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Di Enzo Moscato, dicendo di Tonino Taiuti

Dal 11 gennaio al 2 febbraio la vita e la scrittura di Enzo Moscato sono diventate, tra Salerno e Napoli, una diffusa tessitura culturale con We Love Enzo, rassegna di Casa del Contemporaneo, giunta alla terza edizione. Dieci teatri, una mostra fotografica, cine proiezioni, il sipario di Tata Barbato di nuovo vedibile, gli esiti di un premio drammaturgico, Sala Assoli che prende anche il suo nome e undici spettacoli, tra ritorni e debutti. Così quest’autore senza libri, questo poeta senza pagine – in attesa che tornino sfogliabili i suoi testi teatrali – è stato scritto sul palco, dagli attori e dalle attrici. Già, ma in che modo? Al Nest, ad esempio, sedie, aste microfonate, una lampadina e una chitarra vengono illuminate da un cerchio di luce. S’attende l’interprete. S’odono in quinta dei passi, avanza Tonino Taiuti.

Foto Renato Esposito – Play Duett

Tonino Taiuti entra in scena con la schiena curva dei vecchi e le ginocchia piegate, mentre da dove sono seduto non vedo la faccia. Per via della sua posa e della mia posizione, d’accordo, ma soprattutto perché non abita il cerchio di luce del centro del palco, si tiene invece nell’ombra ed è per ora poco più di una sagoma quindi, acquattata all’aldilà. Il braccio destro mezzo teso, medio anulare e mignolo morbidamente al palmo, pollice e indice attaccati tra loro, come una gattara, schioccando la lingua al palato, chiama ritmicamente «Rusinè, Rusinè, Rusinè», «Rusinè, Rusinè, Rusinè». Nel 1980 la micia veniva nominata da Anna ne Le cinque rose di Jennifer di Ruccello, «quant’è bellella ‘a sera… se vene ‘a ‘mbruscinà avvicino», facendo da tema con cui i due travestiti, deportati dalla città, esclusi alla vista e chissà in che rapporti tra loro, provavano a scacciare la solitudine e rinviare la morte. Sei anni dopo a Sala Assoli Moscato – cominciato Compleanno da pochi minuti: l’ingresso con la torta da poggiare su un tavolo su cui già c’era una bottiglia di spumante sfiatato, il corpo poi su una sedia di legno – evocava Rusinella sfarfallando la mano a mezz’aria ed era il primo segno-saluto-carezza che Enzo faceva ad Annibale, ucciso da due mesi da un incidente stradale, «poiché», avrebbe spiegato, «ho sempre rifiutato la morte di Ruccello» tanto da fare conservazione di lui «nelle parole che batto a macchina, nei gesti che traccio sulla scena». Taiuti prostra invece lo sguardo come cercasse, con la gatta, le tracce rimaste del passaggio di Enzo: l’orma di un passo, il terriccio lasciato da una scarpa, un graffio al legname. Qualcosa che testimoni che sei stato anche qui. Gira in tondo, seguendo dall’esterno l’orlo prodotto dai fari, dando inizio allo spettacolo. Primo pensiero: il tempo di Play Moscato non è l’ordinario e orizzontale della recita ma quello stratificato, frammentario e in dissesto di chi, sopravvivendo, ha in sé anche la vita di chi ha perduto per sempre. Jan Kott lo direbbe «memoria tra i ruderi», Moscato in premessa a Compleanno la chiama «persistenza».

Foto Renato Esposito – La vita dipinta

Play Moscato monta undici brani (sei da Partitura poi finiti in Rasoi, due da Compleanno e Signurì, signurì…, uno da Ragazze sole con qualche esperienza), assoli di chitarra e Indifferentemente, che Taiuti canta con allo strumento Marco Vidino, ospite per pochi minuti perché l’amicizia scaldi anche questa serata. In assito ciò che serve: pedana, microfono ad asta e una lampadina sul fondo, tre sedie e tre microfoni in proscenio, i fogli e i leggii; da sinistra una luce orizzontale, tagli verticali in avanti. Le parole appartengono a spettacoli avvenuti tra il 1982 e il 1991, sono per lo più un ricordo al quadrato (rimandando alle repliche in cui Enzo e Tonino recitarono assieme testimoniano quando fummo io e te) e non danno adito ad alcuna dolcezza, sono nere invece quant’è nero il meteo dei libri (da Malacqua di Pugliese e Mistero napoletano di Rea, da La scienza amara di Compagnone a Il silenzio della ragione di Ortese) che hanno scritto Napoli veramente. Dicono la città «antisolare, ventrica, profonda» che Moscato ha creato fin da Scannasurice, ambientato nel fondaco d’un palazzo in rovina; dicono una comunità sfigurata non «dal terremoto dell’80» ma dal trionfo «dell’ineluttabile obbedire all’il-logica quanto disumana tendenza delle genti a farsi divorare dai consumi e dalla lebbra capitalistica dell’omologazione» che ha imbruttito suoni, ricorrenze e maniere. Tant’è, «nella contea di N.» quasi tutto diventa mostruoso. «A nuttata è passata» ma la luna «nun se move», il firmamento è ridotto a «na saittella» e il mare «de’ taralle ‘nfuse e magnate cantanne» tiene onde «mosce-mosce» tanto che «pare ‘na tavola ‘e morte»; i rubinetti gocciolano, «e seggiulelle strepitano», gli animali impazziscono: gli scarafaggi colmano via Toledo «comm’ ‘na folla», salgono verso piazza Dante poi degradano al San Ferdinando in «una Piedigrotta», mosche e farfalle cadono come le prugne, cani e gatti si scavano «lloro stesso nu pizzo ‘e terra, ‘na ntecchia ‘e frisco», per seppellirsi senz’afa. Non si dorme, non si respira, non si sopporta, non si pensa, comandano perciò i sensi, le voglie, l’abuso: un pugno di prostitute viene sfruttato per fiaccare i nemici e poi sbattuto in galera, un soldato prova a violentare una morta, a Procida un ragazzo di nome Palummiello è preso «pe ‘i rine» e seviziato faccia a terra, anche se implora «datemi pace». Salgono i miasmi, non c’è innocenza né purezza. I ladri stanno tra i portoni dei palazzi e il tanfo di piscio, gli «imbroglioni dal sorriso nero» recitano il gioco aspettando che qualcuno ci caschi, le donne sgravano strappando a morsi il cordone: ne vengono figli dalle «dita a pistola» o feti mezz’abortiti, senza né capo né cosce. La merce s’accumula, il trafficabile è trafficato, restano a terra tovaglioli sporchi dall’unto e gli avanzi d’abbuffo. Neanche un refolo dunque, neanche una goccia di balsamo? La bellezza appare all’improvviso, nel vento, con la consistenza di un coriandolo. Il raro sollievo di un verso, una lamina di sole che batte sui vetri, il profumo di un pavimento appena lavato che scappa di casa e s’incunea tra i dedali, il suono della radio che s’affaccia al balcone e precipita. Labbra che si attaccano come un francobollo alla pelle, una madre che stende il bucato cantando Gilda Mignonette. È poca cosa, che giustifica il fatto di essere nati. Quindi che dirsi, allargando le braccia, sentendo che «pe’ mme tutt’ è fernuto» e che nel retro attende la fine? Che «aggio pruvato a muzzeca’ a passione» senza farmi vedere, e che non lascio che «schegge, crastule, piccoli frammenti, carte c’abbruciano» e cenere, cenere solamente. Quindi calano i fari, Taiuti torna una sagoma – la schiena curva dei vecchi, le ginocchia piegate – e uscendo ricomincia a schioccare. «Rusinè, Rusinè, Rusinè», «Rusinè, Rusinè, Rusinè».

Foto Renato Esposito – Tonino Taiuti con Lino Musella

Il primo a scrivere ciò che andava scritto di Moscato non fu una studiosa o un critico ma un compagno teatrante. Enzo, «l’acquietarsi dell’ansia la trovi, forse, nelle pause, nei silenzi o in quel darti agli altri con una specie di fatalità, nudo davanti agli spettatori». O forse il tuo acquietarsi «è nel dire e pensare per forti intuizioni di poeti condivisi, che sono come punti fermi in una canzone ripetuta e stravolta». Quel che è certo è che «il desiderio del tuo fragile corpo d’attore è il desiderio di una canzone nuova, di un canto nuovo, spremuto dalle macerie» scrive Leo de Berardinis in premessa alla Quadrilogia di Santarcangelo (Ubu, 1999). Enrico Fiore avrebbe parlato di «scialo della bellezza», Franca Angelini di una lingua che viene «dal mondo rovesciato dei morti». «Nostos» ha definito questo «partire e riandare continuamente al e dal proprio genoma» Moscato in un libro – Antologia teatrale, a cura di Antonia Lezza, Annunziata Acanfora e Carmela Lucia (Liguori, 2015) – in cui si dice un naufrago montato su uno scoglio, intento a contemplare il perduto. I Quartieri, il Bagno Eldorado, la scuola elementare, i pomeriggi alla Rinascente, i roghi di guerra, la cioccolata degli americani, una madre che piange un pezzo di carne che somiglia a suo figlio e l’Antologia di Spoon River in Co’Stell’Azioni, i fantasmi di Ritornanti, l’Annibale di Compleanno, l’Eduardo inventato in Tà-kài-Tà – solo per fare qualche esempio. «Ne faccio canto», spiega Moscato, ne fa «poesia» avrebbe detto Giorgio Agamben se avesse letto i suoi versi, intendendo per poesia la lingua che rimane, resiste e ritorna e che chiama, salva e rifonda: anche se solo per la durata dello spettacolo. Ecco, Play Moscato, ricordando un ricordante, è innanzitutto il canto di un canto, la poesia di una poesia o, se preferite, è l’eco d’un’eco, riprodotto da un attore che c’era e il cui corpo funge da testimonianza carnale.

Foto Renato Esposito – O paparascianno

Tant’è, nel corso di Play Moscato in particolare a risorgere non è un accumulo messo in sequenza di schegge tolte a opere differenti, come pure mi sembrava all’inizio, ma il suo contrario ovvero interi brandelli di Rasoi, in cui alcune di quelle schegge confluirono nel 1991. Insomma, all’improvviso non siamo davanti a un rosario eterogeneo e sgranato quanto a uno spettacolo svanito e specifico di cui Taiuti ora salva il salvabile. Perciò s’accovaccia in ginocchio, al momento de A nuttata è passata, nella parte destra del palco ovvero nel punto in cui Vincenza Modica – capelli corvini, pelle sudata, seno che premeva la sottoveste sottile – distesa diceva questo pezzo; perciò retrocede, sale in pedana, fissa la schiena come una statua, il capo fermo sotto la lampadina che gli sfiora la fronte, riprendendo il posto dov’era la Madonna di Licia Maglietta che raccontava Palummiello ventiquattr’anni prima; perciò ridice Rondò, prima parte a destra, seconda a sinistra, terza a destra, replicando per ritmo, spezzatura e spostamenti ciò che in Rasoi compiva lui stesso. «’O mare» detto a occhi chiusi, immaginando di nuovo l’orizzonte; le «vampate» aprendo e chiudendo la destra; la parola «meretrix» sillabata con le dita nell’aria; il palmo portato dalla nuca alla fronte, come per ripetere il numero del capello, su una testa che però nel frattempo è diventata quasi calva; il finale sonoro di Rasoi, versione filmica di Martone del 1993; le gambe unite, la schiena diritta, le mani in grembo – come era solito sedere Moscato – e quel «Viciè…» ripetuto come una nenia, una richiesta di vicinanza, un lamento con aggravio di rimpianto.

Insomma, alla maniera di Cieślak, che nel Mahabharata di Brook, interpretando un re cieco «dalla faccia devastata e bellissima, scavata dai grandi occhi color dell’aria, invasa dall’anima persa come un Tiresia a cui si fosse d’un tratto spenta la vista interiore» – scrive Ferdinando Taviani – tornava al training di Grotowski tornando così alla giovinezza e alle origini, Taiuti in Play Moscato infine non mostra in forma rinnovata qualcosa di vecchio e d’altrui: ripristina invece la memoria che gli stava nei muscoli, facendola risalire oltre-pelle. È il ritorno delle abilità che si accumulano nella carne attraverso gli anni e il mestiere, faccenda tipicamente attoriale sostiene Claudio Meldolesi; è la recita non dell’ombra di se stesso ma della sua stessa ombra, direbbe Taviani; è il rispetto della tradizione come fedeltà a ciò ch’eravamo, che Taiuti ha imparato da Antonio Neiwiller.

D’altronde, questa forse è l’unica possibilità di salvezza.

Alessandro Toppi

Teatro Nest – Napoli, gennaio/ febbraio 2025

PLAY MOSCATO
da Enzo Moscato
con Tonino Taiuti
regia Luca Taiuti
produzione Casa del Contemporaneo

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Alessandro Toppi
Alessandro Toppi
Alessandro Toppi è critico e giornalista napoletano. Scrive prima per il Pickwick, di cui è fondatore e direttore fino al 2022. Dal 2014 è redattore per Hystrio, dal 2019 scrive per le pagine napoletane de la Repubblica e dal 2020 è direttore de La Falena, rivista semestrale di cultura e teatro promossa dal MET di Prato. Negli anni suoi interventi, prefazioni, postfazioni e approfondimenti sono comparsi in varie pubblicazioni. Del 2024 la curatela condivisa con Maria Procino del volume Tavola tavola chiodo chiodo… Il teatro di Eduardo nello spettacolo di Lino Musella edito dalla redazione napoletana de la Repubblica.

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