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Il Golem. Il labirinto esistenziale di Mayorga e Gassmann

Recensione. Al Teatro India di Roma ha debuttato in prima assoluta la versione italiana de Il Golem di Juan Mayorga, con la regia di Jacopo Gassmann, con Elena Bucci, Woody Neri e Monica Piseddu.

Foto Laura Farneti

«In principio era il verbo». Questa la frase di apertura della Genesi, il libro che inaugura la Torah (i primi cinque dei trentanove libri del Tanakh, detti Pentateuco dai Cristiani). Ma che cosa significa verbo? Verbo è parola, per noi, ma è innanzitutto logos: il pensiero che per millenni ha dominato il teatro, spandendo la propria supremazia sul codice tragico delle polis di cinque secoli prima di Cristo. È la capacità stessa di concepire locuzioni immaginifiche, architetture d’invenzione prima ancora che di semantica. La parola ne è espressione come, si direbbe, il martello è l’espressione della necessità di piantare chiodi. Il verbo è la tecnologia che concretizza il pensiero in una propria diretta funzionalità. Umani di oggi lo chiameremmo linguaggio, lo concepiremmo come essenza della capacità stessa di comunicare, o – se noi umani ci percepissimo dèi – di ordinare le nature del mondo.
Sulla centralità della parola, sulle formule predeterminate e su quelle da ravvivare nel tentativo di incidere sul tempo presente, sull’ontologia del nostro pensare e della nostra capacità di tramutarlo in atto; su tutto questo ragiona un’operazione scenica piuttosto estrema, quella condotta dal regista Jacopo Gassmann, che per la quinta volta si misura con gli enigmi onirici e distopici di uno dei maggiori drammaturghi europei, il madrileno Juan Mayorga.

Foto Laura Farneti

l Golem è andato in scena, in prima nazionale, al Teatro India di Roma, mettendo sul palco Elena Bucci, Woody Neri e Monica Piseddu, costretti a forza a vedersela con un testo le cui «motivazioni profonde», le avrebbe chiamate Stanislavskij, si perdono nel rizoma di spaesamento della nostra stessa specie, visto che la prima stesura del testo è stata elaborata nel 2020, in piena pandemia globale. Ventotto le revisioni resesi necessarie a cesellare, fin nelle fibre, aggettivi e verbi (ben tradotti dall’ingegno linguistico di Pino Tierno) che danno al testo il peso specifico di una scrittura rivelatrice, divisa tra fantascienza, teologia e filosofia del linguaggio.
Una donna (Piseddu) si affida a un’ambigua società segreta perché guarisca il male incurabile del marito (Neri), rinchiuso in un kafkiano castello delle torture esistenziali, dove niente è ciò che sembra e dove, da uno all’altro salto temporale, il passato s’intreccia in una macabra danza con presagi di futuro, che incastrano l’azione in un incomprensibile loop di presente à la Tarkovskij. Salinas (interpretata da Bucci) è una sorta di ierofante altero che distribuisce enigmatici consigli di sopravvivenza alla donna, chiedendole di «imparare tre nuove parole al giorno». L’uomo non sta realmente morendo, il suo male non è una piaga che l’organismo riesca del tutto a riconoscere, egli è piuttosto un nero capro espiatorio delle colpe di una società che non può credere in se stessa. La donna, che vorrebbe curarlo e che accetta la sfida di “imparare il verbo”, verrà di fatto tramutata in un golem, abitata dallo spirito di un rivoluzionario vissuto decenni prima, latore di scurissimi insegnamenti alle coscienze, cassa di risonanza per un discorso di radicalità e di assalto. Una sorta di disilluso Sturm und Drang ammaestrato ai riduzionismi etici dell’oggi.
Nell’estenuante andirivieni tra prima e poi, tra “sogno e son desto”, la progressione clinica di questa malattia dell’anima contagia pure la platea, lasciata sola col compito di dare senso a un testo volutamente denso, ellittico nei significati e nelle soluzioni, verboso nel senso biblico del termine.

Foto Laura Farneti

In lingua ebraica, gōlem significa “materia grezza”; “massa ancora priva di forma”, a cui viene influssa la nephesh, lo spirito vitale, lo stesso ricevuto dal Primo Uomo. Secondo la Qabbalah, cioè la mistica che si fa pratica di divinazione del presente, la creazione del mondo sarebbe avvenuta attraverso un processo di emanazione di ogni essere o cosa dal nome di Dio: ciascun elemento del Creato è la composizione e scomposizione di lettere e di numeri dell’alfabeto d’origine. E allora la parola è elemento di base e principio creativo dell’intero universo; e, così, è questo testo estremamente contemporaneo, nel modo in cui prende di mira l’assoluta inefficacia del nostro pronunciarci, al cospetto della platea di noi stessi, per quello che siamo realmente, e cioè una materia grezza ignara dell’origine del proprio soffio vitale.
Nella mitologia, il golem è quella creatura inanimata che viene attivata da un compito specifico (quasi sempre la difesa contro un’imminente minaccia); massa inerte che – se ad arte sollecitata – può occuparsi di neutralizzare gli attacchi, risolvere i conflitti, portare la pace dove prima infiammava la guerra. E di un tale artefatto della tecnica-mistica, che cosa ce ne faremmo oggi? In questo testo, la possessione della moglie penitente somiglia alla risposta, politicamente definita, a certi moniti del “popolo sovrano”, contro il quale le individualità si ergono a difesa di una misteriosa dimensione etica. È una cupa “regola” del vivere cosciente che il drammaturgo sembra obbligarci a osservare, pur risultando, a tratti, eccessivamente sicuro di una tesi che resta indisponibile, come una retorica e un po’ troppo ammiccante “lettera morta”. Allora nell’agone che lo spettacolo propone al pubblico, steso piuttosto inerme sulle poltrone di un Teatro nazionale, proviamo a farci voce di una risposta che con coraggio scavalchi le ragioni dell’arte. A costo di perdersi e, forse, di ritrovarsi.

Foto Laura Farneti

Nel gelido apologo filosofico di Mayorga, di straordinariamente chiaro c’è però la dichiarazione di impossibilità di una qualsiasi risoluzione razionale, qui resa al meglio da un parlato sommesso, da una recitazione di toni e di registri ridotta all’abitazione di pose pre-strutturali, a un coraggioso processo di delega che lascia alla tradizione scenica di ciascuno degli interpreti la vis performativa necessaria ad affermarsi. Lo stesso grido l’autore lo lancia a chi vorrà davvero misurarsi con la messinscena: Gassmann lo ascolta generando un ritmo letargico e fieramente impegnativo, che strangola ogni respiro d’ironia, che vuole finalmente permettersi il lusso di sacrificare il consenso, di abbandonarsi a certi cicli circadiani che lasciano la platea interdetta e, qua e là, semi-addormentata in un dormiveglia della coscienza. Nella regia immobile e dilatata c’è la severità nichilista di chi il mondo lo osserva dalla remota e spietata prospettiva di una pellicola in negativo; c’è il guanto di sfida schiaffato in faccia a coloro che si aspettavano una catarsi obliterata, pacificata e consolatoria e che si trovano invece scritta sulla fronte la misteriosa formula di un golem, un enigma non svolto, ruvido di morte e di impossibile perdono.

«Polimeri simili al plexiglass», ci racconta il regista: una struttura architettonicamente e funzionalmente impeccabile è quella progettata dallo scenografo Gregorio Zurla – illuminata con consueta maestria da Gianni Staropoli e solo in parte debitrice a certe intuizioni del regista Alfredo Salzon, che dirigeva nel 2022 il debutto madrileno – alla ricerca e alla conquista di un materiale diafano montato su scuri pannelli che fungono da porte per certi indefiniti aldilà, che mostrano e celano corpi e posture, che disciplinano, restituendoli al caos narrativo, gli sbalzi temporali, posizionandoli in un continuum che non esiste più, aprendo varchi e fessure verso lo spazio ridotto al minimo termine del proscenio. Dietro a quelle pareti di falsi specchi e d’antri bui, non abbiamo noi la più pallida idea di cosa stia passando nel nervo della vicenda, di quale energia trasformi un ospedale in uno straniante campo di concentramento per le coscienze. Idea non resta di come emergano, al fiero vaglio della nostra attenzione smarrita, figure che più non abitano alcun tempo, che si presentano a noi dando ciascuna conto del proprio privato strato d’esperienza. Tra omissioni e transiti di scena volutamente dati per scontati, ci si ritrova in uno straniante sogno lucido, nel cammino performativo di questa messinscena in grado di rimettere alla nostra resistenza ogni scelta di progetto.

Foto Laura Farneti

Di certo il pubblico dovrà fare i conti con una scrittura profondamente – e però programmaticamente! – cerebrale, che ingaggia una lotta alla dimensione cognitiva, invita a interrogarsi su che cosa significhi, in «anni interessanti», sentirsi abitati da sensibilità non del tutto riconoscibili. Siamo in una quasi-detective story che ha il sapore dei Traffici con l’Aldilà di Alfred Döblin, dove si dava conto di un delitto pacificabile solo attraverso il contatto (chissà mai se affidabile o no) col mondo dei morti. La verità, forse, è che qui il duo Mayorga-Gassmann tenta l’assalto al regno del nostro Aldilà intimo, giocandosi il tutto per tutto. Foss’anche una messinscena esteticamente impeccabile, una recitazione che ha il coraggio di mescolare il tono fatidico e ieratico (Bucci) con quello più vicino a noi delle “cose scoperte e comprese” (Neri e Piseddu); un pensiero scenico che, chiedendo a noi molto, tributa al teatro il compito eterno di farsi specchio – appunto, diafano – delle nostre consapevolezze.

Sì, ma di cosa? Dell’origine e del finire della vita, direbbero i riferimenti ai testi sacri citati in apertura, ma soprattutto – come in un aristotelico manuale di poesia drammatica – della loro modalità di rappresentazione. Moniti che possono sfuggire, forse, al ritmo tirannico di una soluzione data. Con Il Golem siamo al cospetto di un mistero quadrangolare e scaleno; restano spigoli, certo, ma almeno ci vengono offerti strumenti per smussarne gli angoli. E nel teatro di oggi il Verbo non è più solo Parola, ma intelletto messo alla prova della difficile sfida del renderlo, ci piaccia o no, azione. E non esiste rifugio dal compito di essere spettatori critici. Siamo o no disposti ad accoglierlo?

Sergio Lo Gatto

Marzo 2025, Teatro India, Roma

IL GOLEM

di Juan Mayorga
traduzione Pino Tierno
regia Jacopo Gassmann
con Elena Bucci, Monica Piseddu e Woody Neri

prima nazionale

video Lorenzo Letizia
aiuto regia Giulia Bartolini
direttore di scena Nanni Ragusa
fonica Giorgia Mascia
tecnico luci Yann Arthus Hamelin
luci Gianni Staropoli
scene e costumi Gregorio Zurla
foto di Laura Farneti

produzione Teatro di Roma – Teatro Nazionale, Sardegna Teatro e Teatro Stabile dell’Umbria

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Sergio Lo Gatto
Sergio Lo Gatto
Sergio Lo Gatto è giornalista, critico teatrale e ricercatore. È stato consulente alla direzione artistica per Emilia Romagna Teatro ERT Teatro Nazionale dal 2019 al 2022. Attualmente è ricercatore presso l'Università degli Studi Link di Roma. Insegna anche all'Alma Mater Studiorum Università di Bologna, alla Sapienza Università di Roma e al Master di Critica giornalistica dell'Accademia Nazionale d'Arte Drammatica "Silvio d'Amico" di Roma. Collabora alle attività culturali del Teatro di Roma Teatro Nazionale. Si occupa di arti performative su Teatro e Critica e collabora con La Falena. Ha fatto parte della redazione del mensile Quaderni del Teatro di Roma, ha scritto per Il Fatto Quotidiano e Pubblico Giornale, ha collaborato con Hystrio (IT), Critical Stages (Internazionale), Tanz (DE), collabora con il settimanale Left, con Plays International & Europe (UK) e Exeunt Magazine (UK). Ha collaborato nelle attività culturali e di formazione del Teatro di Roma, partecipato a diversi progetti europei di networking e mobilità sulla critica delle arti performative, è co-fondatore del progetto transnazionale di scrittura collettiva WritingShop. Ha partecipato al progetto triennale Conflict Zones promosso dall'Union des Théâtres de l'Europe, dove cura la rivista online Conflict Zones Reviews. Insieme a Debora Pietrobono, è curatore della collana LINEA per Luca Sossella Editore e ERT. Tra le pubblicazioni, ha firmato Abitare la battaglia. Critica teatrale e comunità virtuali (Bulzoni Editore, 2022); con Matteo Antonaci ha curato il volume Iperscene 3 (Editoria&Spettacolo, 2018), con Graziano Graziani La scena contemporanea a Roma (Provincia di Roma, 2013). [photo credit: Jennifer Ressel]

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