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Roberto Zappalà. La danza, il corpo sociale e la città

Intervista a Roberto Zappalà, direttore artistico e coreografo della Compagnia Zappalà Danza, fondata dallo stesso artista nel 1990 a Catania.

Comincerei dalla sua fascinazione per la danza. Come nasce? E come si è evoluta in un processo di formazione, cominciando a creare un’identità?

Foto Franziska Strauss

La fascinazione non è arrivata direttamente dalla danza, ma per un sentimento di apprezzamento verso una ragazzina. Poi però mi sono reso conto che quella verso la danza era più forte dell’interesse per lei e mi sono fatto imprigionare dentro le grinfie del mondo dove il corpo era protagonista in altro modo. Siamo abituati a parlare, la danza invece è silenziosa ed è solo attraverso le giunture del corpo che deve riuscire ad affascinare. Il territorio non ha reso questa fascinazione facile, non da percepire, ma da apprezzare immediatamente e far evolvere. Quaranta o cinquant’anni fa (ho iniziato a quindici anni) era difficile: un uomo, la danza,… È una cosa che è arrivata lentamente e come tutto nella vita, come l’amore quando è vero e non è solo un colpo di fulmine, dura molto di più, è un sentimento più profondo. Poi sono subentrate le fascinazioni legate agli artisti che ho incontrato nel percorso, i coreografi con cui ho lavorato, tutti protagonisti nei miei sentimenti che hanno formato la mia creatività, della quale non ero all’inizio a conoscenza e che poi si è palesata quando a trent’anni ho deciso di fare il coreografo.

Anche questa è una fascinazione che ti spinge ad andare oltre l’ostacolo, di cui non si è sicuri. Si è quasi più sicuri di fare i danzatori, mostri il tuo fascino agli altri e se quel corpo si muove tecnicamente mantenendolo vinci la scommessa, quasi come una gara alle audizioni. Fare il coreografo è tutt’altra cosa. Devi renderti conto di riuscire ad affascinare gli altri, è molto complicato e non puoi farlo con tutti. Considerando il territorio mi sono trovato facilitato nell’affascinare una cittadinanza che era molto acerba sotto l’aspetto del movimento del corpo. L’ho accettato in maniera straordinariamente evoluta visti i risultati, pronto a percepirla. Pensavamo di no e invece era lì che aspettava, attendeva. Una dinamica abbastanza comune al Sud, dove quando il corpo si muove in un certo modo riesce ad entrare nei percorsi dell’anima delle persone, è lo scopo dell’arte rendere il pubblico conscio di vivere un sogno, una fantasia che fuori dalla scena non avrebbe vissuto.

Leggevo un’intervista recentissima in cui a proposito del passaggio da danzatore a coreografo, operava una specifica nel sottolineare la differenza tra coreografo e maestro. Mi piacerebbe riprendere quel concetto per andare a indagare dalla sua prospettiva e rispetto al suo lavoro i concetti di funzione e trasmissione.

Foto Serena Nicoletti

Il maestro e il coreografo sono completamente diversi. Il primo deve avere la consapevolezza di emancipare, sotto l’aspetto tecnico, il corpo dei danzatori e i danzatori nella loro mente, un lavoro quotidiano che è basato sulla tecnica e non ha necessità di essere creativo, si svolge in una gabbia molto chiara di educatore, di pedagogo. Ecco perché non mi sento un maestro, la metodologia che uso è lontana dall’obbligo nei confronti di artisti e danzatori di insegnare loro qualcosa di tecnico. Quello che tendo a fare è suggestionare e quindi trasmettere le emozioni visive che provo in quel momento e che evidentemente né da solo né con il mio corpo ormai ultrasessantenne posso realizzare. Devo trasmettere il messaggio che ho dentro di me, renderlo movimento fisico, corporeo, e farlo eseguire ai danzatori. Tutta un’altra questione, non di passi. Il maestro può fare dei passi uno dopo l’altro, ma non è detto che sappia fare il coreografo. Il coreografo, a sua volta, ha inventiva, un tema specifico che magari riesce a comunicare, ma non è detto sappia fare il maestro tecnico. Non mi sento tale, non sono capace di essere didattico fino all’unghia del piede, anche perché sono un istintivo e l’istinto non si addice molto al maestro, il quale deve essere concreto, nelle sue manifestazioni di potere dentro la sala… Ce sono di tutti i livelli, quelli per i bambini devono essere più chiari, precisi, autoritari, seppur molto dolci e teneri, poi pian piano il modo di insegnare cambia.

A proposito della grammatica, del lessico della sua danza ha più volte illustrato il MoDem (Movimento Democratico n. d. r.). Mi piacerebbe tentare di riguardarlo da un punto di vista ove sia una sorta di cuscinetto tra l’idea di corpo, inteso come corpo politico, e il suo linguaggio come serie di forme che compongono uno stile e una poetica.

Il corpo è sempre politico, nel novanta percento dei casi. Soprattutto quello delle nostre creazioni. Forse userei un termine diverso, perché la politica in questo momento non fa una bella figura, e parlerei di corpo sociale. Il nostro si basa su forme anche di fragilità, del gesto, dei sentimenti, dell’anima. Parlo di fragilità sulla scena perché il fatto che ci sia potenza nel corpo che si muove, nei miei danzatori, che siano più o meno padroni di una dinamica molto forte, non significa che non sia stato fatto uno studio. La nostra danza è potente, forte, ma ci basiamo sulla poesia che il corpo può trasmettere agli altri, emozioni, suggestioni. Non c’è il luogo comune della bellezza, quella statuaria e difficilissima da ottenere, bensì quella della poesia, dell’autenticità. Non c’è nulla di finto, o meglio c’è finzione perché siamo sulla scena, ma non ci preoccupiamo di essere belli, ci preoccupiamo di essere profondi. Questo diventa bellezza del corpo: la gioia che trasmette in un preciso momento, la fragilità, le paure, l’incertezza, gli inciampi. Quando parlo di autenticità non significa che un danzatore che fa il principe ne Il lago dei cigni non è vero, ci mancherebbe, il punto è che proprio la figura del principe non è autentica. La nostra danza si genera attraverso altre tipologie di studi, tutti parte integrante di una metodologia che rimane all’interno del MoDem, Movimento Democratico. Cerchiamo di sviluppare nel danzatore un proprio modo di agire che sia in corrispondenza profonda col mio modo di muovermi, col mio vecchio modo di muovermi in scena, o meglio con ciò che riesco a trasmettere ai danzatori. Ormai, dopo vent’anni di esistenza del MoDem, avviene in maniera automatica, si pensa, è una filosofia. Faccio sempre un esempio: se dici a chiunque di muoversi come un ballerino hip hop, anche i più lontani dal nostro mondo lo fanno perché si vede spesso nei video, per strada, ormai non solo in America. Succede quindi che diventi automatico perché visto più spesso. Quando vivi per più di vent’anni all’interno di un progetto diventa una casa. A Scenario Pubblico si studia quell’idea, quella politica del movimento del corpo: ti muovi naturalmente e pensi in quel modo. D’altronde MoDem esiste per costruire – mi faccia passare il termine – dei danzatori che, non tutti ma ogni tanto, vengano scelti per la compagnia, poi ovviamente è una metodologia che può essere usata anche per altri. La nostra idea di trasmissione e di democrazia non è perfetta ovviamente, come in tutte le democrazie del mondo alla fine decido io. In qualsiasi modo loro si muovano, hanno degli sprazzi di personalità che sono importantissimi perché sviluppano naturalmente cose che altrimenti non sarebbero uscite, poi decido come farle, quando etc.

Considerando la sua identità e le esperienze differenti da danzatore prima e coreografo poi, innestate le une sulle altre o meglio le une accanto alle altre come un caleidoscopio, qual è il suo rapporto oggi con il concetto di classico?

Approfitto per dire che l’idea di repertorio deve essere divulgata, in maniera forte. Questo vale anche per il repertorio contemporaneo, su cui l’anno scorso abbiamo fatto un convegno. Credo debba essere superato l’ostacolo per cui si parla di repertorio solo di fronte al balletto classico. Oggi questa parola riguarda anche coreografi che hanno ad esempio più di quindici o venti produzioni, più o meno grandi. Io ne ho fatte quasi novanta, quindi ne ho uno abbastanza folto. È ora che si mettano di nuovo sul mercato progetti che sono stati dei fari, alcuni diventando dei classici di contemporaneo. Il repertorio del balletto ovviamente deve essere mantenuto come quello dell’opera lirica e non è facile, servono danzatori dal grande profilo tecnico e in gran numero, quindi tanti soldi.

Quali sono i lavori del repertorio contemporaneo a cui pensa nello specifico?

Moltissimi. Se parlo di contemporaneo, non di modern (tipo Martha Graham, Merce Cunningham o altri del genere), ci sono i lavori di Jiří Kylián, di Birgit Cullberg, anche cose di una trentina d’anni fa, c’è Sasha (Waltz n.d.r.), William Forsythe, i nostri italiani come Virgilio (Sieni n.d.r.), Abbondanza (Compagnia Abbondanza/Bertoni n.d.r.) … In realtà andrebbero rivalutati alcuni periodi per comprendere le differenze che si sono create all’interno del percorso dello stesso artista. Quando vedo cose mie di venticinque anni fa penso a quanto è diverso il mio modo di creare. Poi c’è un altro punto importantissimo da sottolineare: il repertorio deve essere mantenuto, in una dimensione in cui si va velocissimo le nuove generazioni non hanno nemmeno idea di chi fossero i coreografi di venticinque o trent’anni fa. Per me non era così, ho studiato, vedevo nei video i coreografi di trent’anni prima di me. Parlo di Pina Bausch, di Maurice Bejart,… Adesso se dici Forsythe ai ventenni probabilmente non sanno chi sia. In questa gravità della situazione il repertorio serve per capire da dove siamo arrivati noi e dove andranno loro, conoscere il passato, i modi di creare, i linguaggi che sono stati usati, le tecnologie, le luci, per poi poter apprezzare uno spettacolo o confrontarne uno con l’altro o addirittura iniziare a fare i coreografi.

Foto Salvatore Pastore

Le chiederò dunque ora di Scenario Pubblico. Come è nato il progetto e come il suo percorso si è evoluto?

Nasce per due ragioni: una casuale e una di esigenza. Mi sono reso conto circa venticinque anni fa che facevamo due spettacoli l’anno in una città come Catania, sul palcoscenico di un teatro molto grande, da milleseicento posti. Riempivamo le serate, o quasi, e poi per un anno più nulla. Con un teatro così grande non potevo avere una tenuta lunghissima, ero giovane e la compagnia non si conosceva. Catania è una grande città dove il pubblico potenzialmente c’è. Ho capito di dover trovare una soluzione. C’era poi la spinta ad avere un luogo creativo, non semplicemente una sala, per quella mi appoggiavo all’epoca in una scuola e non c’erano problemi. Avevo l’esigenza di fare un percorso di scena, di luci, di audio, di costumi, io disegno almeno tre di queste cose e avevo bisogno di provarle, non potevo farlo in un teatro ospite. Per puro caso è arrivata l’occasione di una struttura in vendita in pieno centro, vicino al Teatro Bellini, di circa mille metri quadrati. Quando sono entrato ho capito subito che era il luogo giusto dove andare, seppure la mia allora futura moglie e i miei fratelli soprattutto mi dessero del pazzo. Non volevo un posto grande, volevo un palcoscenico grande com’è quello che abbiamo, di quindici metri per dieci, e poco pubblico. Centocinquanta persone mi bastavano perché avevo bisogno di fare una blackbox, come si usa in Europa del Nord, e avere spettatori per dieci o venti repliche. Mi avrebbe permesso di creare aspettativa, divulgazione attraverso il passaparola. Così abbiamo fatto un percorso di ricerca, soprattutto di soldi. Dopo averlo acquistato con denaro privato, abbiamo vinto un bando europeo che ci ha permesso di fare i lavori, finiti dopo un anno. Così è iniziata questa follia e questa gioia. I primi cinque o sei anni sono stati durissimi, siamo stati tentati di chiudere, poi per fortuna pian piano siamo cresciuti di molto, al Ministero e alla Regione ci hanno premiati. Scenario Pubblico è il primo esempio di centro coreografico nato in Italia, inaugurato nel 2002. Successivamente, nel 2003, è nato Cango/Virgilio Sieni e nel 2004 la Fonderia/Aterballetto. Non è un caso che siamo diventati noi i primi tre centri di residenza. È stato vincente, ha reso la città europea sotto l’aspetto dell’ospitalità dei linguaggi del corpo. Certo, ci sono i grandi festival italiani e altre cose, ma abbiamo fatto un percorso diverso, più intimo, abbiamo iniziato dal secondo anno ad avere coreografi in residenza. Non ho fatto un luogo dove dovevo esserci io e basta, la mia intenzione era di farne uno aperto, sin da subito, senza pensare al centro di produzione del Ministero, non mi sfiorava minimamente l’idea all’epoca. Per me era importante fare le prove. Ho fatto un parco luci forte immediatamente, dal primo giorno, l’investimento è stato molto tecnico anche. C’è un bar, un ristorante, tre sale prove, un posto degno di grande rispetto. La Regione ci aiuta, ci dà dei finanziamenti, il problema è che non si comprende che quando noi ci spostiamo ormai abbiamo produzioni da venti o ventidue persone in giro in tour, quindi, oltre agli aerei, per fare uno spettacolo abbiamo bisogno di tre giorni fuori a dormire, senza la possibilità di poter andare e tornare in sede. Significa un grande dispendio di energie e risorse economiche. Cerco di comunicarlo a chi dovrebbe decidere ma forse non riesco a essere molto chiaro. C’è da dire che non ci lamentiamo troppo, il popolo siciliano è così, riesce ad arrabattarsi e risolvere in qualche maniera. Per questo ce lo siamo costruiti il luogo, non lo abbiamo ricevuto dalla Regione o dal Comune. Non abbiamo mai, in trent’anni ricevuto un soldo dalla città di Catania e non li chiediamo nemmeno. Non è una questione di politica, è proprio l’idea di vicinanza alla cultura che non c’è, non si comprende quanto l’ambito culturale possa essere importante soprattutto in questo periodo di grande maleducazione.

Foto Franziska Strauss

Data la situazione appena descritta in che prospettiva si costruisce una programmazione culturale all’interno di uno spazio come il suo?

Con determinazione e la visione rivolta alle esigenze del pubblico. Da me c’è un motto molto chiaro, non ospito tutti gli spettacoli che piacciono a me, anzi a volte ne ospito alcuni che non sono nel mio immaginario di piacere, seppure di qualità e molto diversi tra loro. Credo sia il modo giusto di fare il direttore artistico, senza inculcare al pubblico un pensiero unico. In una città dove non ci sono altre proposte di danza di livello è importante dare un panorama più ampio dei linguaggi del corpo, ed è uno degli aspetti principali sotto il punto di vista delle scelte artistiche per me. Immagino il futuro molto complesso. Il discorso della distanza, oltre che sui viaggi, incide anche su quando ospitiamo qualcuno. Abbiamo risorse limitate e limitati sono i cachet che riusciamo a dare alle compagnie e, seppur vengano comunque perché stanno benissimo, si fa questo mestiere anche per tornare a casa con un piccolo budget, altrimenti è tutto a perdere. Siamo abituati a rispettare le leggi, i criteri che ci dicono di rispettare, ci tengo a dirlo, questo non vuol dire però che siano sempre commisurati a quanto accade realmente. Ci sono i numeri: i numeri che ci chiedono, sia come produzione che come ospitalità, sono eccessivi, lo sono a trecentosessanta gradi. Quando c’è un surplus di proposta è difficile riempire i teatri e si incassa molto meno. Inoltre in Sicilia, in Italia in generale, non ci sono tutti questi teatri dove andare con grandi produzioni come le nostre di oggi, con almeno venti persone in viaggio. Se escludiamo quelli d’opera che non fanno danza contemporanea, solo pochi, forse una trentina, possono ospitare in termini tecnici ed economici uno spettacolo da ventimila euro al giorno e con certi mezzi. Sono costi altissimi. Chiedere a una compagnia di fare novanta, cento spettacoli sarebbe facile se ne avessimo mille di questi teatri e se ogni anno venti o trenta ospitassero la nostra produzione. Lo stesso principio vale anche quando siamo noi a dover ospitare. Quindi punterei meno sui numeri, se anche ci dessero molti soldi direi la stessa cosa, porrei lo stesso problema: il meccanismo è complesso e non facile da spiegare, ma spero di esserci riuscito. Sollevare queste questioni è un modo di dire di stare attenti, non significa non accettare le regole del gioco, per una questione etica lo abbiamo sempre fatto e continueremo a farlo.

Un centro di produzione il vostro, lo abbiamo appena detto, che beneficia di fondi pubblici…

Assolutamente, in Italia sarebbe impossibile fare altrimenti, come avviene in America ad esempio, dove oggi la danza è molto commerciale e non sviluppa niente di nuovo. Per fortuna abbiamo questo sistema.

Qual è quindi la funzione pubblica di un teatro, di uno spazio e quale quella di un teatro pubblico?

Credo che quando ci proponiamo agli spettatori, alla fine, non ci sia differenza tra pubblico e privato.

Foto Serena Nicoletti

La mia domanda nasce anche ricordando che poco meno di unno fa ricevevamo in redazione una sua nota di qualche riga a proposito delle istanze contenute nella lettera aperta che le lavoratrici e i lavoratori dello spettacolo avevano scritto e rilasciato in attesa della designazione del nuovo direttore dello Stabile di Catania. Oltre a sostenerle, faceva riferimento all’innovazione dei linguaggi e all’idea che tradizione e innovazione dovessero alimentarsi a vicenda.

L’esposizione verso il pubblico non credo debba essere differente. Ci sono poi obblighi assoluti per una struttura pubblica e ciò significa non solo a partecipazione pubblica, ma anche con all’interno un consiglio di amministrazione, etc. La nostra è un’entità a partecipazione pubblica, però è privata. Tuttavia senza i soldi pubblici non potremmo vivere, quindi non ci sentiamo del tutto privati, lo siamo burocraticamente. Gli obblighi sono molto simili, anche se noi siamo più liberi nelle scelte artistiche e viaggiamo come treni, mentre i posti pubblici vivono dinamiche e fattori che rallentano le cose. Non sono mai stato in un teatro pubblico come direttore e nemmeno l’ho mai cercato, sinceramente, non è un mondo che mi si addice, voglio essere libero, da artista è giusto. Per quanto invece concerne la funzione artistica nel pubblico dovrebbe forse esserci più chiarezza e più forza, più coraggio. Il compito di un teatro pubblico, di prosa, di lirica, di danza, di arte performativa è preservare la storia, ovvio e inevitabile, ma anche proporre innovazione, emancipare la cittadinanza. Non tutto può passare dai numeri, se si vogliono trovare nuovi percorsi creativi bisogna rischiare un po’, ovviamente ci vuole una via di mezzo e la gradualità necessaria. Penso sia molto più complicato fare il direttore in ambiti del genere rispetto a come lo faccio io, seppur sia complicatissimo avere risultati economici importanti non avendo la politica che spinge e dovendo conquistarsi ogni cosa con molto più tempo e con la qualità del lavoro. Quindi qual è il ruolo di un teatro in città? Accogliere gli spettatori, i quali comprano un biglietto, escono in macchina, la posteggiano. Soprattutto in una grande città questo è già un atto di devozione nei confronti della performance. Però dobbiamo anche comprendere che quel momento serve alla città e ai suoi abitanti, per strutturare l’anima in modo più completo, per riflettere, sognare, vivere un’emozione che altrimenti non avrebbero vissuto.

Il suo, il vostro lavoro è anche una sorta di ponte di giunzione tra la comunità internazionale e quella territoriale, sia in riferimento al pubblico della città di Catania che in riferimento alla sua comunità di lavoro. Nel suo caso specifico questo ha molto a che fare con i concetti di origine, radice, di partenza, di ritorno.

Il ritorno è stato sentito da parte mia, proprio come ragionamento rispetto al processo creativo, un’opportunità che nel mio territorio ero sicuro di trovare, la solitudine, una condizione che ricercavo, avevo bisogno di stare in un mondo di solitudine creativa rispetto alla danza, avevo bisogno di trovare la mia identità. C’è stato l’aspetto legato al piacere personale, alle radici, ho trovato un particolare flusso di energia, sicuramente il vulcano ha dato molto nella logica di creatività, così anche la veemenza del popolo siciliano. Il confronto con l’internazionalizzazione è stato un punto importante, sia per il pubblico – è importante che una città abbia un posto dove incontrare artisti che abbiano altre lingue e altri linguaggi, modi di costruire uno spettacolo, sensibilità, soprattutto nella danza, percepire metodologie diverse – sia per il nostro entourage, la parte tecnica, gli uffici che hanno potuto interagire con processi e realtà differenti. Una prospettiva fondamentale per un luogo che tende a essere non solo contemporaneo, ma anche aperto al mondo.

Quanto è importante perciò costruire una comunità intesa come gruppo di lavoro, una continuità che sia fatta anche di persone riunite attorno a un progetto?

Come per tutti i nuclei familiari ci sono anche attriti, frizioni, qualche cambiamento nel flusso di convivenza. Normale e importantissimo che accada, non solo dal punto di vista creativo. Penso al comparto tecnico oppure a quello drammaturgico, io ad esempio collaboro con Nello Calabrò da venticinque anni, è il mio alter ego in assoluto. Sa che quando parto riceverà da me quattro o cinque telefonate, sono particolarmente creativo quando parto e sa già quando mi risponde cosa gli sto chiedendo, c’è una sintonia straordinaria, lo stesso vale per la tecnica e per l’ufficio. Non avendo Catania dei percorsi di studio specifici sul mondo artistico come management o comunicazione e segreteria possiamo dire di averli cresciuti, colei che ora è la nostra direttrice generale (Maria Inguscio n.d.r.) può ora spiegare a molti come si dirige uno spazio di questo tipo perché ha fatto l’esperienza sul campo. Probabilmente la cosa più importante è creare una sintonia e oserei dire una parola un po’ desueta in questo momento: fiducia. Bisogna fidarsi, vale per me, ho la responsabilità, ma anche io devo cercare di farlo con gli altri. Forse è il dramma delle realtà più grandi della nostra, la mancanza di fiducia. Si deve amare la dimensione, il mondo in cui si lavora.

Foto Franziska Strauss

Ha appena adoperato un lemma importantissimo: responsabilità. Quali parti riecheggiano in lei se la applica alla creazione da un lato e alla direzione di uno spazio culturale dall’altro?

Io non credo ci si debba sentire responsabili durante un processo sotto l’aspetto del messaggio creativo, non sento questo peso verso il pubblico. Ho la fortuna di mettere in scena una cosa che ho pensato, su cui ho avuto una suggestione. Lo augurerei a tutti, ma non sento la responsabilità di piacere o non piacere, non mi interessa, perché non lo faccio per compiacere. Come direttore invece sento di dover fare viaggiare la macchina in un certo modo. Sono binari che a un certo punto si incrociano: più piace la creazione più le cose funzionano, più gli spettacoli piacciono più il pubblico arriva con piacere. Ma non è una questione di gusto personale e il piacere o meno non può essere una responsabilità della direzione artistica o del coreografo. L’arte deve essere libera nelle scelte e nella fruizione, l’importante è che ci sia sempre qualità, questa è la mia vera responsabilità.

Qual è la vostra relazione con le istituzioni, intendo quelle locali e quelle nazionali?

Lo dicevo già, con quelle comunali non abbiamo mai avuto relazioni in trent’anni. All’inizio ci abbiamo provato, ma prima non c’erano le risorse, poi non c’era la volontà, poi non si comprende bene cosa sia e dopo un po’ ci si stanca e non si chiede più. Non c’è nemmeno un bilancio negli assessorati alla cultura quindi come si fa a chiedere soldi! Sarebbe bello vivere in un modo dove un’amministrazione capisce da sola le potenzialità di una struttura. Parlo in generale, non solo di Catania. Dalla città non abbiamo mai ricevuto niente in termini di risorse economiche, e andrebbe sottolineato che dovrebbero essere apporti abbastanza fissi dato il lavoro fatto sul territorio e il livello mantenuto. Da noi vengono venti o venticinque compagnie all’anno che portano soldi, nei ristornati, negli alberghi… Abbiamo inoltre cinquanta ragazzi che si trasferiscono qui un anno e studiano il nostro linguaggio (non è una scuola), apportano culture diverse; ancora, abbiamo una compagnia di dieci elementi, per il settanta percento di fuori. Questo non viene mai considerato. Se anche ci dessero cinquantamila euro all’anno, sarebbero soldi già restituiti alla città, alla nazione o alla regione. Paghiamo i contributi, quindi il denaro rientra nel sistema produttivo dello Stato. La Regione negli ultimi cinque anni ha apprezzato il nostro lavoro, non perché ci siano contatti particolari – in questo non sono mai stato bravo –, ma perché i numeri sono così evidenti che i sistemi non possono negarne l’esistenza. Ugual discorso vale per lo Stato che è quello che ci sostiene più e per il quale facciamo un grande lavoro. L’ho già detto, se non ci fosse non esisterebbe né Scenario Pubblico né la Compagnia Zappalà, ma nemmeno Aterballetto o Virgilio Sieni o tutte le altre compagnie. L’Italia deve tenersi caro questo sistema. Non mi auguro minimamente di imitare ciò che succede nei paesi anglosassoni (soprattutto in America), dove non ci sono sostegni pubblici, tutto è privato e ci sono miliardari che hanno la cultura del sostegno all’arte, perché ne hanno un ritorno. Il metodo culturale di sostegno all’arte che abbiamo in Europa mi auguro non cambi, mai, ci dà la possibilità di avere probabilmente molti tra i migliori artisti delle performance di danza e forse anche di teatro nel panorama mondiale.

Marianna Masselli

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Marianna Masselli
Marianna Masselli
Marianna Masselli, cresciuta in Puglia, terminato dopo anni lo studio del pianoforte e conseguita la maturità classica, si trasferisce a Roma per coltivare l’interesse e gli studi teatrali. Qui ha modo di frequentare diversi seminari e partecipare a progetti collaterali all’avanzamento del percorso accademico. Consegue la laurea magistrale con una tesi sullo spettacolo Ci ragiono e canto (di Dario Fo e Nuovo Canzoniere Italiano) e sul teatro politico degli anni '60 e ’70. Dal luglio del 2012 scrive e collabora in qualità di redattrice con la testata di informazione e approfondimento «Teatro e Critica». Negli ultimi anni ha avuto modo di prendere parte e confrontarsi con ulteriori esperienze o realtà redazionali (v. «Quaderni del Teatro di Roma», «La tempesta», foglio quotidiano della Biennale Teatro 2013).

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