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I giorni dell’abbandono. La fine, nell’inizio

In prima nazionale al Piccolo Teatro Studio Melato di Milano una coproduzione italo-belga: Les jours de mon abandon / I giorni dell’abbandono, di Gaia Saitta, tratto dall’omonimo romanzo di Elena Ferrante. Una storia di separazione e disperazione che però vede una luce grazie alla presenza umana. Recensione

Foto Masiar Pasquali

C’è una scena spuria al Piccolo Teatro Studio di Milano, volutamente disordinata: ci sono schermi TV accesi su video divertenti o eventi sportivi di qualche tempo fa, c’è un cumulo di terra, una porta che spunta dalla sommità e all’angolo un pallone da basket, poi divani, poltrone, sedie, persone (del pubblico), messe un po’ come meglio doveva sembrare o come, più facilmente, gli oggetti sono rimasti in un momento preciso di quei giorni, quelli dell’abbandono. Ciò che sta per iniziare, o che appena è iniziato, è infatti Les jours de mon abandon / I giorni dell’abbandono, coproduzione italo-belga tratta dall’omonimo romanzo di Elena Ferrante (Edizioni E/O, 2002) e portata sulla scena in prima nazionale da Gaia Saitta. E poi ci sono gli attori che parlottano, come fa il pubblico che prende posto e si saluta, si prepara ad assistere, sotto due file di impalcature d’acciaio e fili elettrici strappati, lampade, una scala, un cane che gira libero un po’ dove vuole, molta terra sparsa. Questa è la scena che dà inizio o, meglio forse, non dà esattamente l’idea di voler iniziare, come se fosse semplicemente in corso di svolgimento da altre scene precedenti proprio perché, in mezzo al vocio e alla luce accesa, a un certo punto, inizi questa.

Foto Masiar Pasquali

Olga. La sera in cui forse il padre di questa famiglia sembra voglia tornare a casa. Per restare? O solo a vedere come stanno i due figli piccoli? Olga non lo sa. Non lo immagina ma lo sogna, si aggrappa a una fantasia che poi è tutta la vita che gli è stata tolta, quando lui si è sentito strano, ha capito che stava cambiando e insomma è scappato con un’altra, vent’anni più giovane di lui. E di lei. Già perché qui si parla di lei, Olga. O Gaia. Ecco questo subito diventa chiaro: se questo spettacolo è qui, ora, non è perché tra i tanti possibili testi da portare in scena a un certo punto la produzione ha scelto questo, ma perché Gaia Saitta ha vissuto sulla propria pelle questo abbandono, o un altro simile, ché nulla cambia a parte i nomi e qualche ambientazione (la Torino del romanzo diventa qui Bruxelles). E dunque non è una storia scelta per merito di una lettura, magari anche profonda, ma proprio una storia che ha lasciato segni su chi la vuole condividere. E fa tutta la differenza del mondo.

Foto Masiar Pasquali

Un figlio adolescente ma ancora un po’ bambino, una figlia bambina che invece sembra la più adulta di tutti: questi, a parte il cane, i componenti della famiglia che Olga vede sgretolarsi pezzo a pezzo, mancando quella chiave di volta che teneva assieme tutto l’edificio. E poi una telefonata, l’assenza si prolunga e l’illusione torna estrema: lui, Philippe, non tornerà, non come o quando sperava lei almeno, disperso in quel suo “senso di vuoto” che non lascia certezze, appigli e aumenta la frustrazione del rifiuto. Olga cede, pian piano, al dolore, lentamente cade in una depressione che la priva di lucidità: non riesce a occuparsi dei figli, il ragazzo si ammala, la casa è un disastro, il gas rimane acceso, il cane mangia il veleno, letale. In ognuna di queste manifestazioni di un crescente disagio Olga però recupera senza capirlo uno spirito di sopravvivenza e di responsabilità: l’ordine, l’unica possibile reazione al caos che specchia il dentro e il fuori, da ritrovare grazie all’aiuto degli altri, quella comunità umana che sgombera per lei tutto ciò che non ha posto.

Foto Masiar Pasquali

La regia di Saitta, con molta intelligenza, rinuncia a un impianto narrativo che avrebbe probabilmente diminuito la forza di questa vicenda, scegliendo in contrario di investire in un racconto inquieto, apparentemente privo di punti di riferimento, perché le azioni disconnesse del quotidiano esprimessero proprio la disarticolazione tra il tempo e la condizione di Olga, estenuando il silenzio e la noia a raccoglierne e ospitarne i sintomi più distruttivi. E tuttavia, se lo spettacolo finisse in questo racconto che preme l’abbandono fino a espellerlo, saremmo in una storia abissale ma più volte già narrata, c’è invece in fondo qualche parola che si imprime e non va via: Gaia, non più Olga, mette in evidenza quella forma di dipendenza dal partner, spesso uomo, cui si finisce per affidare l’intero proprio destino. Ma se tutti i sintomi di una separazione sembrano innestati nella crisi di una coppia, questo pericolo è forse il più subdolo perché si annida nei momenti felici, quando si solleva cioè il partner da quella particolare attività che non ama fare, per esempio guidare, comprare biglietti aerei, mettere benzina, pulire il fondo della pattumiera. Ci si risveglia poi anni dopo senza essersene accorti di aver disimparato tutto o quasi di una vita. Si esce con un dubbio terribile: che i giorni dell’abbandono siano già nei giorni del legame? Che la fine di una storia, quindi, sia nascosta nell’inizio?

Simone Nebbia

Piccolo Teatro Studio Melato, Milano – Marzo 2025

LES JOURS DE MON ABANDON / I GIORNI DELL’ABBANDONO
ispirato a I giorni dell’abbandono di Elena Ferrante © 2002 Edizioni E/O
ideazione, adattamento, regia Gaia Saitta
collaborazione artistica Sarah Cuny, Mathieu Volpe, Jayson Batut
testo e drammaturgia Gaia Saitta, Mathieu Volpe
assistente alla regia Sarah Cuny
scene Paola Villani
costumi Frédérick Denis
suono Ezequiel Menalled
luci Amélie Géhin
con Jayson Batut, Flavie Dachy / Mathilde Karam, Gaia Saitta, Vitesse (il cane)
coordinamento tecnico Giuliana Rienzi
regia suono Pawel Wnuczynski
regia luci Corentin Christiaens
creazione e regia video Stefano Serra
assistente ai video Arthur Demaret
direzione di scena Thomas Linthoudt e Stefano Serra
meccanizzazione scene Chris Vanneste
coach bambini Lola Chuniaud
educatore cinofilo (addestramento condotto nel rispetto dell’animale) Casting Tails, Tim Van Brussel
stagiste Lou-Ann Bererd (scene), Tania Chirino (regia), Paul Canfori (regia)
costruzione scene e realizzazione costumi Ateliers du Théâtre National Wallonie-Bruxelles
uno spettacolo di Gaia Saitta / If Human
produzione Théâtre National Wallonie-Bruxelles coproduzione Kunstenfestivaldesarts, Piccolo Teatro di Milano – Teatro d’Europa, CSS Teatro stabile di innovazione del FVG, TNC-Teatre Nacional de Catalunya Barcellona, Théâtre de Namur, Le Manège Maubeuge, La Coop asbl, Shelter Prod con il sostegno di BAMP – Brussels Art Melting Pot asbl, Taxshelter.be, ING et du Taxshelter du gouvernement fédéral belge

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Simone Nebbia
Simone Nebbia
Professore di scuola media e scrittore. Animatore di Teatro e Critica fin dai primi mesi, collabora con Radio Onda Rossa e ha fatto parte parte della redazione de "I Quaderni del Teatro di Roma", periodico mensile diretto da Attilio Scarpellini. Nel 2013 è co-autore del volume "Il declino del teatro di regia" (Editoria & Spettacolo, di Franco Cordelli, a cura di Andrea Cortellessa); ha collaborato con il programma di "Rai Scuola Terza Pagina". Uscito a dicembre 2013 per l'editore Titivillus il volume "Teatro Studio Krypton. Trent'anni di solitudine". Suoi testi sono apparsi su numerosi periodici e raccolte saggistiche. È, quando può, un cantautore. Nel 2021 ha pubblicato il romanzo Rosso Antico (Giulio Perrone Editore)

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