spettro, avatar, filtro, lente e specchio. Deforma e rivela. Tutto è teso a dar vita a uno spazio in cui, come in un gioco di prestigio, diventa difficile distinguere trucco e realtà, illusione e vero, maschera e volto (ci sono momenti in cui non è decidibile lo statuto di quello che vediamo): l’identità è moltiplicata e frazionata, in questo forse corrotta, e continuamente reinventata (non è l’artificiale, intelligente o meno, nella sua dimensione creativa onnipotente e indistinguibile, lo spettro che ci esalta e atterrisce in questo trapasso epocale?). Eppure Williams ha il colpo di genio di non mostrarci direttamente il “picture” del titolo, lasciando che il ri-tratto prema nei controcampi e aleggi nel fuoricampo, sottratto, inimmaginabile, interiore, ulteriore, metafisico. Osceno.

Foto Marc Brenner

Questo “cine-teatro” (definizione dell’autore) poderoso, stupefacente, innovativo è adottato con coraggio, consapevolezza, almeno da un Improvvisamente l’estate scorsa del 2015, e portato a perfezione attraverso una trilogia gotica composta da un Dracula di Stoker (con Zahra Newman in tutti i ruoli) e un Dr. Jekyll e Mr Hyde (con soli due attori), con Dorian, primo capitolo fondativo di questa serie, tocca un vertice di virtuosismo e pertinenza. Si tratta infatti di un dispositivo scenico che mescola lo spettacolo dal vivo e la ripresa, il montaggio in diretta e l’effetto sovrapposto, esaltando la performance atletica e proteiforme del corpo attoriale fino all’ultimo respiro. Lo fa con una regia di millimetrica accuratezza, che diviene quasi soggetto e personaggio a sé, e ingabbia l’attrice in una notevole prova di precisione, resistenza fisica e libertà nella costrizione (Snook, tra l’altro mamma da poco, ha letteralmente tre momenti per un sorso d’acqua, e racconta – si legga la bella intervista di Helen Shaw sul New Yorker – l’astensione da fumo e alcol, la regolarità di sonno e abitudini, e di essersi esercitata a questo tour de force saltando la corda e andando sul tapis roulant mentre ripeteva le battute, sul modello di Taylor Swift). E il dialogo con il video (il nostro essere sottoposti/filtrati sempre più per mezzo di uno sguardo complice e alieno, il suo essere imbeccata talvolta da una registrazione di se stessa fatta un paio d’anni prima – con felice cortocircuito con il tema del libro), in un rimpallo continuo di obiettività e punti di vista, mescolando quello che avviene in diretta con parti riprodotte, sovraimpressioni, filtri e modifiche, non è mai show-off puramente manieristico (registico) o esibizione vuotamente istrionica (attoriale), ma la ricerca di un linguaggio per far emergere ed esplodere, sul piano formale ed emotivo, in tutta la loro potenza e veggenza, i nuclei attualissimi della prosa di Wilde.

Dalle prove Sarah Snook e il regista Kip Williams. Foto Marc Brenner

In uno spettacolo in cui il personale tecnico è un assistente attivo  – che non solo segue la protagonista con il suo sguardo sulla scena (e per un tratto anche dietro le quinte), ma le passa al momento giusto oggetti di scena (specchi, libri, pennelli e coltelli, sigarette), le infila giacche e leva pantaloni al volo, allestisce in diretta le scenografie – il trasformismo, a volte innescato da semplici props e uno “semplice” stacco d’inquadratura, non solo si nutre di cambi di costumi, variazioni posturali, plasticità dell’espressione facciale, ma prende sostanza con transizioni di genere (Snook aveva già fatto l’uomo nel film Predestination) e modulazioni vocali (dall’acuto dentale Basil al mellifluo caldo Lord Henry, dai toni più di testa di Dorian alla voce “naturale” della Snook in veste di narratore), e si serve anche dei filtri del cellulare, che fungono ora da maschere per mutazioni istantanee di personaggio ma anche come strumento per indagare e mettere a nudo l’ossessione di Dorian per gioventù e bellezza e le possibilità di deformazione, mostrificazione e “plastica” che il digitale rende a portata di touch.

Si potrebbe dire che il tema faustiano, della vendita dell’anima in cambio dell’eterna giovinezza, viene in questo modo aggiornato, e la sfida/scommessa del regista stesso, con un patto tecnologico coraggioso e teso al limite, dimostra come si possa dare al teatro in primis una nuova forza giovane e creatrice, a partire però sempre dal corpo generativo dell’attore, e senza perdere davvero l’anima sua.

Matteo Columbo

Visto il 25 febbraio 2024 al Theatre Royal Haymarket di Londra e il 17 marzo 2025 al Music Box Theater di New York, in scena fino al 29 giugno 2025

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