| Cordelia | aprile 2025
Tra le tre figlie di Re Lear, Cordelia, è quella sincera. Cordelia ama al di là del tornaconto personale. Gli occhi di Cordelia appaiono meno riverenti di altri, ma sono giusti. Cordelia dice la verità, sempre.
Cordelia è la rubrica delle recensioni di Teatro e Critica. Articoli da diverse città, teatri, festival, eventi e progetti. Ogni recensione è anche autonoma, con una propria pagina e un link nel titolo. Cordelia di aprile 2025 è online da oggi, seguila anche nei prossimi giorni, troverai altre recensioni.
#BOLOGNA
MARIO E MARIA (di Natalia Vallebona e Faustino Blanchut)
L’intuizione che avevamo da piccoli che un nome potesse influenzare la personalità pare confermata da alcune ricerche scientifiche. Avere un nome comune favorirebbe l’adattività psicologica e sociale, aumenterebbe persino le possibilità di essere assunti. Mario e Maria partono dunque avvantagiat* nel gioco dell’esistenza, che in fondo è tutta una grandiosa questione di adattamento. Come in Italia, anche in Belgio nascono molte Marie: 1,05 al giorno, secondo una ricerca dell’Istituto di statistica intercettata dai Poetic Punkers, collettivo internazionale nato a Bruxelles nel 2014 e diretto da Natalia Vallebona e Faustino Blanchut – chissà se il gruppo conosceva la commedia protofemminista omonima di Lopez Sabatino, drammaturgo e critico teatrale italiano, del 1916. Mario (Blanchut) è un autore, un regista, un coreografo, un mini-dittatore della scena e della vita domestica. II suo autoritarismo fatto di romantici diktat produce una sequenza di indicazioni sceniche rivolte a un altro Mario (Florian Vuille) e a due Marie (Julia Färber Data, Marianna Moccia), che allo schioccare delle dita animano la scena con una gestualità circense sospesa tra danza e dramma. Muoiono, sputano, si baciano. Corrono, risorgono, dilagano in platea battezzandoci Mari e Marie. Si regalano e ci regalano rose finte, senza odore – a rose is a rose is a rose: l’evidenza simbolica dell’amore che cancella l’amore scimmiottandolo. Mario è pieno di spunti, ma lontano da ogni forma di verità: il suo autoritarismo, che ricorda il sadismo à la Rezza-Mastrella, è obbedienza cieca alle convenzioni del dire e del fare (teatro). È possente nella gestualità da domatore, ma incapace di consequenzialità. Quando infine pare rivolgerci parole franche, chiedendoci se da piccoli avessimo anche noi un giardino e un albero del cuore su cui arrampicare, ci irride smascherando la vezzosità borghese del possedere l’albero e il giardino. La sclerosi di ogni possibile significato, magnificamente veicolata dai due Mario e dalle due Marie in un ipnotico crescendo di idiomi e linguaggi performativi, sposa causticamente commedia e tragedia, regalandoci abbondanti risate e una profonda amarezza nel riflesso della nostra incapacità congenita a gestire il potere. Un lavoro magistralmente prepolitico. (Andrea Zangari)
Visto all’Arena del Sole – Sala Thierry Salmon, scrittura testo Natalia Vallebona e Faustino Blanchut, coreografia e regia Natalia Vallebon, drammaturgia Faustino Blanchut, con Faustino Blanchut, Julia Färber Data, Marianna Moccia, Florian Vuille, drammaturgia sonora Patrick Belmont, disegno luci Christophe Depr, scenografia e costumi Natalia Vallebona, fotografia e video Bartolomeo Lapunzina, produzione Poetic Punkers ASBL, coproduzione Théâtre Les Riches-Claires, Emilia Romagna Teatro ERT / Teatro Nazionale, con il sostegno di La Maison des cultures de Saint-Gilles, ADLIB’S Attic, Centre Culturel de Chénéé, nell’ambito di CARNE focus di drammaturgia fisica
#MILANO
STORIA DI UN CINGHIALE. Qualcosa su Riccardo III (di Gabriel Calderón)
Un attore. Un attore nei panni di un attore, un uomo che finge di essere un attore nei panni di un attore. Francesco Montanari è il principio e la fine di questo complesso gioco metateatrale riscritto e diretto da Gabriel Calderón. Storia di un cinghiale. Qualcosa su Riccardo III, è difatti un monologo, un flusso inesauribile e affabulatorio di parole, gesti, azioni in cui il protagonista indugia tra finzione e realtà autobiografica confondendone i confini, attraverso un ritmo concitato, vorticoso e un linguaggio che ripercorre e fugge al tempo stesso quei pentametri giambici shakespeariani. Montanari è quindi un attore, che è se stesso ma che è prima di tutto personaggio, capace di trasformare la propria pelle, pronto a “fare la muta” servendosi dei costumi finemente elaborati da Gianluca Sbicca, ora vesti reali ora vesti “mostruose”. Nel mezzo di una carriera costruita su ruoli marginali, ecco che l’attore ora riceve l’incarico della vita: interpretare Riccardo III. Ma le difficoltà dell’impiego, tra maestranze e la relazione con la compagnia di attori, alimentano un rancore sempre esistito, fatto di disillusioni e sconfitte, sedimentato lì, al di sotto dello sterno, pronto ad esplodere in qualsiasi momento, a trasformarlo davvero nel duca di York. Sullo sfondo di un palchetto teatrale composto da ingegnosi ingranaggi, nella scenografia ideata di Paolo Di Benedetto, la narrazione di Calderón procede dinamica, entra ed esce furiosamente dal personaggio, entra esce e mette in discussione i versi del Bardo, dimenticandosi però di dover arrivare alla fruizione immediata del pubblico, in un virtuosismo autoriale e registico che mina di continuo quel contatto con la platea, caratterizzata prevalentemente da giovani studenti che invece a Shakespeare cercano di avvicinarsi. L’invettiva alle problematicità teatrali si perde nell’ingegno, e noi tutti ci perdiamo alla ricerca di Riccardo III. (Andrea Gardenghi)
Visto al Piccolo Teatro di Milano. Crediti: liberamente ispirato a Riccardo III di William Shakespeare , scritto e diretto da Gabriel Calderón, traduzione Teresa Vila, scene Paolo Di Benedetto, costumi Gianluca Sbicca, luci Manuel Frenda, con Francesco Montanari, produzione Piccolo Teatro di Milano – Teatro d’Europa, Carnezzeria
#PALERMO
TERRA MATTA (regia di Vincenzo Pirrotta)
Terra Matta è il titolo dell'autobiografia di Vincenzo Rabito, bracciante originario di Chiaramonte Gulfi, in provincia di Ragusa. Dal 1968 al 1975, questi ha battuto a macchina la storia della propria esistenza, avvalendosi di un proprio linguaggio originale: un groviglio di parole e glifi per mezzo dei quali l'autore, non alfabetizzato, ha descritto la propria «maletratata e molto travagliata e molto desprezata» vita. Vincenzo Pirrotta la porta in scena in un omonimo spettacolo, prodotto dal Biondo di Palermo e dallo Stabile di Catania. Nelle intenzioni l'obiettivo era quello di valorizzare gli aspetti più grotteschi del "romanzo", sciorinando una teoria di personaggi farseschi e richiamandosi al teatro dadaista. Ora, Vincenzo Pirrotta è senz'altro un interprete di significative capacità attoriali, sia nell'eloquio che nel gesto: ritmo ed espressione conservano intatta la lezione di Cuticchio. Ma questo non è stato sufficiente a garantire l'efficacia del suo Terra Matta, dove l'esperienza linguistica di Rabito si risolve nel susseguirsi di episodi in cui prevalgono la caricatura e, talvolta, i facili sentimentalismi. Certamente Pirrotta riesce a rendere teatrale un linguaggio davvero impronunciabile, tormentato da scelte grammaticali non convenzionali anche dal punto di vista grafico; ma mel macchiettismo non sempre convincente dei protagonisti, l'asprezza agreste di Rabito si perde in un sorriso troppo ammiccante e sornione. La farsa ha trovato espressione in una comicità di situazione non sempre adeguata alla cruda asperità del testo; la fedeltà ad esso non ha saputo reggere a eccessi didascalici, nonostante le soluzioni sceniche volessero forse scongiurare proprio questo rischio. Dove ci aspettavamo la rottura, abbiamo trovato un racconto più lineare e rassicurante del dovuto.
Visto al Teatro Biondo, Crediti: Dall’omonima autobiografia di Vincenzo Rabito (Einaudi editore) adattamento teatrale, scene e regia di Vincenzo Pirrotta musiche originali Luca Mauceri costumi Francesca Tunno luci Antonio Sposito con Vincenzo Pirrotta, Lucia Portale, Alessandro Romano, Marcello Montalto e con Luca Mauceri (percussioni, elettronica, chitarra classica), Mario Spolidoro (organetto, chalumeau, chitarra), Osvaldo Costabile (violino, violoncello) aiuto regia Nancy Lombardo direttrice di scena Valentina Enea coordinatore dei servizi tecnici Giuseppe Baiamonte fonico Mauro Fontana macchinista Alberto Mangiapane capo sarta Erina Agnello produzione Teatro Biondo Palermo / Teatro Stabile di Catania. Foto di Rosellina Garbo.
MOLLY BLOOM. ANATOMIA DI UNA (ANTI) EROINA (di Serena Ganci e Daniela Macaluso)
«E sì dissi sì voglio sì». La Molly Bloom di Daniela Macaluso ha una voce di velluto ruvido, rotonda, ma con vaghi accenni di spigoli. Una voce che è corpo, o forse un corpo talmente presente da essere dotato di una voce propria. In Molly Bloom. Anatomia di una (anti) eroina, la protagonista è un grumo inestricabile di carne e spirito, così come l'autore dublinese l'ha offerta al lettore. Ma qui non abbiamo parole scritte. Il flusso di coscienza si insinua in Macaluso, o forse è lei a imporsi su di esso, in un legame carnale indissolubile. Macaluso non è nuda, in scena; ma è come se lo fosse: impone con assoluto coraggio lo spessore della propria persona, plasmandosi una dimensione palpabile, fisicamente compresa tra la sua Molly e il pubblico. Davvero, a una delle donne più "corporee" di sempre, viene fornito un corpo; coraggio, si diceva. Spesso questa parola è usata a sproposito. Ma qui davvero sentiamo di doverla scomodare. È coraggioso il modo in cui Macaluso offre al pubblico una forza che è anzitutto esposizione della fragilità; è coraggioso il suo ritratto di una donna che si vive nel suo vivere il sesso, ma nell'incertezza sbigottita di cosa questo davvero significhi. D'altronde, non si cerca senso, né soluzioni: Molly descrive incontri ai quali partecipa con adesione e distacco, afferrando di questi quanto le viene consentito dall'incontro epidermico tra i corpi. Tutto le scorre addosso: relazioni, matrimonio, maternità, sempre in quell'unico atto che è carne e parola; parola enfatizzata da un'eco sintetica, quella di Serena Ganci, i cui interventi smorzano l'assoluta solitudine della protagonista in sonorità rarefatte. Ne accompagnano la bella misura dei gesti, che scivolano l'uno sull'altro in un flusso di corpo e coscienza. Sfida importante, quella di avanzare un femminile privo dei facili schematismi a cui spesso oggi si ricorre, sostituendovi piuttosto un'elegia malinconica e dura, fatta di membra, ferite e voce. Se la sfida era questa, è stata pienamente vinta.
Visto a Spazio Franco. Crediti: Liberamente ispirato all’Ulisse di Joyce, Di e con Serena Ganci e Daniela Macaluso, Musiche originali Serena Ganci, Luci Gabriele Gugliara, Consulenza costumi Mariangela Di Domenico, Produzione Babel e Sardegna Te