Intervista. Una conversazione con Elena Lamberti, a partire dal libro di cui è autrice: La distribuzione degli spettacoli dal vivo. Un percorso di curatela
Elena Lamberti si occupa da anni di distribuzione, curatela artistica, project management e ufficio stampa. Attenta osservatrice e conoscitrice del settore, in una lunga e piacevolissima conversazione telefonica mi racconta di una personale e collettiva concezione delle personalità, ruoli e meccanismi della distribuzione degli spettacoli a partire da volume edito da Titivillus.
A maggio 2024 usciva per Titivillus il volume La distribuzione degli spettacoli. Un percorso di curatela, di cui sei autrice. È passato un anno e un nuovo decreto ministeriale, che non sembra invertire la tendenza che privilegia la produzione a scapito della programmazione. Hai notato cambiamenti o sviluppi nell’ambito della distribuzione?
Non direi che ci siano stati cambiamenti pratici nella distribuzione, ma ho notato con piacere che si è riaccesa la discussione su chi sia e quale sia la funzione di chi fa distribuzione. Il libro ha dato voce a un’idea condivisa con colleghi e colleghe: chi si occupa di distribuzione non si occupa solamente di vendere spettacoli, bensì compie un lavoro di cura e accompagnamento del percorso artistico. Dopo l’uscita del libro, mi è capitato spesso di ricevere ringraziamenti da parte di chi già operava in questa direzione, ma che magari non aveva mai definito la propria pratica. Questo riconoscimento ha portato a un bisogno diffuso di confronto. I seminari che tenevamo con 10-15 persone ora contano anche 30 iscrizioni. Del resto, il libro è esattamente il tentativo di dare voce alle diverse prospettive coinvolte nel processo distributivo. C’è bisogno di confrontarsi sulle metodologie e sulle consuetudini legate alla distribuzione.
Il volume non consiste in un manuale su “come vendere uno spettacolo”, bensì in una mappa per orientarsi nel sistema. Quanto conta la progettualità?
Tantissimo. E, proprio perché non stiamo parlando di un mercato organico e con regole chiare, serve costruire un progetto e capire in quale contesto possa inserirsi. Come diceva Gilberto Santini: “Attenti a invitarmi, perché poi arrivo”. Un perfetto slogan per un film horror ma, soprattutto, un modo per dire che l’invio a pioggia non funziona, soprattutto per proposte che possiamo per semplicità definire “di teatro contemporaneo”. Se il programmatore realizza un progetto articolato e pensato per il proprio pubblico, allora chi distribuisce deve conoscere profondamente ciò che propone e il contesto in cui lo propone. Per questo credo che una compagnia non possa non coinvolgere il distributore nel proprio percorso artistico. Un distributore non è un agente commerciale, non vende profilati in alluminio. Deve credere nel progetto, condividere un percorso. Quando si lavora con fiducia e complicità, si costruiscono relazioni durature anche con i programmatori. È un lavoro lungo e faticoso, ma che porta molte soddisfazioni.
Ma trovare una figura del genere non è semplice, soprattutto per le compagnie emergenti. Hai qualche consiglio?
È difficile, sì. Le figure strutturate sono poche, molte delle quali già citate nel libro. Io ho iniziato lavorando con una compagnia giovanissima, i Sotterraneo. Abbiamo costruito insieme un processo e una modalità di lavoro, siamo cresciuti insieme. Un consiglio è quello di cercare nelle scuole di formazione di alto profilo, come la Paolo Grassi, dove ci sono giovani che vogliono specializzarsi in organizzazione e distribuzione. Si può crescere insieme, anche perché il processo di distribuzione necessità del temo lungo della conoscenza reciproca, della condivisione, della fiducia, a cominciare dalla costruzione del rapporto con gli operatori.
Nel libro dialoghi con una generazione teatrale che si è affermata in un periodo di grande fermento. Nel tempo il mercato si è saturato nei meccanismi delle stabilità, degli scambi, del giro di compagnie che si sono, nel frattempo, giustamente affermate. Rimane una minuscola fetta di “libero” mercato contesa dalle mille forme di una generica sperimentazione emergente, con innumerevoli proposte che escono, tra l’altro, da premi e vetrine. Come si è evoluta la situazione negli ultimi anni?
È un problema reale. Quando iniziai a lavorare come distributrice, nel 2006, i giovani non erano ancora “di moda”, non c’erano bandi under 35. C’era un’aspettativa di maturità che era ingiusta per compagnie così giovani. Ricordo i loro primi spettacoli, perfetti per i primi 20 minuti e poi… crollavano. Era normale. Ho dovuto lavorare tanto per far capire che avevano bisogno di essere sostenuti, non giudicati, per convincere gli operatori a non considerarli come un inserimento in programmazione ma come un accompagnamento per far emergere le potenzialità. Il rinnovamento c’è stato nel 2007, con il ministero di Rutelli e con una serie di bandi dedicati al rinnovamento della scena. Emerse una generazione teatrale straordinaria che fino ad allora aveva abitato il sottobosco di spazi indipendenti dove aveva avuto il tempo di formarsi, di sbagliare, di migliorare e il “fallimento” di questa o quella produzione non era contemplato. Compagnie che tutt’oggi sono sulla cresta dell’onda. Il fatto che loro, come giovani compagnie, si siano affermate non significa, tuttavia, che tutto ciò che emerge da artisti e gruppi giovani abbia lo stesso valore. Oggi si cerca l’innovazione immediata, si rincorrono i giovani talenti, ma si dimentica chi ha superato i 35 anni. Quella fascia 36-50, di non ancora maestri ma neanche più giovani, trovo sia la più trascurata a causa della ricerca ossessiva di nuovi giovani: gruppi al debutto, considerati innovativi, addirittura geniali, ma che poi si rischia di “bruciare” non dando loro il tempo e lo spazio necessari alla sperimentazione. C’è bisogno di un doppio sguardo: sul nuovo, ma anche su chi ha già avviato un percorso. Non possiamo fermarci all’entusiasmo della novità. Bisogna investire nella continuità, nel tempo lungo. Altrimenti rischiamo di creare delle “meteore” che non hanno il tempo di diventare stelle.
È chiaro, nel libro, come il processo distributivo consista in una narrazione puntuale e costante di questo tempo lungo, e che comincia già durante la produzione.
Certo. Non si produce prima e si distribuisce poi. Il lavoro di distribuzione comincia fin da subito, quando sei in residenza, quando stai costruendo il lavoro. Inviti i programmatori, li rendi partecipi, li fai affezionare al percorso artistico. È una narrazione continua e relazionale.
Un altro tema importante che emerge nel libro è quello della distribuzione all’estero. Qual è la situazione oggi?
Per fortuna, all’estero ci sono più investimenti, strutture più grandi e staff articolati, e spesso anche tempi di risposta migliori. Ma bisogna sempre considerare le specificità culturali e di gusto di ogni paese. Per questo nel libro ho incluso contributi preziosi di chi lavora su questo tema, come Carlotta Garlanda, Donatella Ferrante e Giulia Traversi. È un lavoro che va fatto con attenzione, paese per paese.
Forse un giovane organizzatore spererebbe di trovare nel tuo libro un vero e proprio vademecum del distributore. Non lo è, ma nella piacevolezza della lettura si possono comunque scovare tanti consigli pratici.
Assolutamente sì. Quando ho iniziato, cercavo un testo che mi spiegasse come fare distribuzione per una compagnia giovane, ma non trovai nulla di specifico. Trovai tantissimi consigli estremamente utili nei testi di Mimma Gallina, che io considero una vera e propria “Bibbia” per il settore dello spettacolo dal vivo. Ma i meccanismi di distribuzione di una grande compagnia di giro o di un artista di chiara fama erano inadeguati per il lavoro che dovevo fare all’epoca. Fui costretta a inventarmi un’idea di distribuzione. Nel libro ho voluto raccontare la mia esperienza, passo passo, e poi aprire il discorso a colleghi e colleghe con esperienze e visioni differenti e che spesso sono anche curatori o direttori artistici. Il libro vuole essere chiaro, semplice, utile.
Per esempio, hai dedicato molta attenzione anche alla qualità dei materiali promozionali. Perché è così importante?
Perché è il biglietto da visita. Il modo in cui presenti il progetto dice già molto. Foto, immagini, sintesi, tono della mail: tutto conta. Quando faccio seminari, dedico sempre tempo a rivedere i materiali degli allievi. A volte ci sono errori davvero evitabili, che però compromettono l’impressione che si dà.
E qua torna il tema del distributore come curatore…
Sì, esatto, e infatti quasi tutti quelli che ho intervistato si occupano anche di programmazione o di curatela. Questo dà uno sguardo più ampio, permette di capire meglio cosa serve a uno spazio o a un festival. Anche per questo la presentazione della compagnia deve raccontare bene chi siete, che poetica avete, qual è il vostro percorso. Non si vende un singolo spettacolo, si accompagna un progetto.
Il libro ha il tono di un percorso collettivo, più che di un’opera individuale.
Lo è, lo è stato fin dall’inizio. Il piacere più grande, oltre alla scrittura in sé, è stato riconnettermi con tanti amici e colleghi. È stato un viaggio fatto insieme. E il fatto che tutti abbiano partecipato con entusiasmo dimostra che c’è bisogno di condividere questi pensieri.
Hai considerato la possibilità di ampliarlo e di realizzare una seconda edizione?
Sì, ci sto pensando. Per giunta, alcune interviste non sono riuscita a farle in tempo per l’uscita. Il libro non ha nemmeno una vera conclusione, proprio per questo. Ma se continuerà ad avere riscontro, potrei pensare a una nuova edizione ampliata. Ci sono ancora tante voci da ascoltare.
Angela Forti