Recensione. Al Teatro Nazionale di Gent abbiamo visto No Yogurt for the Dead di Tiago Rodrigues. Sarà in scena anche a Lisbona e poi al Wiener Festwochen di Vienna: per ora nessuna data italiana è stata annunciata.
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Visto in prima mondiale al NTGent (polo belga della scena europea già diretto da Milo Rau che, ora sovraintendente del Wiener Festwochen, ne resta uno degli house director), il nuovo testo scritto e messo in scena da Tiago Rodrigues, drammaturgo e regista portoghese – negli ultimi due anni valente direttore artistico del Festival di Avignone – s’intitola (scherzosa eco mccartiana? Colazione da Joyce?) No Yogurt for the Dead.
Lo spettacolo s’inserisce da un lato nel progetto a più voci Histoire(s) du Théâtre, che ha visto assegnare i capitoli di una plurale, personalissima e composita storia del teatro (sul modello godardiano) a creatori disparati quali lo stesso Rau (il suo notevole La Reprise), il congolese Faustin Linyekula, la spagnola Angélica Liddell (con Liebestod, che debuttò ad Avignone), il belga Miet Warlop (One Song) e l’inglese Tim Etchells. Per altro verso il testo s’inserisce a pieno titolo e coerentemente nell’opera di un autore che segna e disegna da tempo il teatro contemporaneo del continente.
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Nato a Lisbona, classe 1977, ormai adottato dalla Francia e rappresentato in tutta Europa, abbiamo imparato a conoscere Rodrigues anche in Italia. Grazie a Triennale, Piccolo Teatro, ERT negli ultimi anni abbiamo visto, per citare alcuni titoli: Sopro, By Heart, Caterina e la bellezza di ammazzare fascisti, Dans la misure de l’impossible. Con un’attività creativa ricca e inesausta che riesce a mescolare, in una felice e singolare alchimia, il personale e il politico, Rodrigues prova a fondere un’esigenza umanistica, un afflato universale, con una dimensione singolare, giocosa e toccante. Si tratta infatti di un autore che, in un riuscito connubio di aspetti di autofinzione e tratti mai banali d’impegno civico, interagisce coi classici attraverso rispetto, profondità ed estro, come magistralmente fa nel suo Hécube, pas Hécube, presentato all’ultimo Avignone, ora in lunga tournée e da maggio alla Comedié Française che lo ha prodotto. Autore capace di dar vita a una drammaturgia imprevista che interpella il pubblico, facendone vibrare le corde nascoste, stabilendo connessioni inattese e reti di riferimenti sofisticate fra ieri e oggi, e che riesce a esprimere, con linguaggio diretto e disvelante, un tratto evidente di quella “insubordinazione ironica” che George Steiner attribuiva a Boris Pasternak in un’intervista fondativa per capire lo sguardo/voce di Rodrigues. Non a caso questo scambio veniva evocato in apertura di quel suo gioiellino che è By Heart, esercizio di interazione gentile e gestazione magica che l’autore, a partire dal ricordo della nonna cuoca e modello di libertà di spirito, instaura con il suo pubblico, chiamato a imparare a memoria (par coeur, ché per gli antichi il cuore era la sede della memoria) un sonetto shakespeariano (il numero 30) che espone e svolge il tema della memoria.
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Così in quest’ultimo lavoro, partendo dal dato fattuale e intimo della morte del padre, il giornalista Rogério Rodrigues (mancato nel 2019), proprio sul filo della memoria personale messa in gioco e ri-figurata da una dimensione nostalgica e ironica, Tiago – mi permetto di avvicinarmi – ricostruisce le distanze e le intermittenze del cuore. Perché “l’amore è più forte della geografia”, anche di quella ultraterrena, probabilmente. Il testo lo sottolinea, e da sempre ogni esule (subìto o per scelta: il padre, politicamente, dalla dittatura di Salazar, ma anche l’autore, artisticamente, seguendo la sua vocazione) lo sa bene.
E in questo spazio liminare (dentro e fuori: così lontano così vicino) sembra collocarsi ciò che accade sulla scena, che è insieme presente, ricordo e immaginazione, affermazione, dubbio e domanda, misura interpersonale e distanza siderale (prossimità e saudade). È in questo luogo di confine, dove “purgatorialmente” precipita l’azione (il riferimento a Dante non paia peregrino), che siamo invitati a transitar sospesi. Questa zona è abitata a un tempo da corpi e da fantasmi, è letteralmente fra la vita e la morte: la corsia d’ospedale, dove il padre attende la (mai) certa fine “dopo lunga malattia”, incastonato in chiave antirealistica su un monte di ghiaccio di simbolica forza evocativa e bergmaniana suggestione. La parola narrante si situa in bilico fra testimonianza e invenzione: il testo dichiara di basarsi sul taccuino ritrovato del diario ospedaliero del padre, con il titolo, poi transitato alla pièce, I morti non mangiano lo yogurt ma, al posto di parole, questo estremo reportage riporta solo scarabocchi e segni indecifrabili, per cui il figlio dichiaratamente “inventa” – potrebbe far altro? – il testamento spirituale paterno. Così l’autobiografia gioca a nascondino con l’immaginazione: ai personaggi del padre e del figlio vengono dati i nomi fittizi/giocosi rispettivamente di Barbalunga e Barbacorta, e sono impersonati da attrici donne che indossano barbette posticce che paiono uscite da un film dei fratelli Marx e il narratore, quella che il babbo appella con iperbole antifrastica “l’infermiera peggiore del mondo”, è inaffidabile e insieme pieno di cura. In questa borderline la voce del ricordo riverbera fra prosa e canto: il vicino di corsia è Hélder Gonçalves, che accompagna con la chitarra elettrica la musica che, dal Jacques Brel tanto amato dal papà al fado [fato] delle origini lusitane, avvolge suadente la seconda parte dello spettacolo – a mo’ di coro – di un mood agrodolce, fatto di destino ineluttabile, della mancanza struggente di padre/patria, di vuoti di senso ma anche di una speranza costantemente confermata e riattivata, una sorta di pienezza emotiva. “Ci sono canzoni alla fine del giorno…” ribadisce la musica.
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In questo terreno esplicitamente autunnale e di vendemmia, dunque caduco e fertile insieme, spoglio eppure ebbro, Rodrigues racconta per intermittenze e illuminazioni: la flebo a un certo punto è, magicamente, fonte di luce incostante, e funziona da ghost light a rischiarare – fuoco fatuo, candela al vento, pharmakon luminescente – la scena e la sua essenza transeunte, con un gioco che alterna visibilità e penombra, visioni e neri, occhi aperti e occhi chiusi (eyes wide shut).
Come in un rito funebre laico, in cui non a caso la presenza del pubblico è più volte sottolineata dalle luci in sala che aprono al suo coinvolgimento, Rodrigues rievoca con levità e solennità il prisma del fantasma paterno. Ne rievoca l’attività di giornalista attraverso un suo pezzo su una misteriosa fadista che si denudò per le strade della capitale, e che sembra – tutto quello che sembra qui può accadere/essere accaduto – fargli visita, con le sue canzoni, nel reparto ospedaliero. Ne ricorda l’impegno politico: la lunga degenza, privandolo della possibilità di votare, è in qualche modo una morte civile ancor prima che biologica. Ricostruisce i suoi capricci quotidiani, gli ultimi desideri, come la coccola tardiva e consolatoria dello yogurt, mai amato in vita, che diviene in morte piccolo rito di sopravvivenza, insieme memento mori, nel suo essere vivo e in scadenza, possibilità regressiva di ritorno al latte, piccola pausa di dignità finale e di inesausta voglia di sperimentare (ricorda il rum assaggiato in punto di morte da Chaplin/Monsieur Verdoux)
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Eppure questa liturgia della parola (e del canto), che pro-ferisce nel nome del padre e ne fa melo-dramma, conserva anche il gioco e la leggerezza dell’infanzia, come nell’ostinazione paterna a voler scrivere in nero i suoi arzigogolati appunti in forma di ghirigoro, e nell’atto mancato del figlio di perseverare nel portargli una penna blu, quasi a suggerire una rivalità complice che si gioca proprio sul fronte della scrittura, ed emerge, per scherzo, nel sospetto insinuato che il genitore non abbia lasciato note leggibili non per debilitazione o impedimento, ma perché sapeva che il figlio ne avrebbe certamente tratto una commedia. Padre e figlio provano così, del resto, a dare significato a ciò che pare non averne, a ricostruirne un filo. Il racconto dà senso alla separazione, è il legame.
Questa pièce sembra possedere la consistenza e il gusto di un’ultima sigaretta, procrastinazione per avere fine, spazio scenico e volute per pensare, modo per prendersi cura, abbracciarsi e dirsi (meglio: cantarsi) quello che conta, vizio, grazia e invocazione all’ascolto. E il fumo è anche posa di seduzione ed effetto scenico di smaterializzazione, più volte qui utilizzato, quasi fumettisticamente, per alludere alla provvisorietà – umana e teatrale – di ogni esperienza: polvere alla polvere. Un po’ Qoelet e un po’ Smoke (Auster/Wang).
E finisce inevitabilmente che vorresti un po’ fumarla con l’autore, quella sigaretta, come con un vecchio amico. Pochi uomini di teatro sono capaci di regalare un uguale senso di complice urgenza e fraterna umanità come riesce a fare questo portoghese quarantasettenne, il cui spirito soave e voluminoso si aggira sulla scena europea.
Matteo Columbo
Visto il 23 gennaio al NTGent di Gent (Belgio)
Prossime date in calendario tournée
Lisbona (Culturgest) 19-23 febbraio
Braga (Theatro Circo) 27-28 febbraio
Wiener Festwochen di Vienna 28 maggio.-1 giugno
No Yogurt for the Dead
Text and direction: Tiago Rodrigues
With: Beatriz Brás, Hélder Gonçalves, Lisah Adeaga, Manuela Azevedo
Dramaturgy: Kaatje De Geest
Assistant Director: André Pato
Decor design: Sammy Van den Heuvel
Costume design: Ilse Vandenbussche
Light design: Dennis Diels
Som: Sound design: Frederik Vanslembrouck
Music design: Hélder Gonçalves
Dutch translation: Lut Caenen
Production: NTGent
Coproduction: Culturgest Lisboa, Piccolo Teatro Milano – Teatro d’Europa, Wiener Festwochen