A 24 anni dal debutto, torna in scena fino al 17 aprile al teatro La Comunità di Roma il riallestimento dello storico spettacolo di Giancarlo Sepe “Favole di Oscar Wilde (Per cominciare a leggerle)”. Una produzione Teatro della Toscana che omaggiando il poeta irlandese, invita a un ritorno all’immaginazione come esercizio di umanità. Articolo in media partnership

Ragionando attorno al valore e al ruolo della critica letteraria e della letteratura in generale, Emanuele Trevi scrive: «Temo che il nostro modo di pensare la vita sia troppo anestetico, e questa parola mi cade dalla penna molto a proposito, perché indica due cose: fuga dal dolore e fuga dalla bellezza». Nel mettersi al riparo a tutti i costi dal dolore, l’uomo contemporaneo ha finito per disinnescare l’esperienza estetica, che mai può dirsi compiuta senza passione, che è patimento, contatto con la paura, sublimazione. In questa dimensione di fuga perenne, Favole di Giancarlo Sepe torna a fermare il tempo: a 24 anni dal debutto, un invito al viaggio, all’abbandono dei sensi, immersione lenitiva in quella intercapedine sempre più sottile che sa fatalmente far coincidere l’esperienza estetica pura con quel dolore del sentire o dell’esistere che ha molti nomi e non ne ha nessuno, che non è un corpo estraneo ma l’essenza stessa del nostro stare al mondo. Lo spettacolo, nato all’ingresso nel nuovo millennio, rispondeva alla necessità dell’autore e regista di «rivedere le fondamenta del nostro vivere insieme», nella congiunzione storica dell’ammissione di Oscar Wilde nell’ “angolo dei poeti” dell’abbazia di Westminster; una riconciliazione che la Chiesa e il Regno Unito realizzano a distanza di un secolo dalla sua morte e che induce Sepe a un «atto di devozione» verso lo straordinario scrittore irlandese. Così la macchina scenica di Favole non ha alcuna intenzione di evocare, ritrarre, persino citare Wilde. Sembra piuttosto invocarlo, rivolgersi alla sua opera come nella silenziosa intimità della preghiera, perché ci guarisca, o almeno illumini la nostra trascurata, obnubilata facoltà immaginativa. «Oggi abbiamo una sensibilità molto più a nervi scoperti: abbiamo un bisogno sempre più forte di appurare certe verità che attengono alla nostra dimensione umana, alla nostra volontà, al sentirsi realizzati in una forma che ci rappresenti. Quindi abbiamo ancor di più bisogno di affermare l’immaginazione, questo principio di libertà che è un principio anche di senso, di natura».

Favole. Per cominciare a leggerle: il sottotitolo è manifesto e dichiarazione d’intenti comune a tutto il teatro del regista campano, come ammette lui stesso: «Favole è un po’ la summa di tutti i miei spettacoli. Una sinfonia per immagini, cuori, mani, occhi, sguardi». Sepe ci chiama a un’esperienza di abbandono, a un esercizio di meraviglia. Si potrebbe dire che i sette impeccabili interpreti (Alberto Brichetto, Davide Giabbani, Ariela La Stella, Aurelio Mandraffino, Riccardo Pieretti, Federica Stefanelli, Michele Dirodi) lavorino al servizio di un protagonista: la scena di Carlo De Marino, che invita lo spettatore nel suo ventre. Accolti in questo antro scuro e caldo, possiamo lasciarci trascinare da una forza insieme centrifuga e centripeta, la forza delle immagini. Tutto è agito, guidato, sospinto dalla musica (curata da Davide Mastrogiovanni): una partitura di tempi, ritmi e fiati affilatissima e indispensabile, che in comunione con la luce e i corpi, innesca l’orbita. Le rare parole sono fugaci agganci di senso non utili a tenere la rotta, ma ad aprirne altre e altre ancora.

Al principio lo sguardo antico di Federica Stefanelli, l’eleganza del suo incedere, la misura della sua intensità ci dispongono al viaggio, ci mettono tra le mani una mappa: «Tutto è già accaduto. (…) Dove vai, mia vita? La cecità è per le cose senza sentimento, ma un’altra vista, grazie a Dio, vede solo l’immaginazione. Cose che non sono e non diventano mai reali». In questa certezza possiamo esplorare liberi gli orizzonti che ci si aprono attorno: la circolarità della platea fa sì che tutto accada attorno a noi e ciò produce un’immersione totale e una parallela perdita dei riferimenti spaziali. La luce guida lo sguardo, mentre attorno in perfetta armonia si muovono gli interpreti, ombre fugaci e poi in un istante personaggi, il cui destino abbracciamo per poco e subito ci sfugge dalle mani, senza la pretesa di lasciarci in eredità altro che la nebbia di un’apparizione. Si è al centro di una macchina orchestrata con commovente perizia da Pietro Pignotta (light designer e direttore di scena) e Erica Galante (datore luci), la cui performance è notevole quanto quella degli attori. All’interno della lanterna magica di Favole, tra le molteplici visioni che la abitano appare di tanto in tanto il volto di Wilde, santo protettore di questo rito. Dei suoi racconti Sepe estrae l’essenza e la condensa in una lacrima, in una mano che sfoglia un libro, in una testa che cede al sonno, in una finestra che si spalanca. La suggestione della visione è sempre ancorata a una dimensione concreta, tangibile, data dalla stretta prossimità con una scena “viva” e con i corpi degli attori che, pur muovendosi alle spalle della platea e protetti da un’imponente struttura, condividono l’ossigeno con gli spettatori, in un patto di mutua complicità e rispetto.

Dietro le quinte, poco prima della prova generale, si discute di piccolissimi dettagli: i secondi che occorrono per infilare dei guanti; il peso dei passi perché non producano scricchiolii, i centimetri in più o in meno entro cui muoversi. «È uno spettacolo fortemente costruito, – racconta il regista – ma all’interno di un’empatia con gli attori incredibile, che si sono prestati a questo cimento buttandosi con tutta l’anima. Perché ho dovuto chiedere loro delle cose anche minime: l’espressione degli occhi, dove non guardare o dove poter guardare, come affacciarsi o ritrarsi e in quanti secondi, in quanti millesimi di secondo, in che posizione rispetto al rettangolo che li ospita in quel momento, come stare di tre quarti, di profilo… Rimettere in piedi uno spettacolo simile è di una difficoltà improba, un vero e proprio parto, a cominciare dalla scena. Ma questa è stata la volontà precisa del Teatro della Toscana e io sono molto grato perché penso che questo lavoro possa raccontare alle nuove generazioni di attori e artisti che esiste anche un teatro fatto non solo di parole, ma soprattutto di corpi. Questo è un po’ il mio teatro: andare con la dimensione del corpo a riempire, motivare il significato delle parole». Ulteriore merito di questo riallestimento, così profondamente incastonato nel cuore del Teatro La Comunità di Roma, è di mettere luce sul valore della continuità e della durata di uno spazio come questo, che Sepe custodisce e difende da oltre 50 anni, che ha visto passare centinaia di artisti e fecondato creazioni, idee, forme nuove. «Il grande sforzo del Teatro della Toscana ci rende felici perché salvaguardare il Teatro della Comunità è di per sé una sorta di messaggio: è una vittoria sul tempo, sulla mancanza di intenzione, sulla mancanza di volontà di andare a teatro».
Quell’aria calda e scura, il mantra ipnotico da Les Pêcheurs de Perles di Bizet che già ci aveva messo nel vortice iniziale, ritorna su finale come un vento in cui ancora riecheggiano le ultime parole udite: «tutto (…) rinnego, tradisco, strappo dal mio corpo afflitto: tutto per la passione». Una targa finale, ma anche un invito, un richiamo d’allerta, un risveglio da un sogno dopo il quale la vita che ricomincia non può essere la precedente. Si rimettono i piedi a terra e si ricerca un equilibrio, necessario al corpo. Eppure in quell’abbandono impossibile altrove si vorrebbe restare, come in un ventre materno in cui poter dare del tu al proprio dolore e riconciliarsi con i fantasmi che ci abitano.
Redazione
Info e crediti: https://www.ticket.it/teatro/evento/favole.aspx