Al Teatro Comunale di Ferrara il Béjart Lausanne Ballet, ora diretto da Julien Favreau, è finalmente restituito a tutta la complessità della sua storia grazie a un programma che contiene, in gran parte, il presente del nostro passato.

Troppo presto rimosso perché troppo in ritardo sulla sua uscita di scena, gli ultimi anni creativi di Maurice Béjart (1927-2007) non sono stati gloriosi, soltanto ottusamente glamour e ciecamente pop (ma anche gli ultimi lavori di Bausch, che palle e che noia…). È un tema: scansare ‘la morte in scena’ a tutti i costi, oppure preferirle magari una più sobria e paolina cupio dissolvi nella rinuncia e nella consegna ad altri, anche solo per non compromettere la vita delle proprie opere nel presente nonché il ritorno di quelle che non sono più. Eppure Béjart occupa un posto ingombrantissimo nella storia di quest’arte, un ruolo storicamente spesso decisivo e culturalmente fra i più influenti nella danza del ventesimo secolo, e che la nuova programmazione della nuova direzione del Béjart Lausanne Ballet, oggi affidato a Julien Favreau, sembra intenzionata a restituirgli, come è pur giusto che sia. Sono certo che dovremo tornare a studiare il magistero di Béjart superando pregiudizî e incomprensioni su colui che in fondo fu l’ultimo dei grandi modernisti. La passata gestione della compagnia imponeva d’arbitrio alle tournée del repertorio béjartiano pure inguardabili (e improbabili) coreografie dell’allora zelante direttore ed erede per forza, Gil Roman, che non potevi scansare: o così o niente. Fu quell’estetica in fondo distorta che quindi si impose.

Infine c’è un mito Béjart che resta incollato al suo capolavoro più di grido, purtroppo diluito e compromesso in mille interpretazioni di mille improbabili corpi nei gala di mezzo mondo, il Bolero di Ravel (nato in origine per l’indimenticabile, immensa Savignano), con versioni muscolari e machiste di étoile velatissime (‘eh ma cosa direbbe la mamma… e nonna Pia… e zia Aurelia, quella strega linguaccia’). Niente a che vedere con la perturbante androginia del forse suo più grande interprete, Jorge Donn (1947-1992). Ricordo di averne vista una versione a Cremona, in un festival estivo all’aperto di troppi anni fa, interpretata da un giovanissimo e minuto studente del Mudra, la scuola di Béjart. Una meraviglia: tanta bellezza coincideva perfettamente col sudore e la stanchezza di questo poco più che adolescente corpo messo a dura prova, in un supplizio sacrificale che in Béjart (come in Jean Genet e altri maudit della sua epoca) è sempre godimento, mai espiazione. Già tanto sarebbe ritrovare Béjart a partire proprio da qui.

Il programma di Ferrara è idealmente diviso in tre parti: sperimentazione, duetti, e capolavori. La serata si è aperta con le incredibili Variations pour une port et un soupire, del 1965 (riprese nel 1972) su musica concreta di Pierre Henry del 1963. Qui Béjart abdica alla sua funzione di coreografo, e appronta un dispositivo aleatorio capace di generare una lista di “situazioni” (tra cui il dormire di avvio, l’immobilità prolungata con lo sguardo sul pubblico, nonché la morte di tutti del finale), accompagnati da una partitura di rumori di una porta e di sospiri che esplodono. Una lista su due tabelloni sospesi sul fondo, è raccolta e “resa concreta” dai corpi di sette interpreti destinati by chance (per autoestrazione) in avvio. È un lavoro ancora radicale, di una forza di rottura delle convenzioni acustiche, visive e compositive che sembra perfettamente anticipare, in corpore vili, tanti verbosi discorsi giustificativi della nostra postcontemporaneità coreica (postcoreografia, postdanza, postutto) che necessitano sempre di un lungo sproloquio, tedioso e imbragato da mille epistemologie ultime o nuovissime, resistenti e situate, e che qui resta muto di fronte a tanta audacia, radicalità, intuizione, predizione che è già decostruzione, pure in fondo di fronte anche a tanta danza danzata senza danza ma con la danza per soggetto e la danza controsoggetto nell’arbitrio di chi danza. (È proprio vero che chi non conosce la storia è destinat* a subirla).

La sezione dei duetti ha invece al centro la capacità di Béjart di conoscere e frullare insieme temi e motivi del mondo tutto, sempre come un Joyce babelico e felicemente affermativo o secondo strategie fredde alla Robbe-Grillet e del Nouveau roman. In un esercizio del coreografare, però, su corpi sempre disponibilissimi (perché molto ben preparati) e come mandatari dell’imperituro. La musica è d’ogni tempo e luogo, per far scoppiare la tradizione e perché la danza viene sempre per prima. Si inizia con Duo (da Pyramid El Nour , 1990) su musiche tradizionali islamiche (Munir Bashir): qui Valerija Franck sulle punte è magnetica e imperiosa, la sua presa dello spazio è perentoria e affermativa, anche se qui è in coppia con Oscar Frame che è insieme un felice alleato, non meno che una ben disegnata controparte.

Così chi guarda non può mai anteporre una logica di scelta, ma restare nell’evento. Seguono due coppie solo maschili: Danse Grecque (immagino da 7 Danses Grecques del 1983) su musiche di Mikis Theodorakis, e Faust (estratto da Notre Faust, 1976), su musica di Gerardo H. Matos Rodriguez: e qui emerge con forza un omoerotismo mai volgare, sempre solare e oggettivo, in una misura che oggi arriva appena, non disturberebbe la più digrignante attivista pro-vita né l’adepto mascherato di qualche forum evangelico. Nel primo, Kwinten Guilliams e Konosuke Takeoka si inseguono e si cercano nella meraviglia e quasi tentando di essere uno il corpo dell’altro; nell’altro, i due bravissimi italiani, Alessandro Cavallo e Angelo Perfido danzano un tango strepitoso fin a partire dalle mani, poi è tutta una corsa anche gioiosa a prendersi e lasciarsi in una specularità che è anche drammaturgica. Chiude questa sezione Dibouk (1987) su musiche tradizionali ebraiche: è il meno interessante e a bassa densità inventiva, ispirato alla tradizione della cabala, mostra la promessa di eternità di una coppia nella Parola divina: è il cortocircuito più probabile, nel credo coreografico di Béjart, quando il motivo diventa decorativo, e la povertà dell’invenzione rende il quadro una sbiadita illustrazione (vabbè pazienza).

Ha chiuso la serata il celebrato L’oiseau de feu (1970) sulla suite musicale di Stravinskij: qui il mito di rinascita nel fuoco delle ceneri celebra l’unità tra l’Uccello (Hideo Kishimoto, radioso) e la Sfinge (Oscar Frame, enigmatico e ieratico il giusto), sulle soglie di una propaganda comunitaria per la rivoluzione di un ensemble sempre coeso e tutto vestito in (brutte) livree da socialismo reale, mentre la coppia principale declinata al maschile alla fine redime la Storia proprio uno nelle braccia dell’altro. A trovarne… L’ennesimo martirio dell’annuncio, della poesia, della liberazione (nella crocifissione, come suggerisce perspicace Carmelo), o nella difficile attesa di una desolata resurrezione?
Stefano Tomassini
Ferrara, Teatro Comunale, aprile 2025
coreografie Maurice Béjart
musiche Pierre Henry, Igor Stravinsky, Mikis Theodorakis, Gerardo H. Matos Rodriguez
direzione artistica Julien Favreau
programma
Variations pour une porte et un soupir
L’Oiseau de Feu
Danse Grecque
Tango de Faust