| Cordelia | marzo 2025 

Tra le tre figlie di Re Lear, Cordelia, è quella sincera. Cordelia ama al di là del tornaconto personale. Gli occhi di Cordelia appaiono meno riverenti di altri, ma sono giusti. Cordelia dice la verità, sempre.

Cordelia è la rubrica delle recensioni di Teatro e Critica. Articoli da diverse città, teatri, festival, eventi e progetti. Ogni recensione è anche autonoma, con una propria pagina e un link nel titolo. Cordelia di marzo 2025 è online da oggi, seguila anche nei prossimi giorni, troverai altre recensioni.

Qui gli altri numeri mensili di Cordelia

#NAPOLI

DELIRIO A DUE (con Elena Bucci e Marco Sgrosso)

Elena Bucci e Marco Sgrosso da decenni fanno (anche) biografia di sé (e del mestiere/destino che hanno scelto) usando trame altrui. Ficcati in scena, tra luci fioche, polvere, vecchi arredi. Un camerino alluso con un telo, come in Risate di gioia, impegnati a «parlare, parlare sempre» come Attilio e Carlotta in Recita dell’attore Vecchiatto. Ora interpretando la rabbia di Thomas Bernhard, ora usando per belletto la vita della Pezzana, di Eleonora Duse o dei suggeritori del teatro all’antica di Tofano. I capelli bianchi di lui che vibrano quando s’infuria; lei che ride appena appena, sgualcendo un viso livido come una maschera di cera. Capita, mi sembra, anche in Delirio a due. in cui la coppia sta tra arredi teatrali ripresi da un deposito più che in una casa dissestata dalle granate: pannelli, trespoli, lampade e uno specchio, una poltrona, un posacenere, un giradischi con altoparlante, un lampadario a sei luci, di cui tre in funzione. Fuori il sonoro di guerra (l’assedio guasto della realtà), dall’alto cade calce che somiglia al borotalco, litigano sul nulla (la tartaruga e la chiocciola sono la stessa bestia?) odiandosi da testo, insopportabili negli anni l’una all’altro, senza sapersi, volersi o potersi separare. Lui che vagheggia carriere mai avute, «sarei potuto essere un pittore», lei che abbellisce esistenze sciupate: «mio marito era un materassaio-artista». Ogni tanto un ballo o una canzone, in memoria di chissà che tempi. «Sei un imbecille», «e tu mi secchi e quando non mi secchi mi secchi lo stesso» ma non bisogna credergli, non più di tanto almeno. Perché se lo scoppio è forte si stringono («sei ferita?», «sei ferito?» all’unisono) con lei che s’appoggia all’avambraccio di lui, con lui che la tiene come per dirle «non aver paura». Tant’è, tremendi sono invece gli istanti in cui non recitano alcuna lite e stanno da soli, come due mucchietti: in ginocchio lei tra penombra e luce calda, lui in poltrona, a occhi sbarrati. Viene in mente la disperazione di Eduardo nei giorni di sosta: o sto in teatro o questa mia, infine, non è vita. (Alessandro Toppi)

Visto a Galleria Toledo. Di Eugène Ionesco, con Elena Bucci e Marco Sgrosso, drammaturgia del suono di Elena Bucci e Raffaele Bassetti, luci di Loredana Oddone, cura del suono Raffaele Bassetti, scene Giovanni Macis e Michele Sabattoli, regia di Elena Bucci e Marco Sgrosso, produzione Le Belle Bandiere, TPE-Teatro Piemonte Europa, Centro Teatrale Bresciano, con il sostegno di Regione Emilia-Romagna.

CASANOVA DELL’INFINITA FUGA (di Ruggero Cappuccio)

Dopo averci catturato trent’anni fa col suo poetico “Shakespea Re di Napoli”, adesso Ruggero Cappuccio ci tende ancora la mano con la scrittura e la regia del suo Casanova dell’infinita fuga, e stavolta al posto del filosofico Roberto Herlitzka, che nel 2015 assunse i panni del seduttore veneziano, ci si imbatte al Mercadante nella placata e tenerissima figura umana di cui è capace un attore come Claudio Di Palma che, vedi caso, spiccava nel testo shakespeariano d’allora. Tutto torna. Col passare del tempo il Casanova di Cappuccio, che in proscenio all’inizio impugna smarrito una valigia, si scopre alle prese con una baraonda di sei poupée incarnanti immaginarie conquiste femminili, lui consapevole di vivere un tramonto nel castello di Dux dove è finito bibliotecario e presagisce la morte. Ma l’autore lo bracca con queste falene vistose e acrobatiche, tra cui svetta la “straniera” in cima a un’altalena, impersonata al di là di ogni genere da Emanuele Zappariello. E a mescolare assai più le carte le voci di tutte le vamp sono assunte, tramutate e doppiate dagli insolenti o arcani toni che appartengono a un’icona della scena come Sonia Bergamasco. Nel lirismo d’un tale purgatorio/pensionato costellato di trapeziste felliniane, carni nude, ventagli e scarpette rosse, il nostro ex dongiovanni nega d’essere Casanova mentre è circondato da intrusioni infantili, mentre racconta come un libertino della sua fatta sia evaso dal carcere dei Piombi, mentre ammette d’aver scritto sui corpi, e mentre, soprattutto, è pedinato da quella creatura androgina che è un suo fantasma, un suo incubo. Se in certi punti lo spettacolo tesse un’enfasi che confina con piaceri cromaticamente intellettuali d’un delirio, di punto in bianco il finale è, grazie anche alla partecipazione profonda e generosa di Di Palma, e al linguaggio rarefatto di Cappuccio, un inno alla sofferenza e alla febbre devastata dell’esistere. Complici la Sarabanda di Haendel, e la fragilità d’un Casanova di vetro di Murano. (Rodolfo di Giammarco)

Visto al Teatro Mercadante: Scritto e diretto da Ruggero Cappuccio con Claudio Di Palma voci delle donne: Sonia Bergamasco e con Emanuele Zappariello, Francesca Cercola, Viviana Curcio, Eleonora Fardella, Claudia Moroni, Gaia Piatti, Estelle Maria Presciutti coreografie aeree con Maria Anzivino, Sara Lupoli, Marianna Moccia, Viola Russo musiche Ivo Parlati, costumi Carlo Poggioli, progetto scenico Ruggero Cappuccio, aiuto regia Nadia Baldi, scenografi Paolo Iammarrone e Vincenzo Fiorillo produzione Teatro di Napoli

ATTO SENZA PAROLE 2 (con Sergio Longobardi e Costantino Raimondi)

Il primo (Sergio Longobardi) ha testa pelata, barba lunga e un corpo decorato da residui dignitosi: il soprabito sgualcito, la fettuccia al collo, la parvenza d’una camicia, un libretto nella sinistra, nella destra una matita rosso/blu, di quelle con cui annota gli errori della vita. Un sandwich, una banana, fogli appallottolati in tasca, dice «associo, a torto o a ragione, il mio matrimonio con la morte di mio padre» e narra la disfatta che l’ha portato in Sala Assoli. Fuori la domenica di Napoli, da passeggio e turismo ipercalorico, qui uno dei clochard di Beckett, di cui mi restano – più che le pagine di Primo amore: la cacciata da casa, la panchina, Lulù e la merda, il sesso, l’abbandono – le mani cotte dal sole, e che il vento ha gonfiato e poi corrotto. Il secondo (Costantino Raimondi) in Atto senza parole 1 è una figura punk-lunare, dai capelli azzurri. Accecato dai fari laterali, costretto al gioco da una regia che cala oggetti di sopravvivenza e morte (un albero, tre cubi, forbici, una corda), scatta ai fischi, s’affanna, suda e s’adopera quindi, fallito il compito (raggiungere la brocca, ottenere l’acqua), gattona in proscenio dicendo con lo sguardo «sta per finire». Neanche fosse Clov. Entrambi, in Atto senza parole 2 ora stanno fianco a fianco, impegnati a prendersi lo sguardo, come se da ciò dipendesse il loro destino. Che infine il fatto è questo, direbbe Jan MecGowran: «che Beckett eleva all’ennesima potenza la sventura dell’uomo mettendo i personaggi in condizioni che normalmente porterebbero chiunque a commettere un suicidio» mentre loro, i personaggi, pur tentati dalla morte (Longobardi invidia i seppelliti al cimitero, Raimondi indossa un cappio) tentano invece di restare in scena, ovvero al mondo. Tra un affanno e un numero (una preghiera, una linguaccia, una carota morsa con e senza cellophane), sorvegliandosi (le pupille di lato, per scrutarsi con fastidio), finiscono nel sacco. Siamo nati, abbiamo vissuto, e lottato addirittura. E ora ce ne andiamo. Imbustati come un mobile inservibile, o come una sedia da buttare. (Alessandro Toppi)

Visto a Sala Assoli. Di Samuel Beckett, traduzione Carlo Fruttero e Franco Quadri, regia Costantino Raimondi, con Sergio Longobardi e Costantino Raimondi, assistente alla regia Annalisa Arbolino, spazio scenico Mediaintegrati, costumi Tata Barbato, disegno luci Antonio Nardelli, produzione e organizzazione Antonio Nardelli.

#ROMA

UNA RELAZIONE PER UN’ACCADEMIA (di Franz Kafka, Regia Luca Marinelli)

Chissà mai se Darwin avesse avuto modo di intervistare le scimmie cosa ne sarebbe emerso, ma più di tutto una domanda sarebbe stata decisiva: ne è valsa la pena? Questa trasformazione in essere umano, se dal nostro punto di vista prende il nome di “evoluzione”, al contrario potrebbe definirsi come un raggiungimento del limite di una condizione, una perdita di caratteristiche peculiari che forse non si era pronti a perdere. Del rapporto tra uomo e natura, tra evoluzione e conservazione, si occupa con estrema ironia Franz Kafka nel noto racconto Una relazione per un’accademia, scritto nel 1917 e pubblicato nel 1919 nella raccolta Un medico di campagna, che oggi Luca Marinelli dirige in forma teatrale al Teatro India. È un monologo, già nella sua forma originaria, che si cuce nell’abito e sulla pelle dell’attore tedesco Fabian Jung, interprete di Rot Peter, quest’uomo cui si richiede di affrontare di fronte alla platea di una conferenza il rapporto con il proprio passato da scimmia, la sua trasformazione in qualcosa di diverso e simile, come proprio è un essere umano. Jung raccoglie tutta la tesa attenzione del pubblico vestendo a ritmo di musica gli abiti civili, appena all’inizio, acquisendo dunque i simboli del mutamento cui presto darà voce: parla dell’adattamento, della crisi culturale, sotto l’indagine e la rivelazione di una luce saettante che lo rincorre per l’intero palco, che lo mette inizialmente a disagio ma poi impara a sfruttarla a proprio vantaggio; quando poi la luce si estende e diventa totale, scopre un panneggio semicircolare che circonda e avvolge i pochi elementi della sala conferenze, proiettando la sua ombra sulle pareti laterali a ingigantirne la figura eretta che si mostra così ancora bestiale. Oltre dunque al dialogo dinamico con la luce, emerge nella regia di Marinelli il ricorso al linguaggio come fulcro di conoscenza (proietta attraverso una lavagna luminosa parole chiave via via imparate dal protagonista), capace di portare da una forma all’altra pur riformulandone da capo l’identità. Il finale è poco chiaro e impreciso, ma una domanda resta in fondo allo spettacolo che rende l’utilità dell’esperienza: l’essere umano è un punto d’arrivo o una via di fuga? A due o quattro zampe, la vita cambia non di poco. (Simone Nebbia)

Visto al Teatro India. Crediti: tratto dall’omonimo racconto di Franz Kafka; regia Luca Marinelli; con Fabian Jung; light designer Fabiana Piccioli; regista assistente Danilo Capezzani; set designer Sander Looner; foto Anna Faragona; produzione Spoleto Festival dei Due Mondi, Teatro Stabile dell’Umbria, Società per Attori

LIDODISSEA (di Berardi/Casolari)

Parto dalla fine: dagli applausi convinti del Teatro Palladium, con Gianfranco Berardi incontenibile, presenta gli attori, scherza ancora con loro, come se fossimo a un un concerto. Verrebbe voglia di chiedergli un bis, per riascoltare i passaggi più lirici, per vedere ancora quel corpo atletico muoversi abbracciando il pubblico cercandone i rumori e l’energia, giocando come spesso fa Berardi sulla sua cecità, sull’impossibilità di vedere chi risponde ai suoi richiami. Ma non è solo in scena l’attore pugliese, con lui l’altra metà della compagnia Gabriella Casolari - graffia la sua Penelope in questa riscrittura dell’Odissea e non ha più pazienza per il maschio avventuriero -; c’è la voce bellissima di Silvia Zaru che scandisce le scene con il canto, e poi Ludovico D’Agostino, un efficace Telemaco schiavo dello smartphone. Di scritture dei classici se ne vedono a bizzeffe, l’idea non è dunque nuova, neppure la vena comica con cui vengono ritratti gli eroi omerici, però nello spettacolo scritto da Berardi e Casolari (con la collaborazione di César Brie) c’è tutto il mondo lirico di questa compagnia, e poi la parola veloce e poetica di Berardi, che trasforma l’epica greca in un canto tutto contemporaneo in cui stigmatizzare il paradossi della nostra epoca, come quando se la prende con la schiavitù subita dagli schermi che affollano le nostre vite. Ulisse dunque libero di vivere la propria libertà lontano da Penelope - che lo tartassa su WhatsApp - si ritrova incatenato prima alla maga Circe e poi alla dea Calipso. E infatti non c’è avventura, i personaggi sono in attesa su spiagge desolate: Ulisse spunta fuori da sotto un telo trasparente, come dal mare: le sedie, gli ombrelloni, i Proci molestatori, Nausica è un incontro giovanissimo, il sogno della purezza. E’ la regia e il suo linguaggio teatrale a costruire la trama scenica, ricca di idee e dinamiche. Ma il tempo passa, i capelli si imbiancano, Telemaco intanto muore, e forse il tempo qui non è una rigida costante, è il tempo della poesia del teatro a contare. (Andrea Pocosgnich)

Visto al Teatro Palladium. Testo e regia di Gianfranco Berardi, Gabriella Casolari con la collaborazione di César Brie con Gianfranco Berardi, Gabriella Casolari, Ludovico D’Agostino, Silvia Zaru elaborazioni musicali Ludovico D’Agostino disegno Luci e direzione tecnica Mattia Bagnoli costumi Giada Fornaciari decorazioni di scena Sara Paltrinieri organizzazione Benedetta Pratelli Produzione IGS APS, Fondazione Luzzati Teatro della Tosse, Teatro Stabile Friuli Venezia Giulia, Manifatture Teatrali Milanesi – MTM Teatro, Accademia Perduta – Romagna Teatri SCRL, Comune di Bassano del Grappa. Con il sostegno del MiC – DIREZIONE GENERALE SPETTACOLO e del Centro di Residenza della Toscana (Armunia – CapoTrave/Kilowatt), Comune di Sansepolcro Si ringrazia il Teatro dei Venti

STABAT MATER (regia di L. Guadagnino e S. Savino)

Benedetta, e non è un’iperbole, la visione di Stabat Mater dal testo di Antonio Tarantino per la regia di Luca Guadagnino e Stella Savino con in scena, nei panni di Maria Croce, una magistrale Fabrizia Sacchi (che firma anche l’adattamento), supportata scenicamente da Emma Fasano. I Quattro atti profani sono stati i primi testi teatrali di Tarantino che presentavano il drammaturgo come figura innovativa e decisiva di una svolta per la drammaturgia italiana. Tra questi, lo Stabat Mater, già passato per le memorabili interpretazioni di Maria Paiato e Piera Degli Esposti, è ora adattato in questo teatro d’attrice, in cui la trasversalità dell’esperienza di Sacchi è osservata dalla regia di Guadagnino e Savino. Il risultato? È come entrare nella gabbia di una tigre e percepire su di essa, nelle sue definite movenze, sensuali alcune, irruente le altre – sottolineate da una camicia bianca e pantaloni neri – tutta la ferocia di una lingua grezza, popolana, rauca a causa delle quattro, cinque sigarette fumate, ma non per questo incapace di modularsi nell’accentazione napoletana, in quella cadenzata litania fatta di ascese misericordiose e violenti cadute, di amore e sofferenza; talmente impetuosa da anticipare le parole e così sofferente da sputarle con livore senza riposo alcuno. Un monologo che diventa preghiera di eternità e di redenzione per questa madre, per suo figlio in carcere e per tutto il presepio di personaggi dannati a cui lei si rivolge: la signora Trabucco, l’Assistente sociale, Don Aldo il prete, il dottor Ponzio, che come Pilato se ne lava le mani del figlio di Maria, e il Dottor Caraffa/Caifa. Fabrizia Sacchi è dolorosamente autentica, come dirà il suo personaggio, e insieme a Emma Fasano, che “serve” la scena fornendo all’attrice delle sedute e una scala per i movimenti, brilla nel nero minimalista della sala, madida di fatica, con gli occhi che da socchiusi si spalancano per fissarsi grandi e intensi in una posa di bellissima disperazione. E il pubblico sembra non abbia intenzione di smettere di applaudire. (Lucia Medri) Visto al Teatro Argot Studio: di Antonio Tarantino, adattamento di Stella Savino e Fabrizia Sacchi con Fabrizia Sacchi e con Emma Fasano, regia Luca Guadagnino con Stella Savino, una produzione Argot Produzioni, Infinito, Fondazione Sipario Toscana Onlus – La città del Teatro, Teatro delle Briciole – Solares Fondazione delle Arti. Foto di Yara Bonanni

IL CUORE DEBOLE DI ANTONIO (di Simone Giacinti)

Che il calcio abbia in dote la capacità di affondare nella società civile fino a scardinare rapporti di forza, istinti bassi e alti ideali, è cosa nota ormai almeno da Pasolini in poi; certo il calcio si è trasformato, diventando una rincorsa di mercato sempre più lontana dalla passione di gente che un tempo – ma non meno oggi – affollava gli stadi. Proprio per questo ad appassionare resta, spesso, il passato. Prima di tutto a proposito del campo, si pensa al calcio di una volta in termini nostalgici in modo quasi morboso, ma c’è invece poi un atteggiamento simile che volge in contrario al positivo in merito alle storie degli spalti, una serie di avvenimenti che attraversano le epoche e si narrano da una generazione all’altra. A Roma, tra le tante, spicca la storia di Antonio De Falchi, morto nel giugno del 1989 durante una trasferta a Milano per seguire la sua squadra del cuore, la Roma, insieme ad alcuni amici; oltre che ogni volta in Curva Sud la sua storia rivive oggi sul palco dello Spazio Diamante per la penna di Simone Giacinti, in scena insieme a Giovanni Bonacci, Giacomo Bottoni e Flavio Francucci, per la regia di Francesco Giordano. Il cuore debole di Antonio racconta la storia del viaggio a ritroso, come una testimonianza resa dopo il tragico avvenimento; sono gli amici che erano con lui a ricostruire l’istruttoria degli eventi, citando Antonio al centro del viaggio in treno Roma-Milano mentre Antonio, vestito con una maglia della Roma (sorprendentemente non d’epoca ma attuale), è fra loro come una presenza silente, dolcissima. Il linguaggio è quello giovanile dell’epoca, i sogni, lo stesso. Antonio e i suoi amici sceglievano il fine settimana di seguire il calcio letteralmente, in giro per l’Italia, componendo la schedina del Totocalcio, portando i panini fatti a casa, intonando cori e cercando di barcamenarsi nelle regole del tifo organizzato. Potevano pensare di trovarci la morte? Ne viene un racconto sentito in cui si confronto non solo un gruppo di tifosi ma una generazione, sul palco e in platea, in campo e sugli spalti, si estende il tempo supplementare di una partita interrotta troppo presto. (Simone Nebbia)

Visto allo Spazio Diamante. Crediti: di e con Simone Giacinti, con Giovanni Bonacci, Giacomo Bottoni e Flavio Francucci; regia Francesco Giordano; scenografia Alessandra Solimene; sound; designer Armando Valletta; aiuto regia Lorenzo Parrotto

LA VITA AL CONTRARIO – IL CURIOSO CASO DI BENJAMIN BUTTON (regia F. Ceriani)

La mimetica interpretazione data da Giorgio Lupano a La vita al contrario - Il curioso caso di Benjamin Button con elaborazione di Pino Tierno dal racconto di Francis Scott Fitzgerald del 1922, con regia di Ferdinando Ceriani, spettacolo visto al Teatro Manzoni, conduce a un’etimologia culturale accuratissima: in tema di invecchiamenti precoci (le sindromi progeroidi) per ammissione dell’autore ci furono spunti di Mark Twain e Samuel Butler (anche una derivazione poetica da Giulio Gianelli), e fa la sua parte il film del 2008. È merito però dell’attore protagonista, e di chi ha concorso all’impresa, se ora uno spettacolo può vantare d’avere precedenti non comuni e illustri. Lupano si presenta come uomo con la valigia (che contiene memorie), e racconta come è nato con un corpo di ottantenne, percorrendo l’esistenza con un’anagrafe alla rovescia, fino a scomparire con un corpo da neonato e con una testa affaticata mentre tutto gli svanisce intorno nel buio di un ‘adesso’ impalpabile. Non ho mai visto un artista così impegnato a sintetizzare (in controtendenza) l’arco di una parabola umana. In un contesto, da noi, che va dall’Unità agli anni 60, acquisendo l’identità di Nino Cotone. Il suo passato di bebè impressionante lo deduce dalle narrazioni (stupefatte) paterne, quando, gestendo la parola da subito, domanda al genitore un bastone e gli occhiali, e preferisce un sigaro ai sonaglini. Crescendo deve respingere le maldicenze sulla sua mostruosità, poi, lentamente ringiovanendo, la sua maturità esteriore pareggia l’età della testa, incontra la donna della sua vita (che invecchierà prima di lui), e ha un figlio - poi delegato al suo posto nell’azienda ‘Cotone & figlio’ - che finirà per vergognarsi d’avere un padre bambino. Incontrerà ragazze fru fru (accanto alle altre voci di lui, ci sono i molti ruoli delle lei ad opera di Greta Arditi), s’imbatterà in due guerre dove non manca la voce di Mussolini, con lapsus militare, e con destino che lo infantilizza sempre più. La performance di Lupano, molto ben guidato dalla regia di Ceriani, è davvero naturale, civile, volubile, ed è un serio piacere seguirlo in un transfer/transfert da una stazione all’altra degli anni (Rodolfo di Giammarco)

Visto al Teatro Mercadante: La vita al contrario - Il curioso caso di Benjamin Button” di Francis Scott Fitzgerald elaborazione teatrale di Pino Tierno con Giorgio Lupano e Greta Arditi regia di Ferdinando Ceriani ideazione scenica di Lorenzo Cutuli colonna sonora di Giovanna Famulari e Riccardo Eberspacher costumi di Laura dè Navasque/costumEpoque Produzione ArtistiAssociati-Centro di produzione teatrale

LA SERRA-MORTE (di S. Guaragna regia di D. Folliero e M. Spampinato)

Le attrici Benedetta Margheriti e Veronica Toscanelli sono le ideatrici e curatrici di Locus Amoenus la rassegna dedicata alle giovani generazioni che, con tre spettacoli da febbraio a maggio, all’interno del Teatro di Villa Pamphilj si fa luogo per immaginare altri luoghi, presentando tre scritture teatrali diverse in cui si concretizza scenicamente la tensione a ripensare lo stato della realtà che ci circonda. La natura abbandonata, inquinata o sintetizzata dagli esseri umani è l’habitat attorno al quale testiamo la nostra capacità di sopravvivenza e, nel secondo appuntamento in cartellone, con lo spettacolo La serra-morte, abbiamo fatto esperienza del costo, fatalmente ineluttabile e ingente, della permanenza sul pianeta Terra. Il testo di Guaragna è complesso, stratificato, a tratti ridondante ma pur sempre maniacalmente strutturato in una successione e giustapposizione di piani che intersecano il “luogo” dei vivi - il palcoscenico abitato dal chimico Bondo (Simone Guaragna) e un gruppo di ragazze (Alice Lepidio, Ilaria Pietrangeli) e ragazzi (Lorenzo Berardinucci, Pietro Formentini) – con quello dei morti, la platea. Sarà proprio il marchingegno della serra-morte, che trasforma i gas serra in emissioni non inquinanti, inventato dal “disperso nel tempo” Bondo, ad offrire alle future generazioni, quindi ai protagonisti, una speranza al presente distopico di una megalopoli deserta. La drammaturgia avrebbe bisogno di ulteriori alleggerimenti formali poiché nella necessità di dover spiegare la storia, rispettando i diversi tempi del racconto, il testo rischia di allontanarsi dal contenuto della tematica socio ambientale e il come lo dice - attraverso giochi, canzoni, monologhi, ricordi - scorre parallelo diventando più ingombrante del cosa. La cura scenica e interpretativa, tanto registica che attoriale, la ricchezza dei movimenti, l’eclettismo del linguaggio e il susseguirsi rocambolesco delle scene dimostrano tuttavia una consapevolezza teatrale che merita di essere affinata e valorizzata. (Lucia Medri)

Visto al Teatro Villa Pamphilj dutante la rassegna Locus Amoenus: regia Daphne Folliero e Martina Spampinato, con Lorenzo Berardinucci, Pietro Formentini, Simone Guaragna, una produzione di Compagnia Fang-ta

BIANCO (di G.Tantillo)

Bianco per il testo e la regia di Giuseppe Tantillo - Segnalazione Speciale al Premio Riccione per il Teatro 2013 con Best Friend – in scena insieme a Valentina Carli, è una storia di malattia e di amore che fa ridere innanzitutto, perché nella scrittura - sia drammaturgica che scenica - si impegna a trattare uno dei temi più diffusi purtroppo ma anche più ostici, senza patetismo e ad avvicinarci ad esso nonostante empaticamente vorremmo allontanarcene. Tantillo e Carli, proprio quando si soffermano sugli aspetti più crudeli, innescano un meccanismo comico tragico di reazione per il quale ci accompagnano con discrezione, tenacia, caparbietà nella sala d’attesa del reparto di oncologia a conoscere Mia e Lucio, entrambi malati. Lei schietta, teneramente cinica, quando ne ha bisogno aggressiva, lui più spaventato, inconsapevole, in fondo ottimista. Jeans e maglietta e camicia bianca, sneakers ai piedi, borsa e poi zainetto, senza orpelli, casualmente semplici. La scenografia (Antonio Panzuto) è fatta con bozzetti proiettati dai colori tenui e dai tratti naif, che non vogliono interferire coi dialoghi ma solo tratteggiare poeticamente sullo sfondo il contesto: una sala d’attesa, la stanza dell’ospedale, il tempio di Angkor Wat in Cambogia…La scrittura, solo in alcuni quadri, sembra involvere su se stessa affaticando un po’ il ritmo (soprattutto nella parte che segue quella del viaggio) ciononostante Bianco è uno spettacolo con interpreti sensibili e arrabbiati, che buca il velo della solitudine di tante e tanti, che fa passare la luce dove è sceso il buio, quando ci si sente unici nella sofferenza e proprio quell’unicità la mette in collegamento con altre simili, abolendo lo stigma, celebrando la paura, rivendicando l’importanza di vivere l’attesa del domani abbracciando, e amando, l’incognita del futuro. (Lucia Medri) Visto al Teatro Belli durante la rassegna Expo – Teatro Italiano Contemporaneo: Con Valentina Carli e Giuseppe Tantillo, Scenografia Antonio Panzuto, Costumi Alessandro Lai, Assistente alla regia Andrea Console, Produzione Binario Vivo Teatro Nuovo / Accademia perduta Romagna teatri / Teatri molisani, Un progetto Bestfriend teatro

#FIRENZE

NIKITA (di Francesca Sarteanesi)

Le due sorelline da spostare all’ossario, che le permette di ricordare com’erano: vestite uguali, coi denti in orizzontale, inadatte a stare al mondo. Il buzzurro che la porta al casinò di Venezia e l’incontro con Julio Iglesias: il gioco di sguardi, la fuitina, il fazzoletto col profumo lasciato tra i seni per cadeau. «Io così in alto quella sera, dove pochissimi possono arrivare». La ruota panoramica, che «era il massimo tra le giostre»: punto di vista alternativo, momento di poesia che nessuno cerca più. I pesci rossi che ha nella boccia e che, nonostante gli abbia tolto il cibo e la torretta con la quale giocavano, «si ostinano a non morire», l’idiozia del marito, i ninnoli della credenza e questa «noia inconcepibile» cui accenna tra uno schiocco di bocca e un tiro al cocktail con la cannuccia. La Nikita di Francesca Sarteanesi parla, parla, parla, camicia colorata, posa da snob, ogni tanto gli occhiali da sole, mentre Nadia (Alessia Spinelli) ascolta e le fa la pedicure. Già, ma che dice? Presentata avara in brochure (si lava a pezzi per risparmiare l’acqua; «non sa condividere neanche una bottiglia di rosso della casa» leggo al Florida) mi pare una creatura fragile, che rimpinza il tempo di chiacchiere perché col silenzio riemergerebbero fallimenti e sconfitte. La giostra volgare che ora gestisce al luna park; la solitudine che le piomba addosso se tace. Narra dunque, o forse abbellisce ed inventa, seduta dietro un parapetto glitterato (addobbo d’effetto, pura apparenza), con Nadia piazzata a una distanza inverosimile (la lontananza a cui tiene la realtà). Tra musiche e avvisi da parco giochi e luci colorate che toccano la platea; infilzando i racconti coi ritornelli di canzoni infantili, la replica identica di frasi e di gesti, indovinelli senza risposta. E quando la dirimpettaia infine le parla, scaraventandole contro la miseria delle cose, Nikita spezza il dialogo dicendo come ha ucciso un tafano. Finché ci si mente insomma – e ti prego, reggimi il gioco – c’è ancora la possibilità di salvarsi. (Alessandro Toppi)

Visto al Cantiere Florida. Crediti: con Francesca Sarteanesi e Alessia Spinelli, drammaturgia e ideazione Francesca Sarteanesi e Tommaso Cheli, regia Francesca Sarteanesi, costumi Rebecca Ihle, scenografia Rbecca Ihle e Lorenzo Cianchi, disegno luci Marco Santambrogio. sonorizzazioni Francesco Baldi, produzione SCARTI Centro di Produzione Teatrale d’Innovazione e Teatro Metastasio di Prato, con il sostegno di Teatri di Pistoia Centro di Produzione Teatrale

#Genova

CRISI DI NERVI (regia di Peter Stein)

Appartenenti al periodo di sperimentazione con il genere francese del vaudeville dopo l’insuccesso delle prime opere, i tre atti unici di Cechov presentati al teatro Ivo Chiesa per la regia di Peter Stein con il titolo Crisi di nervi hanno riscosso un grande successo. Il filo conduttore è, appunto, la nevrosi, che coglie indistintamente i vari personaggi manifestandosi nei modi più disparati: dalla furia cieca dell’Orso, al terrore frustrato del professore, al confronto isterico tra i due promessi sposi. Ne L’orso, una Maddalena Crippa vestita a lutto in un salotto elegante con sedie a sufficienza per accogliere ospiti che non verranno mai invitati, piange in solitudine la morte del marito fedifrago, salvo poi innamorarsi dello scorbutico ex ufficiale (Alessandro Sampaoli) che ha fatto irruzione nelle sue stanze per reclamare il pagamento di un debito. Al professore (Gianluigi Fogacci) de I danni del tabacco viene chiesto di sostenere una lezione sull’argomento, come segnala la scritta sulla lavagna, nonostante sia un accanito sniffatore. Emerge gradualmente un quadro di soprusi e abusi ad opera della dispotica moglie, che lo sfrutta e lo deride. La conferenza diventa così un pretesto per poter dar sfogo, in totale libertà, alla sua rabbia repressa. Il terzo e ultimo quadro, La domanda di matrimonio ha scatenato le maggiori risate, scaturite dal battibecco continuo tra il timido e nevrotico Ivan (Alessandro Averone), che soffre di tic e scompensi cardiaci, e la figlia del vicino (Emilia Scatigno), fiera e ostinata. È la figura del padre Stepan (Sergio Basile) a far da mediatore alla caparbietà dei due giovani, dichiarando appena cominciata la felicità coniugale. Con lo stesso cast dell’acclamato Il compleanno di Harold Pinter, andato in scena lo scorso anno, è portata in scena la comicità sottile della penna di Cechov, che mette in primo piano l’irrazionalità e la perdita di controllo. La spinta delle passioni estreme riacquisisce nuovo vigore, legittimandole e, al tempo stesso, disinnescandole: di fronte alla nostra stessa fragilità emotiva, a volte, non ci resta che ridere. (Letizia Chiarlone)

Teatro Nazionale di Genova: Crediti Produzione Tieffe Teatro, Quirino srl Adattamento Peter Stein e Carlo Bellamio Regia Peter Stein Interpreti L’orso: Maddalena Crippa, Sergio Basile, Alessandro Sampaoli I danni del tabacco: Gianluigi Fogacci La domanda di matrimonio: Alessandro Averone, Sergio Basile, Emilia Scatigno Scene Ferdinand Woegerbauer Costumi Anna Maria Heinreich Luci Andrea Violato Assistente alla regia Carlo Bellamio

#MILANO

ETUDE 6 ON CROWD (di Gisele Vienne)

Una pulsazione ritmica, distante, emerge e si intensifica nell’ombra e anticipa l'ingresso di una luce fredda, intermittente, che squarcia il vuoto abitato da una macchina collocata in una posizione marginale del palco. Dai vetri della vettura intravediamo due giovani figure, nei corpi “nervosi” di Sophie Demeyer e Theo Livesey: non più una folla come nei lavori precedenti, ma i suoi residui oggettuali, i suoi “scarti”. Si tratta di un ripensamento sostanziale che Gisèle Vienne attua a partire da Crowd (2017) per ripensare ancora una volta il linguaggio del rave, scomponendone però la grammatica attraverso una riduzione al grado zero della sua sintassi coreografica. L’azzeramento, tuttavia, non annulla la ricerca performativa dei corpi o la presenza scenica degli oggetti – rifiuti abbandonati che si susseguono come ablazione di una vita altra – anzi esso permette l’irretire di tutti gli elementi fantasmali che contaminano l’universo della coreografa e regista franco-austriaca, restituendo altresì un complesso sostrato malinconico di mancanza, un bisogno viscerale di riempimento, di appartenenza. Se i movimenti collettivi non esistono più, allora non rimane che l’ossessione dell’io, l’incubo, l’abbandono. È qui che si intreccia la narrazione coreografica dei due performer in scena, fatta di fratture, accelerazioni improvvise e sospensioni irreali, acutizzata da sonorità techno roboanti: un rituale privato che mette in scena l'eco infestante di un rito collettivo, dove la temporalità si dilata e si contrae mentre la sua percezione sensibile si deforma. Anche le luci di Iannis Japiot amplificano queste fratture: ombre lunghe tagliano lo spazio, le silhouette emergono per poi dissolversi, in un gioco visivo che rifrange il senso stesso della presenza. Lo smarrimento, nella visione di Vienne, si costruisce così come condizione necessaria al riconoscimento, un esercizio di percezione che scava la presenza nell’assenza, che plasma e trasforma non più solo la collettività ma anche l’individuo. (Andrea Gardenghi)

Visto alla Triennale di Milano. Crediti: concezione e coreografia Gisèle Vienne, con Sophie Demeyer, Theo Livesey, musica Underground Resistance, KTL, Vapour Space, DJ Rolando, Drexciya, The Martian, Choice, Jeff Mills, Peter Rehberg, Manuel Göttsching, Sun Electric e Global Communication, suono Adrien Michel, luci Iannis Japiot, produzione e tournée Alma Office - Camille Queval e Anne-Lise Gobin, produzione DACM, Compagnie Gisèle Vienne

SUPPLICI (di Serena Sinigaglia)

Ci sono delle radici al centro della scena. Poi, un tronco reciso – un altare funebre arboreo – e donne, vestite di terra e polvere, il pianto eterno delle madri, una voce collettiva che riecheggia da secoli, e parole che si spezzano, rami secchi, corpi che si piegano e racchiudono in una lamentazione condivisa. Le Supplici di Euripide, nella trasposizione a cura di Serena Sinigaglia, si presenta così come un'incisione netta nella memoria collettiva: nella tragedia antica le donne di Argo implorano il diritto a una degna sepoltura per i propri figli caduti in battaglia sotto le mura di Tebe. Non solo una tragedia ma un rituale di dolore che prende forma attraverso l’azione corale di sette donne, Francesca Ciocchetti, Matilde Facheris, Maria Pilar Pérez Aspa, Arianna Scommegna, Giorgia Senesi, Sandra Zoccolan e Debora Zuin, che riemergono dal testo euripideo e lo stratificano. Sono madri in lutto, pronte a tutto pur di riavere i corpi dei figli, sono anche uomini di potere, spinti dai desideri di conquista, dall’istinto di sopraffazione. Nella traduzione di Maddalena Giovannelli e Nicola Fogazzi, indagata dalla drammaturgia di Gabriele Scotti, questa stratificazione dei ruoli – che subisce talvolta un affaticamento nell’azione interpretativa delle attrici – sovrappone alle voci un tessuto testuale con citazioni di pensatori per un testo che così rielaborato, torna al passato, ai riferimenti filosofici, ma apre e insiste su una temporalità che invece è tutta contemporanea. Qui, la perdita diviene indice della narrazione: i frammenti, i vuoti, le vocalità spezzate, le braccia protese in attesa di ascolto, i movimenti netti, improvvisi, quasi convulsi, seguono una liturgia di separazione e di raccoglimento, enfatizzata da un bagliore sacrale, e mostrano come la democrazia si riveli ancora un equilibrio fragilissimo, minacciato dal conflitto, dalla prevaricazione, dalla doppia faccia del potere. Per “una storia che non è mai accaduta ma che è sempre esistita”. (Andrea Gardenghi)

Visto al Teatro Elfo Puccini. Crediti: di Euripide, traduzione Maddalena Giovannelli e Nicola Fogazzi, drammaturgia a cura Gabriele Scotti, regia Serena Sinigaglia, con Francesca Ciocchetti, Matilde Facheris, Maria Pilar Pérez Aspa, Arianna Scommegna, Giorgia Senesi, Sandra Zoccolan, Debora Zuin, cori a cura Francesca Della Monica, scene Maria Spazzi, costumi e attrezzeria Katarina Vukcevic, luci di Alessandro Verazzi, musiche e sound design Lorenzo Crippa, movimenti scenici e training fisico a cura di Alessio Maria Romano, assistente al training Simone Tudda, produzione ATIR - Nidodiragno/CMC - Fondazione Teatro Due, Parma

COSTELLAZIONI (di Nick Payne, regia di Raphael Tobia Vogel)

Se esistono davvero infinite versioni della realtà, come suggerisce la fisica quantistica, Costellazioni di Nick Payne le apre e le attraversa, mettendole costantemente in discussione. Diretto da Raphael Tobia Vogel e prodotto da Teatro Franco Parenti insieme a TPE - Teatro Piemonte Europa, lo spettacolo prende corpo grazie all'intensità di due attori umani, anzi umanissimi, come Elena Lietti e Pietro Micci, una scienziata specializzata in cosmologia quantistica e un apicoltore, che finiscono per ritrovarsi a Milano e incontrarsi una e altre mille volte. La scena è un luogo lucido e spoglio, firmato da Nicolas Bovey, che riflette su una superficie specchiante due anime inquiete, due particelle in eterna sospensione: attraverso la partitura luminosa di Paolo Casati che disegna ripetutamente nuove geometrie di senso, essa interroga e demoltiplica la relazione tra queste particelle, creando un altro livello di realtà che le contiene ma a cui, al tempo stesso, sfuggono continuamente. È questo lo spazio in cui si materializzano due mondi paralleli e le loro simultanee varianti, evocate dalla fisica quantistica: insicuro, istintivo e senza filtri quello di lei oppure docile e insofferente quello di lui che cerca invano di trattenere quelle infinite possibilità di una relazione d’amore che con leggerezza nasce e cresce, si complica e si interrompe, ricomincia, finisce. Una molteplicità che si riversa con forza anche in una drammaturgia che procede per frammenti, si sgretola e si consuma, per poi riavvolgersi e ripartire, mostrando come in uno “Sliding Doors” cosa succede se si decide di restare, cosa succede se si decide invece di andare via. Costruendosi come la somma di tutte le vite che si potrebbero vivere, in un fluire senza sosta che la regia incalza, Vogel costringe lo spettatore a perdersi in questo gioco metafisico delle varianti. A ritrovarsi nella possibilità di poter ancora scegliere. (Andrea Gardenghi)

Visto al Teatro Franco Parenti, Milano. Crediti: di Nick Payne, traduzione Matteo Colombo, regia Raphael Tobia Vogel, con Elena Lietti e Pietro Micci, scene e costumi Nicolas Bovey, luci Paolo Casati, produzione Teatro Franco Parenti

#ROMA

NIVES (drammaturgia di R. Fazi e a cura di G. Zorcù)

«Può capitare che il cervello si metta a camminare. Lo sanno tutti: con le vite ferme le angosce navigano» ed è subito una ferita, un ascolto doloroso che il pubblico in cuffia - attento alle parole di questa storia, isolato nella sua bolla sensoriale registicamente costruita ad hoc - percepisce come una fitta che si incunea tra la mente e il cuore, il ricordo e il presente emotivo. Nives è lo spettacolo tratto dall’adattamento dell’omonimo romanzo di Sacha Naspini pubblicato da Edizioni E/O e tradotto in ben 25 lingue. Una telefonata fatta nel cuore della notte dalla vedova Nives (Sara Donzelli) al veterinario Loriano Bottai (Sergio Sgrilli) diventa il pretesto, fisiologico e non premeditato, per rivangare i dispiaceri e i rancori, e allo stesso tempo godere delle giovanili gioie forse, ormai, perdute. «Era la prima volta che quella sua vecchia amica si scopriva così, in fatti che affondavano nell’ignoranza popolare»; la qualità interpretativa è curata, dosata e sostenuta dalla maturità attoriale, in un saliscendi di temperature umorali che mescolano insieme un q.b. di dolcezza a ferale aggressività, straniamento a totale abnegazione, rispettando quasi pedissequamente il testo originale. Dinamica che viene resa in scena attraverso luci colorate in mutevoli sfumature, da un avvolgente drammaturgia sonora di rumori, e da una separazione netta e frontale del palcoscenico in due parti, in cui l’uno e l’altra si parlano attraverso la cornetta, il cui filo pende dall’alto come un cappio che si stringe e si allenta a seconda dei passaggi più o meno sofferenti. «Pensavo lo stesso di te» detta con un filo di voce è un sospiro di rassegnazione che dal passato arriva alle orecchie di oggi; una confessione giunta quasi alla fine di un lavoro di scrittura, letteraria e scenica, di originale e avvincente suggestione. (Lucia Medri)

Visto al Teatro Tor Bella Monaca: dal romanzo di Sacha Naspini pubblicato da edizioni e/o, con Sara Donzelli e Sergio Sgrilli, drammaturgia Riccardo Fazi, a cura di Giorgio Zorcù, voci fuori, campo Graziano Piazza prologo, Elena Guerrini Donatella, costumi Marco Caboni, collaborazione ai movimenti Giulia Mureddu, disegno luci Marcello D’Agostino, disegno suono Umberto Foddis grafica Matteo Neri Accademia Mutamenti | Muta Imago | Con il contributo di regione Toscana, Città di Follonica / Teatro Fonderia Leopolda. Foto di Nicola Tisi.

BRUTTA. (di G. Blasi, regia F. Zecca)

Un training autogeno sulla cyclette, una seduta di psicanalisi junghiana e pure una lectio magistralis sulla libertà di “incazzatura”: Brutta. Storia di un corpo come tanti è una bella corsa, preparata con sano agonismo scenico, cromaticità recitativa e minimalismo registico; adattamento teatrale di e con Cristiana Vaccaro per la regia di Francesco Zecca del testo di Giulia Blasi. Partiamo dalla fine, dall’incontro post spettacolo in cui, il pubblico numeroso (sold out tutte le sere tanto da aggiungere una replica straordinaria) partecipa al dibattito sulla disparità di genere senza ansia da prestazione o pregiudizio politico o eccessivo accademismo. La presa di parola autodeterminata e autodeterminante della protagonista - sola in scena, sulla cyclette, al buio ma racchiusa in una cornice luminosa, a limite tra la tenerezza popolare delle luminarie di una festa di paese e la seducente attrattività delle insegne del Cotton Club – è il fulcro attorno al quale si sfoga questo «corpo come tanti» che dall’infanzia all’adolescenza e fino all’adultità – incisivi i riferimenti all’immaginario maschilista degli anni Ottanta – è condannato alla bruttezza. Qualità che non ha però nel testo un’accezione estetica quanto invece sociale, di genere; “brutta” ovvero, giudicata, esclusa, subordinata, ostacolata, sempre costretta a dover legittimare la propria esistenza sulla base di logiche performanti. Correlativo oggettivo di questo sforzo identitario è infatti la cyclette, unico oggetto scenico. Vaccaro è esuberante, cinica, sarcastica e a tratti compassionevole ma mai pietosa; salta, balla, urla e ride all’interno di una stessa ravvicinatissima sequenza di battute tirate una dietro l’altra e ammantate da un’aura pop grazie alla selezione musicale. “Brutta” è allora la consapevolezza propulsiva di una pedalata velocissima restando ferme e ben salde a terra. (Lucia Medri)

Visto allo Spazio Diamante: di Giulia Blasi, adattamento teatrale a cura di Cristiana Vaccaro, Regia Francesco Zecca, Con Cristiana Vaccaro, Aiuto regia Veronica Buccolieri, Musiche originali Stefano Switala, Disegno luci Camilla Piccioni, Responsabile tecnico Tommaso Orioli, Produzione Do7 Factory, Foto Laura Sbarbori.

OTELLO (di Lella Costa e Gabriele Vacis )

Scale rosse, due teli a far da quinte e poco altro in scena, come un piccolo teatro nel ben più grande palcoscenico del Teatro Vittoria: uscirà da qui Lella Costa mentre dalla platea arriverà il consueto applauso di rito - abitudine che ancora sopravvive con certi pubblici verso le maestre e i maestri della scena e che qui viene subito smorzata dall’attrice che ringrazia per «l’applauso preventivo». In un bianco semplice che in qualche modo rimanda alla lontana a vesti antiche e rinascimentali Costa dopo un piccolo preambolo sulla contemporaneità, con tanto di frecciatina al ministro della cultura comincia il suo attraversamento dell’Otello di Shakespeare; del bardo ci lascia un’immagine suggestiva: i suoi personaggi ci volano attorno, ci somigliano e dopo rimangono un po’ con noi. Non c’è spazio per attualizzazioni forzate o battute che servono solo per acchiappare la risata, la maestria di Lella Costa in questo spettacolo di 24 anni fa, con la regia di Gabriele Vacis, sta nel riportare sempre tutto al testo, alla parola che, come affermava Agostino Lombardo, diventa destino. «Jago oggi lo si definirebbe un underdog», anche quando Costa lancia un’immagine dei nostri tempi l’obiettivo è sempre quello di entrare nella comprensione dei meccanismi testuali, per rendere vividi e tridimensionali i personaggi ai quali dà di volta in volta parola. In fin dei conti è uno spettacolo di narrazione che prende in prestito un testo classico trasformando la performance in una lezione leggera, avvincente e appassionata. Il celebre ammonimento di Jago - definito da Costa un «pirata della parola» a Roderigo, «metti il denaro nella borsa», diventa un rap (per enfatizzare la musicalità della ripetizione shakespeariana della battuta) sulla musica di Soldi di Mahmood. Oggi chi rimarrebbe accanto a un uomo che come Otello impiega cinque minuti per trasformare il proprio amore in gelosia? La domanda retorica di Lella Costa trova risposta purtroppo nei fatti, ma oggi il mostro dagli occhi verdi non è e non può essere più una scusa.  (Andrea Pocosgnich)

Visto al Teatro Vittoria. Con Lella Costa drammaturgia di Lella Costa e Gabriele Vacis regia di Gabriele Vacis scenofonia Roberto Tarasco scene Lucio Diana produzione Teatro Carcano distribuzione Mismaonda

#VICENZA

COHORS (di Camilla Monga e Valentina Fin)

Ogni volta mi sorprende piacevolmente il sobrio eclettismo e l’austera bellezza motoria di Camilla Monga, sempre più spesso connessa per i suoi processi compositivi a musicisti, polistrumentisti, ora anche cantanti. Alla ricerca, non di rado inquieta, e in trasparenza umbratile, di una armonia possibile capace anche di scombinare, per spazî improvvisi, l’ordine del tempo con una preghiera, una voce, una gestualità diafonica (nella sua accezione musicale: ossia disgiunta, affinché sia più ampia la sua ricezione). A Vicenza, per il festival Danza in Rete Off, è stata la volta di Cohors, una «narrazione sonora» realizzata insieme alla cantante e compositrice Valentina Fin. In scena con Monga anche il danzatore Francesco Valli, e con Fin altri due musicisti: Manuel Caliumi (sax) e Marcello Abate (chitarra elettrica). Sullo sfondo di una sala di Palazzo Chiericati, circondata da una quadreria prevalentemente barocca, vi è un telo bianco nel mezzo dello spazio, a forte contrasto e rottura, come per richiamare un’idea di scena effimera, nomade, estemporanea (come una tenda di zingari accampata nel deserto). Dietro questo schermo si alternano silhouette di ombre, forse a contrasto coi corpi in alto dipinti. Un lenzuolo di luce che ospita confusioni cinetiche e giochi di forme: sono macchie che sembrano lacrime giganti o perle fuori formato, come da un viaggio di Gulliver. La più vera magia sono i brani eseguiti di musica antica (da Monteverdi a Purcell) che sbalzano dalla sala tra esoteriche sonorità elettriche e vibrazioni legnose degli arrangiamenti. E il canto, che spiana la strada a un sentire comune, condiviso. Fra le ombre della notte e i contorni del giorno. Sarà stato un indotto site-specific (come una tenda di zingari piantata al Louvre), in attesa di un compimento più teatrale, più meditato-studiato-preparato, epperò tanta istantanea e spasmodica bellezza dice la verità sul Barocco come «una cultura in sospensione imperfetta»: così insegnava Marzio Pieri, per scritture infinite che si squagliano e calchi di santi appestati «sotto teca — l’idea della puzza a maggior gloria di Dio e confusione del peccatore a boccaperta». È questa la meraviglia. (Stefano Tomassini)

Visto a Palazzo Chiericati per Danza in Rete Off progetto di Camilla Monga e Valentina Fin coreografia e allestimento scenico Camilla Monga interpreti Camilla Monga e Francesco Valli musica live di Valentina Fin (voce) Manuel Caliumi (sax) Marcello Abate (chitarra elettrica) produzione Nexus Factory

Ballet Junior de Genève (coreografie di Marne Van Opstal, Rachid Ouramdane, Barak Marshall)

C’è un filo invisibile, un comune riflesso, un’impronta ospitale in questi tre lavori, diversi e temporalmente distanti, eppure segnati da una stessa amicizia: ed è quella con la cultura performativa europea. Qui si tiene insieme la musica di J.S. Bach al cànone come metodo compositivo nonché al genere del teatrodanza quale memoria culturale. (Quando i baroni dell’accademia italiana mi bocciavano continuamente a tutti i concorsi universitarî perché considerato fuori lobby e figlio di ignoti, o meglio da ignorare, da ignoranti, solo presso i programmi di finanziamento della commissione europea trovai pronta risposta e libero sostegno ai progetti di ricerca anche di vita che ostinato inseguivo.) La serata del Ballet Junior de Gèneve vista al Teatro Comunale di Vicenza per Danza in Rete Festival è senz’altro composita. Eppure perfettamente armonizzata, non solo dai contenuti ma anche dagli straordinari interpreti: 20 e più giovanissim*, tutt* da applaudire. Il primo lavoro è Touch Base di Marne Van Opstal, il suono è “period”: violini e clavicembalo dal repertorio concertistico bachiano. E il contrasto non potrebbe essere maggiore: questo fare il punto (nel titolo) traduce proprio uno stare al passo. Qui, tra movimenti collettivi, scatti decisi, duetti frizzanti continuamente intervallati da prese vigorose e spezzature continue, un contrappunto visivo prende forma capace di generazione continua di immagini sonore e di gestualità astratte di grande musicalità. Il secondo ha un titolo bellissimo, Tenir le temps, di Rachid Ouramdane. Ed è un lavoro in cui il principio del cànone costruisce e dissolve gerarchie di movimento, in un loop ritmico (e percussivo) da piano preparato di Jean-Baptiste Julien. Una mobilità di schiere, di file, di incroci e passaggi creano un’intensa visualizzazione musicale. La questione che si pone è semplice: chi tiene il tempo affinché tutto funzioni? chi domina il tempo per guidare e comandare senza però soverchiare, opprimere, tiranneggiare? Il terzo lavoro, «triste e divertente», è di Barak Marshall, Rooster, ispirato a un racconto di Isaac Leib Peretz in cui si processa il qualunquismo passivo di un uomo irrimediabilmente qualunque. (Stefano Tomassini)

Visto al Teatro Comunale di Vicenza: Crediti completi

THE BODY SYMPHONIC (di Charlie Prince)

È un suono sottile, diffuso in uno spettro udibile le più volte impalpabile per uno spazio capillare, quello che nasce e prende vita da The Body Symphonic, performance-concerto del danzatore libanese Charlie Khalil Prince. Vista (dopo il debutto romano di Orbita) sul palco del Teatro Comunale di Vicenza, fa parte di Danza in Rete Festival che quest’anno ha maturato una programmazione curatoriale davvero di grande valore. Ci sono rumori e altri effetti in loop creati da una pedaliera, una chitarra elettrica sfregata anche con un archetto, campionamenti e registrazioni vocali con canti soffusi che provengono da un mini altoparlante wireless, diversamente posizionato. E poi la presenza del percussionista Joss Turnbull che intensifica l’atmosfera musicale mediorientale con ritmi e suoni esplorati sul tamburo anche attraverso dita, palmi, unghie e oggetti di metallo. E poi la gestualità di Prince, che è anche musicista laureato con specializzazione in studi religiosi. Una gestualità asciutta ed essenziale, minimalista e ascetica, continuamente negoziata tra una tensione spiraliforme, il richiamo a una gestica folclorica, il movimento seduttivo del bacino con la manipolazione degli arti e la staticità del chitarrista in un duetto irresistibile. Un corpo naturalmente musicale, ma che declina in termini ‘sinfonici’, ossia come in un tutto organico tra gesto e suono, una idea di presenza radicata nuovamente nella storia. Per danzare una meditazione giustamente archeologica, capace di far fronte testimoniale, attraverso il flusso sempre trasformativo della performance, «alle molteplici crisi politiche e geopolitiche in Libano», «attraverso rituali di scavo - rivelando mitologie nuove e sconfinate e consentendo un’agency illimitata di auto-rappresentazione e radicamento». È dunque una presenza politica che nello spazio, nel cono di luce che proviene da un faro dislocabile, dissemina e incarna traumi e domande che ricevono fragili risposte. Nella circolare mobilità del torso, nella lenta torsione delle braccia e delle mani, Prince descrive una equivalenza tra suono e corpo in frasi di movimento che, pur nella loro contenuta motilità, pulsano di potenza, come di un dolore sempre incombente, sempre alla carica. (Stefano Tomassini)

Visto al Teatro Comunale di Vicenza, Festival Danza in Rete: Crediti completi

#MANFREDONIA

SETTE A TEBE (regia di Gabriele Vacis)

All’ingresso in sala la luce è accesa fra le poltrone e così resterà per tutto il tempo della messinscena, non serve indurre un’immersione identificativa ove tutto ciò che accade è così connaturato in noi da essere ben prima e ben dopo di noi. Il sipario è aperto, sul fondo bruno campeggiano avanzate sull’asse retto orizzontale e frontale alla platea undici sedie, nere come gli abiti essenziali degli interpreti che sono già in scena, in movimento. Singolarmente, in coppia o più numerosi cominciano a comporre nuclei di azione o meglio sarebbe dire di pre-azione, avendo come l’impressione che quella dinamica sia un modo e un moto necessario a preparare non solo loro, ma noi pure, al travalicamento dimensionale che trascina i fatti, le vicende, la storia, il mito fuori dal respiro corto in cui succedono, successero o succederanno per effonderli in un vortice il cui soffio potente e infaticabile li rivuole sempiternamente umani, ad agitare i corpi tra gli impulsi muscolari e la costruzione dei riflessi energetici messi in forma dalla visione, a plasmare le voci tra il diaframma e la cassa di fonazione della bocca. La drammaturgia che Gabriele Vacis ha composto con i ragazzi del PEM vede la tessitura di nuclei tematici e parole dette affiancata da una partitura suggestiva di suoni e canti. La presenza dei singoli (intendendo in questo modo l’unità di intenzione, azione, corpo e voce), si riverbera costantemente in quella del gruppo, un coro che si struttura a schiera o a cerchio e si vuole utile a ricalibrare una percezione di comunità, di società civile o forse di civiltà sociale, disseppellendo il filo che lega Eteocle e Polinice al Vietnam o al Donbass, Melanippo a una Beretta 92 FS. Come se la vacuità degli occhi di ciascuna morte sopraggiunta in battaglia, sia essa una battaglia bellica o esistenziale, potesse servire a domandarci se non sappiamo sottrarci al conflitto, se ci consegniamo e rimaniamo in guerra o se la guerra non sia in noi cui non resta, qui ed ora, che affermare che siamo vivi. (Marianna Masselli)

Visto al Teatro Comunale Lucio Dalla: Ispirato alla tragedia di Eschilo drammaturgia di Gabriele Vacis e PoEM con le attrici e gli attori di Potenziali Evocati Multimediali: Davide Antenucci, Andrea Caiazzo, Lucia Corna, Pietro Maccabei, Lucia Raffaella Mariani, Eva Meskhi, Erica Nava, Enrica Rebaudo, Edoardo Roti, Letizia Russo, Lorenzo Tombesi, Gabriele Valchera regia di Gabriele Vacis scenofonia e allestimenti Roberto Tarasco cura dei cori Enrica Rebaudo fonico Riccardo Di Gianni produzione PoEM Impresa Sociale con Artisti Associati Gorizia, Fondazione ECM Settimo Torinese

#NAPOLI

COME UN ANIMALE SENZA NOME (di Lino Musella)

A sinistra, difronte Luca Canciello ai suoni (fischi, distorsioni, battiti in loop) e alle spalle, in quinta, Igor Esposito, che di Come un animale senza nome cura la drammaturgia. Musella si siede con davanti un microfono. Così perché in un teatro che fa da camera amplificatoria si senta Pasolini, usando la premessa di Poeta delle Ceneri come tronco biografico da cui diramare rime e pagine (da Pietro II a Il pianto della scavatrice, da La ballata delle madri a Gli italiani) a brandelli perché tolte agli artigli dell’oblio. Ne vengono l’eco indistruttibile d’una vita e una chiamata coscienziale dagli inferi perché si ridesti in noi la rabbia, che «se ti guardi intorno ti accorgi della tragedia», che aspetti? Dunque Bologna, il padre-nemico, la madre che fa la serva, Roma, le borgate, il fazzoletto rosso dei contadini, gli ordini delle madri all’origine dei compromessi del presente («Covate nel petto la vostra integrità d’avvoltoi!»), il fascista cui, senza farsi illusioni, chiede di amare i poveri, i nomi di chi mise le bombe o sporca l’Italia ogni giorno (abuso di denaro pubblico, uso illecito degli enti, «distribuzione borbonica di cariche agli adulatori»: intendiamoci, riguarda anche il teatro). Che così fa un’intellettuale: solo, e che non ha nulla da perdere. Ma il valore di Come un animale senza nome oltre che nel testo è nel corpo: Musella sempre di profilo, a rifiutare la frontalità dell’interpretazione mascherale. Mani alle ginocchia, busto ritto, capelli con la fila, occhiali, il volto scarnificato da una luce: Pasolini s’intravede solo come fosse l’orlo o l’ombra della pelle. Il rap di Le ceneri di Gramsci, Siamo tutti in pericolo in crescendo – come per la lettera di Eduardo a Tupini in Tavola tavola, chiodo chiodo… – perché sia uno schiaffo. Già, Eduardo. Morto Pasolini Musella ci guarda: «Non li toccate quei diciotto sassi» messi a difesa di una voce altissima. Li levigherà il vento, la pioggia li farà lucenti, «non li toccate». Così disse il Maestro, ossuto, tremando. (Alessandro Toppi)

Visto a Sala Assoli. Crediti: testi di Pier Paolo Pasolini, un progetto di e con Lino Musella, musiche originali di Luca Canciello eseguite dal vivo, drammaturgia Igor Esposito, produzione La Fabbrica dell’Attore, Teatro Vascello Cadmo

#PRATO

OGNISSANTI (di S. Petyx, regia E. Vetrano e S. Randisi)

Le mani, prima di tutto. Si agitano nello spazio conteso tra la luce e il buio, ossute ma non meno eleganti tagliano l’aria come si vedesse, come fosse tangibile, percorrono sentieri di azioni e li distendono, sembrano liberarli dagli ostacoli, perché ci possano star sopra le parole. Non va via questa immagine dal palco di Ognissanti, le mani sono di Enzo Vetrano, là alle sue spalle sulla parete c’è Stefano Randisi, immobilizzato dall’arte e dalla storia in egual misura, il teatro è il Fabbricone di Prato per l’ennesimo lavoro riuscito nella stagione ideata da Massimiliano Civica. Ci sono due santi, in questo testo di Sabrina Petyx scritto apposta per i due attori, sono raffigurati in due dipinti contigui, appesi alla parete di un possibile museo, tesi in posizioni evocative di una beatitudine da nobiltà religiosa, che lasciano intuire le azioni per cui hanno raggiunto in vita l’imperitura memoria ultraterrena. Eppure, chissà, saranno due santi anonimi? Sono loro stessi a dirlo quando, forse nella solitudine di un museo chiuso, iniziano a muoversi e parlare tra di loro. Vetrano compie il gesto di uscir fuori, sfonda i contorni del proprio riquadro e acquista la terza dimensione, quella della relazione con lo spazio e il tempo, mentre l’altro santo resta dentro, tiene lo scranno del proprio alto grado; ecco che le luci di Max Mugnai, forti e nette a battere tra il buio e il rosso cardinalizio, disegnano due piani in dialogo tra loro, un dentro e fuori non dalla scena ma dal dipinto. Ma sono poi davvero, questi, due santi? O forse solo due modelli di allora che la smemoratezza della finzione ha così dipinto? C’è un’impostazione pirandelliana in questi due personaggi in cerca d’autore, o meglio, in cerca di comprendere se il tempo abbia reso santi questi due inquisitori morti ammazzati o sono ancora due poveracci come allora. La regia di Vetrano e Randisi, sostenuta dalle musiche di Gianluca Misiti che sceglie un percorso classico, evolve con qualche lentezza nell’ascesa del climax, ma governa la commistione tra un comico da marionetta e il tragico con pazienza e maestria. Santi oppure no, “chiunque – dicono – darebbe la vita per una cornice dorata”. (Simone Nebbia)

Visto al Teatro Fabbricone. Crediti: di Sabrina Petyx; interpretazione e regia Enzo Vetrano e Stefano Randisi; scene e costumi Mela Dell’Erba; luci Max Mugnai; musiche originali Gianluca Misiti; produzione Teatro Metastasio di Prato

#ROMA

IL SOGNO DI UNA COSA (di e con Elio Germano e Teho Teardo)

Una linea retta interseca il tempo e collega gli anni del dopoguerra al presente; la ciclicità degli avvenimenti con le sue urgenze si rinnova e i tre ragazzi del romanzo, il primo, di Pasolini ci parlano dei tanti e tante che oggi attraversano la rotta balcanica. Elio Germano e Teho Teardo adattano teatralmente Il sogno di una cosa in un concerto, anche se sono solo loro due gli autori e gli interpreti nella scena spoglia. La molteplicità dei punti di vista, da quelli dei protagonisti Nini, Milio ed Eligio, si allarga a quella corale dei paesi friulani dai quali provengono e che attraversano per giungere poi in Jugoslavia. La voce narrante di Germano e la sua corporeità diventano strumenti risonanti le parole e i loro significati, amplificati dalla tessitura sonora di Teardo, la quale riecheggia nelle note della chitarra, si amplifica negli echi elettronici e si eleva nel tintinnare delle campane. La “cosa” in cui si sogna è la rivendicazione politica contro l’oppressione, la fede in un comunismo, quello di Tito, nel quale si voleva riporre fiducia per scoprirne poi l’illusione idealistica, fiaccata dagli stenti e quindi anche dalla morte. La riconosciuta sapienza artistica di Germano e Teardo, la loro coerenza politica nelle scelte finora compiute, in questo caso purtroppo non riesce a sostenere la dimensione teatrale sia nella recitazione – che non suscita empatia tanto che si fatica a “credere” in quel neorealismo del racconto e i registri e le tonalità con cui viene detto spesso si uniformano in una sola monotonia – sia nella drammaturgia musicale, poco complementare al testo e che, soprattutto nei passaggi più virtuosistici, lo sovrasta. Tuttavia, prevale l’intento di far risuonare la tensione giovanile e l’ingiustizia storico sociale: un moto d’animo e politico, lo stesso che spinge le nuove generazioni di migranti ad andare fuori a scegliere il cambiamento, personale e collettivo. Del resto, non sono proprio i migranti i veri rivoluzionari? (Lucia Medri)

Visto a Spazio Rossellini: Liberamente tratto dal capolavoro di Pier Paolo Pasolini. Una produzione Pierfrancesco Pisani per Infinito Teatro e Argot Produzioni. In coproduzione con Fondazione Teatro della Toscana. Con il contributo di Regione Toscana.

L’UOMO DEI SOGNI (di Giampiero Rappa)

I personaggi che appaiono nei nostri sogno sono nostre creature, pezzi sparsi di un subconscio palpitante che si scatena durante la notte. Al povero Giovanni vengono a fare visita strani individui, i quali, subito dopo l’apertura del sipario addirittura invocano diritti sindacali, come in una moderna versione dei personaggi pirandelliani in cui questi sono dei lavoratori che reclamano una vita dignitosa. Ma nel caso de L’uomo dei sogni scritto e diretto da Giampiero Rappa, la causa non è la “servetta fantasia” come per il genio agrigentino (o almeno non solo), qui è la depressione ad aver aperto la porta a uomini neri e fantasmi di altro tipo che appaiono durante la notte scavandosi un buco nella rete del sonno come avviene con le parasonnie. In una scena semplice, ovvero l’interno di una casa pronto ad adattarsi grazie a luci e tende nei luoghi dell’incubo o nel corridoio di un aereo, Nicola Pannelli è generoso e profondo come sempre, il suo Giovanni è un fumettista, accanto a lui Elisabetta Mazzullo, una figlia volitiva, diretta, ma anche amorevole, tornata dall’altra parte dell’oceano per stare vicina al padre. Funambolici Andrea Di Casa ed Elisa Di Eusanio nel dare vita, carattere e voci agli inquilini della mente e a un socio di Giovanni, Guido (che ha buone colpe sulle frustrazioni del protagonista) e a una vicina che allevierà la solitudine dell’uomo. Lo spettacolo riesce a mescolare una piacevole leggerezza con momenti di riflessione, è un gioco per attori e attrici che tiene la platea in una attesa ricettiva, anche grazie alle ottime idee registiche con cui Rappa deve gestire i complessi piani del racconto e le suggestive intersezioni tra il mondo reale e quello onirico. Nel finale si ribalterà la situazione e Giovanni dovrà salire su un aereo per andare in aiuto della figlia: ma ormai sogno e realtà saranno diventati un'unica verità tangibile, quella del teatro, in cui tutto è possibile. (Andrea Pocosgnich).

Visto al Teatro Sala Umberto. Scritto e diretto da Giampiero Rappa Con Andrea Di Casa, Elisa Di Eusanio, Elisabetta Mazzullo, Nicola Pannelli Costumi: Lucia Mariani Musiche: Massimo Cordovani Disegno luci: Gianluca Cappelletti Assistente alla regia: Michela Nicolai Direttore di scena: Davide Zanni Scene: Laura Benzi Organizzazione Rosi Tranfaglia

MADRI (di D. Pleuteri, regia A. Sinigaglia)

A leggerlo il testo del ventisettenne Diego Pleuteri potrebbe trarre in inganno facendo pensare alla necessità di una struttura registica corposa, di un solido immaginario dal punto di vista della costruzione scenica e dunque dell'invenzione teatrale. Alice Sinigaglia, che d’altronde rispetto all’autore ha solo un paio di anni in più, mostra invece una evidente fiducia nel testo e negli attori. Riuscire a far emergere il mondo che si nasconde dietro le parole di Madri, non c’è molto altro in questo allestimento eppure è tantissimo. In una scena che articola lo spazio tra tavoli, microfoni, sedie, leggii e scatoloni Valentina Picello e Vito Vicino (il secondo è straordinario per come tiene il passo di un’attrice fenomenale per ricchezza tecnica e inferiore) cominciano con una sorta di lettura, qui Sinigaglia si diverte a giocare metateatralmente sulle diverse possibilità sceniche: come se la realtà del primo dialogo tra madre e figlio dovesse trovare un corrispettivo nella realtà del teatro, nella relazione tra attrice esperta e giovane interprete. Lo spettatore potrebbe pensare di avere avuto la sfortuna di assistere a una mise en scène, ma poi tutto cambia, i fogli del copione torneranno in seguito, con quel rumore di sottofondo che sarà il corrispettivo sonoro delle blatte tanto presenti nel testo, i brani registrati, e quell’atmosfera onirica che lentamente si prenderà la scena, in maniera sottile e quasi lynchiana. Il testo di Pleuteri (che nonostante la giovane età può vantare anche una collaborazione con Leonardo Lidi) svela con grazia - e tutto nel dialogo - i caratteri e fragilità: i due personaggi «hanno la testa bucata, i loro pensieri fuoriescono senza sosta», spiega Sinigaglia nelle note di regia,  la madre interpretata da Valentina Picello è intelligente e ironica, ma è alle prese con un buco interiore che difficilmente si ricuce, anzi forse nonostante le visite del figlio si allarga lasciando intravedere stati depressivi e problemi di memoria. Si parla di cose apparentemente piccole e futili, di una parola dimenticata in un articolo, di doveri genitoriali disattesi e non c’è bisogno del dramma, ché questo già brulica nel silenzio di una solitudine che riconosciamo nei giorni neri di questa nostra epoca. (Andrea Pocosgnich)

Visto al Teatro Biblioteca Quarticciolo. Di Diego Pleuteri con Valentina Picello e Vito Vicino regia Alice Sinigaglia sound designer Federica Furlani scenografo Alessandro Ratti luci Luca Scotton produzione La Corte Ospitale coproduzione SCARTI Centro di Produzione Teatrale d’Innovazione con il contributo della Regione Emilia-Romagna con il sostegno del MiC e di SIAE, nell’ambito del programma “Per Chi Crea”

TRE GIORNI (di Federico Malvaldi)

Di fronte al pubblico di Fortezza Est una file di sedie, quelle della sala d’accoglienza degli ospedali, o di altri luoghi e uffici pubblici, c’è seduto un uomo, giovane, la testa è coperta da un copricapo, una larga felpa di pile lo avvolge. Dietro di lui un set di luci che ora illuminano di verde l’atmosfera, una melodia orecchiabile accompagna la sofferenza dell’uomo, il volto si contrae e poi le mani vanno lì in basso, a coprire la vergogna. Perché il corpo non controlla più certe sue funzioni durante la malattia, a causa dei tanti farmaci. Rob fra tre giorni dovrà essere operato, gli è stato diagnosticato un tumore alla spina dorsale; non vuole dirlo alla madre e ha un amico che quotidianamente verrà per tentare di convincerlo a mangiare. Quando lo spettacolo scritto e diretto da Federico Malvaldi si apre al pubblico siamo già nel mezzo di relazioni maturate in giorni di ospedalizzazione, Rob se la prende con tutti, compresa un’infermiera premurosa e una tirocinante, Emanuela, futura dottoressa con la quale stabilirà un rapporto speciale. La messinscena è semplicissima - la fila di sedie rappresenta anche il letto, dietro vi è un carrellino per gli effetti personali e un’asta porta flebo - e gioverebbe forse una minore frontalità: è pur vero che le entrate e uscite sempre laterali e dalle quinte degli altri personaggi sono sensate nella visione in soggettiva del paziente ospedalizzato ma sarebbe interessante vagliare alternative registiche. Questo giovane gruppo di attori (Daniele Paloni, Francesca Astrei, Veronica Rivolta e Luca Carbone) punta tutto sulla naturalezza, attraverso un tema che rischierebbe facilmente di prestare il fianco alla retorica o a rassicuranti sdolcinatezze. Eppure il testo resiste pur nella sua immediatezza quotidiana, anzi tocca momenti divertenti e alti, la riflessione sulla morte è prima sottotraccia e poi esplicita, senza peli: poche ore prima dell’operazione Rob vorrebbe fuggire tanta è la paura e una notte aveva tentato anche di trovare conforto - senza riuscirci - nella preghiera; quel 50% di possibilità di salvarsi è una spada di Damocle sui suoi pensieri. (Andrea Pocosgnich)

Visto a Fortezza Est. Scritto e diretto da Federico Malvaldi Con Daniele Paloni, Francesca Astrei, Veronica Rivolta e Luca Carbone Costumi di Marta Montanelli Suono di Leonardo Raspolli Assistente alla regia Alice Casagrande Una produzione Compagnia Mauri Sturno In collaborazione con Remuda Teatro E.T.S.

ANNA CAPPELLI (di A. Ruccello, regia R. Chiocca)

Al Cometa Off la platea spiovente, che permette un’ottima visuale all’intero pubblico, finisce molto vicina alla scena: siamo lì, pronti a scrutare ogni minimo segnale, ogni espressione attorale, ché tutto si amplifica in quello spazio. La Anna Cappelli di Giada Prandi entra ed esce da uno spazio quadrato reso tridimensionalmente attraverso un semplice telaio bianco, idea esteticamente funzionale ma meno efficace dal punto di vista drammaturgico dato che l’attrice vi rimarrà chiusa chiusa solo nel finale, in una sorta di prigione immaginaria, soluzione tra l’altro un un po’ telefonata rispetto al finale post omicidiario. E qui d’altronde sta il problema dello spettacolo: il testo di Annibale Ruccello è un classico della drammaturgia in grado di scandagliare le profondità dell’animo di una giovane donna durante il boom economico. Siamo nei ‘60, Anna lavora, è indipendente ma deve comunque avere a che fare con i tabù sociali che la vorrebbero sposata e non convivente con il suo Tonino, il percorso drammaturgico però è semplice: Anna si innamora, va a convivere con un ragioniere conosciuto in ufficio e viene poi lasciata dall’uomo, l’azione sanguinaria finale va letta non come una vendetta ma come una volontà di possessione sovrumana sull’uomo con cui condivideva l’amore. Nella visione registica di Renato Chiocca però è già tutto amplificato, Giada Prandi usa una voce poco più alta della sua voce naturale (per poi abbassarla all'improvviso in alcuni momenti), in gran parte monotona, che racconta di una certa ingenuità del personaggio, e poi però gli occhi sbarrati a evidenziare gli eccessi di follia con quel “mio, mio, mio…” a sottolineare le ossessioni di possessione. Da una parte l’interpretazione soffre di una certa esteriorità e dall’altra anticipa da subito la follia rendendo tutto meno interessante, tutto già prestabilito (si guardi al contrario la recente lettura di Tolcachir e Picello) e stereotipato, come nel finale in cui Anna si scaraventa sul corpo di tonino per mangiarlo, ma a terra non c'è nulla.  (Andrea Pocosgnich).

Visto al Teatro Cometa Off. Con Giada Prandi Di Annibale Ruccello Regia di Renato Chiocca Scena : Massimo Palumbo –Costumi : Anna Coluccia Luci : Gianluca Cappelletti – Musiche Originali : Stefano Switala Tecnico luci : Luca Carnevale

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