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Intervista a Gianni Forte. Il teatro nel suo passaggio di testimone

Intervista a Gianni Forte, drammaturgo, regista e traduttore con una carriera articolata tra teatro, scrittura e formazione. Fondatore nel 2006, insieme a Stefano Ricci, del duo artistico Ricci/Forte, e dal 2021 al 2024 co-direttore artistico del settore Teatro alla Biennale di Venezia. Attualmente, è direttore artistico dei Teatri di Bari  insieme a Teresa Ludovico.

Guardarsi indietro è sempre un’esperienza particolare: un misto di nostalgia e gratitudine assale chi intraprende questo viaggio nei ricordi, sospinto dalla voglia di ritornare a ciò che è stato, di proiettarsi verso ciò che ancora può accadere. Raggiungo Gianni Forte al telefono e dal nostro scambio emerge una consapevolezza piena, matura, soddisfacente, riguardo a tutto quello che c’è ancora da costruire, per un viaggio artistico e personale nel teatro che è tutt’altro che finito. Sentire non solo quella necessità, ma il dovere di trasmettere l’energia che brulica da e per la vita, da e per l’arte, alle nuove generazioni, come in una staffetta: il testimone va passato, affinché altri possano continuare la corsa. Dunque, cominciamo.

GIANNI-FORTE_ph. Aggeliki E. Mitsi

Nel corso della tua carriera, hai spesso esplorato l’intersezione tra diverse forme d’arte, come il teatro, le arti figurative e la musica. Come queste contaminazioni influenzano il tuo processo creativo e come è cambiato il tuo approccio ad esse durante il tuo percorso artistico?

Devo essere sincero, non è cambiato molto. Forse sono cambiato io, come persona. L’ibridazione di arcipelaghi linguistici — visuali, acustici, sonori, materici — è sempre stata per me un punto di riferimento, un dialogo costante con le urgenze del presente. Progettare, sperimentare, cambiare visione: il mio approccio è sempre stato quello di restare vigile, pronto a elaborare nuove “officine di idee”. Per me il teatro non è uno solo, esistono molti teatri possibili. L’essere plurale è come l’universo: il pensiero non conosce checkpoint, dogane, frontiere. Le arti sconfinano, superano qualsiasi linea di demarcazione. Personalmente, amo le opere di interferenza e cerco di accostare partner di gioco sempre più insoliti e inediti, lanciando liane che fungano da passerelle o ponti tra diversi linguaggi. Questo intreccio genera nuove cartografie, permettendo di esplorare orizzonti ancora sconosciuti. E forse proprio questa attitudine ha permesso una mia sorta di rinascita, segnata, se vogliamo, dall’opera in scena al Teatro Franco Parenti di cui sono drammaturgo (ndr. Schegge di memoria disordinata a inchiostro policromo): dopo tanti anni di collaborazione con il mio collega Stefano Ricci, ho riabbracciato il mio nome di battesimo, dando vita a un nuovo percorso “solitario”. Non un punto d’arrivo, ma un nuovo inizio.

PORTRAITS EN PAYSAGE ph.Louise Quignon

In un’intervista del 2010 su Teatro e Critica hai menzionato l’importanza di allontanarsi dal wallpaper theatre e di coinvolgere attivamente lo spettatore. Quali esiti ha avuto, secondo te, questa scelta nei 15 anni trascorsi da quell’intervista e quali passi pensi siano ancora da fare?

In un certo senso, ci sono tornato, ci siamo tornati come duo in teatri coma a Napoli e a Roma, che di wallpaper avevano ben poco. Credo che la struttura e la confezione contino relativamente: è il lavoro che si svolge all’interno a fare la differenza. Il pubblico poi è particolarmente cambiato. Quello che una volta frequentava solo i teatri bourgeois ha preso strade diverse, si è avvicinato ad altri spazi, forse per moda, forse per passaparola. Da guerrigliero, mi sono sempre assunto il rischio dell’avventura, buttandomi nell’ignoto, ascoltando l’inaudito, cercando di abbracciare lo straordinario. Questo è stato il mio percorso anche nei quattro anni della Biennale Teatro di Venezia e ora nella nuova nomina ai Teatri di Bari come direttore artistico internazionale.
Oggi sento una responsabilità etica nel sostenere le nuove generazioni di artisti, dando loro non solo uno spazio per accogliere e mostrare il proprio lavoro, ma un vero luogo di sperimentazione, formazione e scambio. Devono poter sviluppare un linguaggio personale, libero da quello che io chiamo il “mansplaining della cultura”. Ora voglio che anche le nuove generazioni di “tessitori di sogni” abbiano la possibilità di emergere, di uscire dall’invisibilità e dalla precarietà che avevano caratterizzato i nostri inizi.

Effettivamente, durante la vostra direzione alla Biennale Teatro, avete rilanciato nuovi bandi e opportunità per giovani artisti (ndr. nel 2021 il bando per performer italiani e stranieri under 40), sottolineando l’importanza di creare una rete tra artisti e istituzioni…

I bandi della Biennale College per giovani registi, autori e performer hanno offerto un’opportunità concreta di crescita. Come diceva Deleuze, bisognava trovare nuove vie d’uscita, senza pregiudizi. I vincitori hanno avuto accesso a un budget significativo, permettendo loro di affermare la propria identità artistica in un mondo in piena mutazione. Durante quei quattro anni, abbiamo dato la possibilità di creare un’intera sezione ai giovani artisti, segnalando progetti, facendo conoscere opere, creando uno spazio per loro e aiutandoli a comprendere i pilastri della loro creatività, spingendoli a sperimentare, a capitalizzare la loro potenzialità comunicativa. Abbiamo aperto nuove strade, nuovi linguaggi, facendo germogliare capacità immaginifiche e polifoniche.

PORTRAITS EN PAYSAGE ph. Louise Quignon

Come direttore artistico dei Teatri di Bari, quali strategie vuoi mettere in campo per coinvolgere il pubblico locale e rendere il teatro un punto di riferimento culturale nella comunità?

Il mio sogno è creare, insieme alla codirettrice Teresa Ludovico, un teatro che sia un corpo vivo in dialogo con la città, una realtà capace di intrecciarsi con il tessuto urbano e sociale. Tornare in Puglia, la mia terra d’origine, rappresenta per me l’inizio di un nuovo viaggio: un salto verso un luogo familiare, ma ancora da esplorare, dove radici solide si uniscono a nuove opportunità per sperimentare traiettorie inedite. Un viaggio che custodisce il prezioso patrimonio culturale del passato e del presente, ma che al tempo stesso apre spiragli verso nuovi percorsi di crescita. La Puglia è sempre stata una culla di storie, suoni e immaginari, e vorrei che questo teatro fosse in continua evoluzione, capace di percorrere sentieri audaci. Il mio obiettivo è portare in scena narrazioni che superino i confini tra le discipline, mescolando corpo, parola, lettura, tecnologia e azione scenica, creare un laboratorio aperto, un luogo di incontro e scambio per artisti italiani e internazionali. Questo è anche il motivo che mi ha riportato qui: costruire un ambiente in cui le contaminazioni artistiche possano generare nuove forme e dare vita a meraviglie inaspettate.
Desidero un teatro che sia portavoce di tematiche identitarie e contemporanee, capace di dare voce alle differenze, che non si limiti ad osservare passivamente, ma che invece sia parte attiva di un percorso partecipativo. Con Teresa vorremmo sviluppare progetti site-specific, che escano dagli spazi tradizionali per abitare strade, quartieri e comunità. È un approccio che porto avanti già da quattro anni in Francia con il progetto Portrait en Paysage, un laboratorio di scrittura creativa ideato con la compagnia À Corps Rompus e rivolto a persone con accesso limitato all’istruzione e alla cultura, spesso a causa di contesti sociali difficili o crisi economiche. In questi atelier, che coinvolgono persone dai 5 ai 90 anni, cerco di far emergere quella “fiammanza” interiore che spesso resta inespressa. Con delicatezza, attraverso la scrittura o – per chi non conosce il francese – tramite registrazioni audio, do loro uno spazio per raccontare sentimenti, sogni e disillusioni. Un aspetto a cui tengo molto è abbattere la paura dell’altro, affinché non sia un freno né nelle relazioni quotidiane né nella possibilità di esprimere la propria creatività. Il progetto prevede anche la collaborazione di un fotografo che realizza i ritratti di queste persone, trasformando le loro storie in capsule sonore accessibili tramite QR code. Le immagini vengono poi affisse nei quartieri o esposte negli Istituti Italiani di Cultura, come recentemente in Tunisia e prossimamente ad Atene.
Forte dell’esperienza alla Biennale e della mia vita a Parigi, vorrei favorire interazioni tra il teatro pugliese e il panorama internazionale, facendo sì che non siano solo gli artisti stranieri a venire in Italia, ma anche le nostre produzioni a partecipare ai grandi festival europei, come quello di Avignone, e alle rassegne intercontinentali. Il mio sogno è che la Puglia e Bari diventino un punto di riferimento imprescindibile per il teatro contemporaneo, una vera fucina di idee capace di attrarre artisti, compagnie e spettatori da tutto il mondo.

La tua esperienza tra Italia e Francia ti offre una prospettiva privilegiata rispetto alle tendenze e ai linguaggi del teatro europeo: come possono contaminarsi i modelli di produzione e formazione artistica nei due paesi?

Credo molto nelle residenze artistiche, perché rappresentano uno strumento essenziale per accogliere voci alternative e favorire lo scambio di talenti, sia italiani che internazionali. Si tratta di sviluppare coproduzioni con l’estero, organizzare tournée strategiche che permettano ai lavori di oltrepassare confini e frontiere, creare legami che non siano effimeri, ma duraturi, e avviare programmi di scambio con accademie e scuole di teatro, per formare nuove generazioni di artisti con uno spirito aperto, libero da barriere e pregiudizi. L’idea è quindi quella di trasformare Bari e i suoi teatri – dal Kismet alla Cittadella degli Artisti di Molfetta, fino al Teatro Radar di Monopoli – in luoghi di accoglienza e sperimentazione, veri e propri centri pulsanti di cultura. Spazi dinamici, inclusivi, dove il teatro continui ad essere, come lo è stato grazie ai colleghi e ai maestri che mi hanno preceduto, un luogo di ricerca, condivisione ed esperienza. Il mio sguardo è rivolto al futuro, con la determinazione di trasformare questa visione in realtà. Non dico a breve termine, ma lavorerò con impegno affinché questo sogno prenda forma e si concretizzi nel tempo.

Schegge di memoria disordinata a inchiostro policromo

Mi hai accennato il tuo ultimo lavoro in scena al Teatro Franco Parenti, Schegge di memoria disordinata a inchiostro policromo, e mi hai parlato di una rinascita artistica legata alla riappropriazione di una dimensione creativa forse più personale, per una pratica che non si condivide più in due. Come si differenzia il lavoro del duo Ricci/Forte da quello di Gianni Forte?

Fin dall’inizio siamo stati un duo, un binomio cromatico, bianco e nero, nero e bianco, scambiandoci anche i ruoli. Non in opposizione, ma nella diversità, come dicevano i latini: non opposita, sed diversa. Poi, come accade nelle migliori famiglie, è arrivata una biforcazione: immagina un fiume che, dopo anni di percorso condiviso, si divide in due rami per poi confluire comunque nel grande mare dell’arte. Ognuno ha preso la propria direzione, seguendo una corrente autonoma, ma restando parte dello stesso oceano. Oggi stiamo aprendo nuovi sentieri, ciascuno il proprio, ma entrambi arricchiti da oltre vent’anni di esperienza comune, da un’eredità artistica che continua a risuonare dentro di noi. Ora siamo due voci soliste, ognuna con il suo timbro, la sua melodia. Io, ad esempio, mi sto dedicando a progetti letterari, riprendendo una passione di sempre. Il francese, che ora padroneggio, mi ha permesso di esplorare la traduzione di autori dimenticati, pur avendo avuto momenti di gloria. L’ultimo lavoro è stato la traduzione di La morte difficile, opera del grande scrittore surrealista René Crevel. Come ti dicevo, dopo la Biennale, ognuno ha intrapreso un cammino più solitario, almeno per quanto mi riguarda, ma ugualmente fecondo di scoperte. Sono approdato al Parenti grazie a Fausto Cabra e Andrée Ruth Shammah, che mi hanno commissionato un testo su un caso reale di cui ignoravo l’esistenza: la storia di Billy Milligan, il giovane americano arrestato alla fine degli anni ‘70 per violenza su tre donne in un campus universitario. Fu poi rilasciato perché ritenuto non responsabile, a causa della diagnosi di disturbo dissociativo dell’identità. Da qui è nata una sfida: esplorare cosa accade quando i frammenti dell’identità non si incastrano più, un viaggio nella scrittura che ho compiuto in solitudine, ma guidato dalla poliedricità stessa di Billy. Ho scavato tra documenti e archivi, cercando di ricostruire la sua memoria, intrecciando passato e presente per far emergere, attraverso il linguaggio teatrale, un flusso caotico e vibrante. La memoria non è mai lineare né ordinata e ho voluto restituirla con un linguaggio visionario, quasi macchinistico, che sento affine al mio modo di raccontare: una grana poetica capace di evocare più che spiegare. L’intento era creare una distanza nello spettatore, lasciandolo libero di ricomporre i frammenti, di costruire la propria visione della storia, come davanti a un mosaico incompleto. In fondo, assistere a questa vicenda significa anche partecipare a un processo, vestire i panni di un osservatore che, pezzo dopo pezzo, rielabora una propria versione di ciò che è accaduto.
Per me è stato un viaggio immersivo e arricchente, un’esplorazione profonda che non volevo ridurre a mera cronaca o a una semplice fiction televisiva, nonostante esistano già serie e film su Billy Milligan. La mia intenzione era raccontare la sua storia per quello che è, restituendole una dimensione più autentica e umana.

La tua esperienza è tracciata dall’esplorazione di terreni diversi: da autore e regista a direttore di un’importante manifestazione internazionale a direttore di teatro. Che cosa ti sei portato dietro da ognuno di questi ruoli?

Parto sempre da questo mio modo di raccontare la vita, di restare ancorato alle certezze del dubbio. Mi sento un po’ come quella divinità marina della mitologia greca capace di assumere qualsiasi forma: per me, solo l’apertura alla molteplicità e la varietà dei linguaggi espressivi che abbiamo oggi a disposizione permettono una vera evoluzione. Prima come persona, poi come artista. Questa fluidità mi consente di abbracciare nuove prospettive, di esplorare visioni inedite e riflessioni sempre diverse. Mi ha fatto sorridere quando hai ricordato l’intervista del 2010, mi hai portato a fare una sorta di excursus nel passato, non un bilancio, ma un viaggio emotivo tra ciò che è stato e ciò che ancora deve venire. È stato un momento, chiamiamolo pure nostalgico, ma nel senso più bello del termine: il ricordo delle esperienze vissute e delle sfide affrontate con la consapevolezza che ci sono ancora tantissimi progetti da realizzare.
Con la Biennale ho scoperto un altro modo di essere artista. Quando si dirige o si co-dirige una compagnia, inevitabilmente si è concentrati su se stessi, sul proprio percorso. La Biennale, invece, mi ha permesso di guardare oltre, di dedicarmi completamente allo scouting, senza produrre nulla della mia compagnia per quattro anni. Questo mi ha nutrito, mi ha restituito quella forza e quella volontà che avevo all’inizio della mia carriera, quando, alla fine degli anni ‘90, ho mosso i primi passi come attore.
Oggi, da “vecchio saggio”, mi rendo conto di essere stato un artista fortunato: ho raggiunto i miei obiettivi e ora il mio compito è trasmettere questa energia alle nuove generazioni, come accade nelle gare sportive, quando il testimone passa di mano. Eppure, nonostante abbia realizzato molti dei miei sogni, la mia “cassettiera” è ancora piena di progetti e desideri da concretizzare.
Il teatro è cambiato, i tempi sono cambiati. All’inizio della nostra carriera lo scenario era diverso: c’era il teatro dei grandi attori, dei registi iconici, e noi, appartenenti a una nuova generazione, abbiamo dovuto trovare strade alternative, percorsi meno battuti. Ora il pubblico è pronto, i teatri sono pronti, e la sfida continua.

 

Andrea Gardenghi

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Andrea Gardenghi
Andrea Gardenghi
Andrea Gardenghi, nata in Veneto nel 1999, è laureata all’Università Ca’ Foscari di Venezia in Conservazione e Gestione dei Beni e delle Attività Culturali. Prosegue i suoi studi a Milano specializzandosi al biennio di Visual Cultures e Pratiche Curatoriali dell’Accademia di Brera. Dopo aver seguito nel 2020 il corso di giornalismo culturale tenuto dalla Giulio Perrone Editore, inizia il suo percorso nella critica teatrale. Collabora con la rivista online Teatro e Critica da gennaio 2021.

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