Intervista. Gabriele Russo è oggi direttore artistico del Teatro Bellini di Napoli. Teatro privato riconosciuto poi come Tric, il Bellini si configura oggi nella geografia teatrale e culturale della città come un polo ove non è difficile veder circuitare, accanto alle proprie produzioni, spettacoli internazionali e nuove drammaturgie. Lo abbiamo sentito per approfondire alcuni punti della sua visione gestionale e non solo.
Gabriele Russo ha cominciato la sua carriera teatrale come attore per poi dedicarsi esclusivamente alla regia, a cui esordisce con Gli innamorati di Carlo Goldoni. Dopo essere diventato insegnante e poi direttore della Bellini Teatro Factory, l’accademia teatrale (oggi diretta da Mimmo Borrelli) di cui anch’egli è stato allievo, si è spostato alla direzione artistica del teatro. Condivide la gestione dello spazio napoletano con il fratello Daniele, anche lui alla consulenza artistica, mentre alla direzione generale c’è la sorella Roberta. Rilevato dal padre Tato nel 1986 dopo anni di chiusura, il Bellini fu inaugurato nuovamente nel 1988. Da qualche anno al cartellone della sala grande si è aggiunto quello di una seconda, il Piccolo Bellini, con una sua specifica programmazione. Ora lo spazio della rappresentazione è corredato da una sala da bar sempre aperta per accogliere non solo gli spettatori, integrandosi nel flusso generale delle dinamiche del centro città.
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Partirei, come faccio spesso, dalla nascita della tua vocazione teatrale, seppure nel tuo caso bisogna tener conto di una sorta di eredità…
Non è negabile, per quanto sia una storia più particolare di quanto si pensi.
Raccontamela allora.
Il fatto stesso di essere nati in teatro non presuppone di per sé una vocazione. La fase più importante del mio percorso penso sia stata proprio quella di scoprirne una del tutto personale, nonostante l’induzione di quanto definisco un ascolto passivo sin da bambini. Ed è accaduto piuttosto decisamente da un certo punto in poi. Da un lato c’è stato il grande privilegio di poter abituare occhi e orecchie a un linguaggio e una grammatica che sono speciali e ti educano anche al di là della vocazione, dopodiché è fondamentale, per non essere fuori luogo in un posto in cui è importante essere in modo specifico e con competenza, che essa venga fuori. Nel mio caso è successo abbandonando il privilegio e andando a scoprire fuori dalle mura che conoscevo e conoscevamo (ha fatto così anche mio fratello) altri modi di intendere il teatro, costruendo un mio percorso e un mio linguaggio. Dai venticinque o ventisei anni, e anche prima, sono andato a vedere molto all’estero, pure come attore ho avuto modo di fare esperienza con persone che mi hanno aperto ad altri linguaggi. Quindi ho potuto sommare esperienze utili ad allargare lo sguardo e far sì che diventasse personale.
Penso al concetto di passaggio, che nel tuo caso ha a che fare anche con il tuo profilo di artista, anzi di teatrante: da attore a regista, da regista a insegnante e da insegnante a direttore artistico.
Il primo passaggio, da attore a regista, è stato per me molto importante, oltre alla vocazione che dicevamo si è aggiunta proprio una specificità, il mio carattere. Mi piaceva fare l’attore, soffrivo e mi piaceva. Credo moltissimo in ciò che è la base del teatro, la ripetizione, le repliche, la compagnia, quindi mi è dispiaciuto rinunciare a quel lato del fare l’attore, non all’esigenza di stare in scena. D’altra parte ho sempre avuto l’attitudine a guardare, mi accorgevo che il mio sguardo era orientato sull’aspetto complessivo della messinscena, più che sul mio ruolo, ho sempre preferito focalizzare la mia idea del teatro sull’insieme degli artisti, l’ensemble, il collettivo. Poi, come a volte accade, un’esperienza negativa può darti la spinta a passare dall’altro lato: avevo fatto due cose in cui da attore, nonostante fossi collaborativo, non mi ero trovato troppo bene con i registi. Sentivo che avrei voluto cercassero altro in me quindi ho avuto l’input per cercare negli altri quanto volevo fosse cercato in me stesso, è accaduto verso i ventisei o ventisette anni, con la prima compagnia che possiamo definire dei giovani – ora sono tutti attori molto bravi. Feci la prima regia de Gli innamorati di Goldoni, di cui curai anche l’adattamento, una cosa che poi ho lasciato stare e invece mi piaceva. Dopo venne Il misantropo, per cui trovai una mia forma nella quale sentivo di riuscire a districarmi, con tutti i dubbi e le insicurezze del caso, ma che sapevo gestire. Ricordo ancora che i primi giorni di prova sorprendevano anche me, ero abbastanza giovane e vedevo che avevo tanto da dire in più in quella dimensione. Da lì ho gradualmente scelto di non fare più l’attore. La caratteristica del Bellini è di essere sempre in trasformazione, anche quando le cose vanno bene pensiamo a cambiare, aggiungere, togliere qualcosa, una trasformazione talmente costante che a volte è difficile rendersene conto. Volevamo modificare alcuni processi relativi alla formazione e cominciai a essere inserito e inserirmi, proponendomi, nella programmazione della didattica con gli allievi. Il rapporto con loro è stato sempre rispettoso, ma molto collaborativo. Ho trovato e trovo ancora fecondo, più che la pedagogia in sé, ciò che si riesce a trasferire attraverso il tipo di rapporto, cioè la possibilità di sbagliare, in prima persona, di sbagliare insieme, perché è l’esempio che riesce a trasmettere più di ogni altra cosa. Da quando sono padre ci credo ancora di più. Trovavo molto libertà personale nel rapporto con gli allievi e questo mi permetteva forse di trasferirne altrettanta. Un termine che va verificato, che ha bisogno di paletti, ma con cui intendo la libertà espressiva. Le prove sono un momento in cui non c’è giudizio e in cui c’è ricerca, anzi avvengono delle cose così belle da lasciare spesso il rammarico che, non si sa perché, non lo riescano a diventare altrettanto negli spettacoli, in cui si è più preoccupati del problema della forma. Il passaggio a direttore è stato invece consequenziale. Sai, oltre alla vocazione esiste anche il quotidiano, finito il periodo in cui ero sempre in giro come attore, la mia quotidianità si è stabilizzata e ha fatto sì che passassi al Bellini molto tempo. Così il lavoro della direzione è divenuto fisiologicamente “mischiato”, “mixato” con tutto il resto. Nell’avere la responsabilità di uno spazio che funzioni, con il pubblico, per cui creare pubblico, un teatro anche per i giovani, ho un vantaggio: sono appassionato del lavoro degli altri. Quindi è stato altrettanto un vantaggio e un’esigenza poter pensare una programmazione, anno per anno, rispetto a quanto succedeva e succede.
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Se provo a fare una forzatura di sintesi, impropria se vuoi, ma funzionale in questa sede, rispetto ai titoli di testi e progetti vari con cui ti sei finora confrontato nella tua carriera, come attore, come regista e non solo, compaiono i nomi di Eduardo e Annibale Ruccello, Molière e Goldoni e Shakespeare. Vorrei allora indagare con te il concetto di tradizione e quello di classico, canonico o in divenire, e la relazione con essi nel tuo caso specifico.
L’abitudine al teatro, l’eredità di cui dicevamo in principio, può essere da un lato una fortuna, ma dall’altro potrebbe diventare un elemento di rifiuto. A volte ho questa sensazione anche quando guardo le mie figlie. L’equazione eredità e teatro di famiglia è facile, in realtà poi le vite e le scelte sono storie, di famiglie, di relazioni, storie personali.
Come d’altronde è stato per secoli nelle famiglie d’arte. Voi nella protrazione di questa idea siete forse quasi un unicum ormai.
Certo. Ci siamo ritrovati fra i più giovani in Italia nella gestione di un teatro di questo tipo. Essendo un settore in cui vi erano figure fortemente storicizzate, stare al tavolo con un ventottenne o un trentenne era spesso anomalo per molti. Oggi, gradualmente e per fortuna queste cose cominciano a diventare “più possibili”, ma quindici anni fa eravamo davvero alieni rispetto al tipo di direzioni che c’erano. Per quanto riguarda il repertorio, quello napoletano nello specifico, mi ci sono accostato molto gradualmente. Se vai a vedere la direzione artistica, condivisa con mio fratello Daniele (mentre quella generale è condivisa con mia sorella Roberta), sia io che lui all’inizio ce ne siamo discostati, il primo approdo vero è con Le cinque rose di Jennifer, nel 2019. Se penso ad alcuni spettacoli precedenti come Odissè, in assenza del padre mi viene da dirti che esistono sicuramente spettacoli più o meno belli, ma esiste anche il posto giusto e il tempo giusto. Sono convinto che se quello spettacolo lo si facesse oggi, cose che all’epoca non sono successe accadrebbero ad esempio. Anche Arancia meccanica è stato un passaggio fondamentale nell’identificazione del tipo di lavoro che facevamo, del dedicarsi al contemporaneo mio e di Daniele. Da solo è venuto poi Glob(e)al Shakespeare, altro passaggio importantissimo. E decisivo è stato il lavoro con i ragazzi della Factory, tre anni fa l’idea per cambiare il tipo di didattica era quella di selezionare meno attori, non solo a causa del mercato che andava restringendosi, ma anche per lavorare meglio sui singoli e sul gruppo. Siamo passati da ventidue/ventitré allievi a quattordici massimo e abbiamo aggiunto il segno della drammaturgia, inserendo due allievi che potessero scrivere sugli allievi attori. È stata una delle esperienze più belle per me, questo teatro di scrittura scenica. Sappiamo che per i giovani drammaturghi è molto difficile, per quanto vengano promossi, che abbiano delle occasioni vere in teatri con produzioni importanti è difficile. Il teatro può piacere o meno, ma il problema è quando gli spettatori lo percepiscono come qualcosa che non sta parlando di e a loro, succede spesso anche ai classici, non essendo raccontati al presente ti inducono a credere che non stiano parlando di te, quindi non “spostano”. Ecco perché non amo moltissimo il termine tradizione, non perché non ne ami il concetto, anzi credo che su essa si poggi tutto ciò che facciamo. Tuttavia qualsiasi testo si decida di mettere in scena, anche uno del passato, non si può non partire dal presente. All’estero ho riscontrato meno paura, mentre qui c’è sempre e comunque un rispetto forte per il testo. Penso in questo momento, e lo dico anche a me stesso, che si possa fare qualcosa di più. Quindi alla tradizione ci siamo arrivati anche nell’ottica della programmazione. La nostra potrebbe essere identica a Milano o altrove. Dopo Le cinque rose di Jennifer, dopo essermi trovato di fronte a un testo e a una struttura così potente, dopo aver trovato un modo di starci dentro ed essermi trovato bene ho cominciato a pensare di poterne fare uno di Eduardo. Cosa non semplice, bisogna ottenere i diritti e non è affatto scontato che avvenga. Quando ricevetti il sì per La grande magia – nonostante non sia un campanilista, nonostante non sia uno per cui esiste solo Eduardo – si aggiunse anche un forte senso di responsabilità.
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“Responsabilità” è un termine fondamentale per entrare ancor più nella sfera della costruzione di un progetto culturale e quindi del pensiero gestionale e di programmazione da direttore artistico. Se lo guardiamo in questa accezione come ti poni di fronte ad esso, considerando lo specifico del vostro spazio, inquadrato anche in una dimensione più ampia, afferente al periodo storico che Napoli sta attraversando? Come quindi la morfologia di mutazione urbana e le annesse dinamiche socio-culturali della città reagiscono con il Bellini e viceversa?
Si può parlare del senso di responsabilità nei confronti di ciò che si offre in due direzioni. O si usa la tradizione in termini strumentali, e qui torniamo sul termine che non amo quando adoperato così, oppure si tenta un’altra strada. Napoli, proprio perché ha una sua cultura forte, ha bisogno a volte di sprovincializzarsi e affrancarsi da questo legame indissoluto, quanto più lo si fa tanto più si eleva la tradizione. Ecco, credo sia bellissimo che si veda un giorno Eduardo e il successivo Ostermeier, è un modo per dire che sono sullo stesso piano. A me non piace lavorare sull’eccezionalità o sul folklorismo, svenderci perché arrivano tanti turisti. A proposito dell’internazionalizzazione o nazionalizzazione sono dell’idea che la città sia assolutamente straordinaria di per sé e che proprio per questo possa rientrare nei canoni della normalità senza bisogno che ogni cosa abbia la sottolineatura “Napoli”. In molti casi questo produce un tipo di offerta culturale che è sempre uguale a sé stessa e soddisfa con più facilità le masse, contro cui non ho nulla, vorrei che venissero a teatro. Il problema è adeguarsi a ciò che c’è o provare a dare un segno diverso, che sono convinto pian piano venga colto. Napoli è una città dove molto sta spesso allo spirito di iniziativa dei privati. Abbiamo quindi il compito di “contagiare”, di un germe che non sia il solito. Anche la cura della struttura ha a che fare con tutto questo, la cura percepita entrando al Bellini può ispirare qualcuno che magari decide di aprire la propria attività. Tutto riguarda la prospettiva di cambiamento di una città, a volte si hanno sogni che vanno al di là di quanto si può realizzare, ma alcune cose vanno fatte con i mezzi e gli strumenti che hai. Noi abbiamo questi e ci proviamo in questo modo, in questa prospettiva programmiamo, è chiaro però che bisogna tener conto di tanti elementi: non solo concettuali, ideali e di principio, ci sono questioni molto, molto pratiche. Ti faccio un esempio: quando abbiamo cominciato si doveva suonare un campanello, c’era un portiere e solo l’ingresso artisti aperto; abbiamo aperto prima tutte le porte, poi il bar… Sono piccoli segni. Ancora, la programmazione all’inizio andava dal venti ottobre a Pasqua, oggi, gradualmente, conquistando una settimana all’anno, siamo arrivati ad aprire il diciassette settembre – una cosa assolutamente fuori dai canoni della città, la quale per vocazione climatica oltre o prima di una certa data tende a stare fuori – e chiudere il due giugno. Tale allargamento presuppone dei ragionamenti su quanti spettacoli puoi proporre e di che tipo. Variamo anche per questo, chiediamo davvero molto al pubblico, gli spettacoli sono venti in sala grande e venti al Piccolo Bellini, più la danza e quelli che in gergo si chiamano “fuori abbonamento”. Se ci riferissimo a un unico pubblico pretenderemmo che praticamente vivesse in teatro, oltre che una disponibilità economica che determinerebbe una micro nicchia. Ecco perché è importante l’allargamento e la diversificazione, mantenendo però una linea editoriale in grado di dare continuità, una coerenza con i nostri canoni qualitativi.
Come si costruisce quindi una visione e un progetto culturale coerente?
Sicuramente attraverso quanto la tua vocazione ti fa credere importante e necessario per la comunità alla quale ti vuoi rivolgere e creando i presupposti perché quella comunità si allarghi, per cui la fascinazione del teatro diventi più ampia possibile. Altro termine importante in questo senso è “gradualità”. Credo che le cose vadano costruite con un tempo, necessario a formare un pubblico, un’attenzione, ma necessario anche a chi le organizza per ascoltare. Da un lato sei tu a dare una direzione e dall’altro sei tu a dover ascoltare, il pubblico, gli artisti. Penso sia una caratteristica del nostro lavoro: un percorso di piccoli passi che nel tempo hanno costituito un cambiamento molto forte. Non dalla sera alla mattina, non una visione dogmatica imposta e formata bruscamente, è stato un processo lungo. Ci sono fasi in cui la visione riesce ad avere un’accelerata e determinare delle decisioni più nette. Mi viene naturale pensare al processo di lavoro che viviamo anche durante gli incontri e le riunioni, magari ci convinciamo di cose che poi mettiamo in discussione. Quindi un progetto culturale si costruisce attraverso l’ascolto ancora una volta delle varie istanze, artistiche, del pubblico e del pubblico inteso come cittadinanza, comunità. Il luogo anche come luogo fisico, cercando con i mezzi a disposizione di costruire una cittadinanza più attenta a quanto viene definito “il bello”, la cultura, le proposte che ci arrivano da tutti i lati. Ci vuole attenzione. Per programmare la stagione ad esempio la cosa migliore, la più opportuna e naturale sarebbe andare a vedere gli spettacoli, seppure non sempre riesce nella pratica. Se hai affinato però un certo tipo di ascolto, con un pizzico di presunzione, ti dico che mettendo insieme dei tasselli spesso riesci senza vederlo a capire se uno spettacolo può essere giusto per il tuo spazio. Poi capita di rimanere delusi, la cosa fondamentale, già lo dicevamo, è che lo spettacolo venga fatto nel posto giusto e per la platea giusta. Altrimenti confondi le idee del pubblico. In questi anni devo ammettere che il Bellini ha costruito un pubblico che riconosce chiunque venga da noi. Persino con Ostermeier: è venuto di recente Hamlet, spettacolo che ha girato il mondo ed è stata una grandissima soddisfazione quando Lars Eidinger mi ha detto che le date migliori sono state quelle di Tokyo e di Napoli al Bellini.
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Il Bellini sta diventando una sorta di polo dove poter vedere spettacoli importanti o internazionali appunto o con delle specifiche precise e che altrimenti a Sud sarebbe impossibile intercettare.
In realtà alcuni anche a Nord se proprio vogliamo essere oggettivi. Se escludi Milano e Torino è difficile che certe cose accadano e con una certa frequenza. Da un lato c’è ammirazione per paesi e realtà che danno una certa importanza alla cultura e al teatro e quindi una voglia di portarle qui e parlarne. Dall’altro lato è interessante notare come uno spettacolo che ha girato il mondo arrivi e trovi da noi il più bel pubblico che ha incontrato non in Italia, al Sud o al Nord, ma al mondo. Per tipologia, quantità, partecipazione ed età giovane da quanto mi ha detto Eidinger. A teatro c’erano giovani e un pubblico venuto da tutta Italia. Ho avuto modo di riflettere su quanto davvero il pubblico cambi uno spettacolo. Lo vedo anche con La grande magia, che sta avendo una tournée lunghissima, cambia completamente a seconda delle città. É un aspetto fondamentale, perché per me un teatro può davvero incidere sulle persone, sui singoli, su un quartiere, su una città intera. Chiaramente le politiche culturali generali individuate dallo Stato sono importanti, da solo riesci a muovere poco. Il punto focale sono sempre le economie. Lo Schaubühne di Berlino prende sessanta milioni l’anno, ed è solo la punta dell’iceberg sotto cui ce ne sono altri che ricevono cifre a scalare; in Italia i teatri più finanziati sono totalmente sottofinanziati eppure sono oggetto di invidie e recriminazioni, una guerra tra poveri se consideri che un milione di euro può finire in tre mesi lavorando bene. I costi di un teatro e le persone che ci devono lavorare dentro sono un tema. Se vuoi incidere, oltre che degli artisti, c’è bisogno di una struttura fatta di tecnici, di tener conto dell’accoglienza, della comunicazione che oggi è importantissima, non solo sui social o gli altri canali canonici, ma anche nelle scuole e in contesti simili. E se vuoi essere serio, di quante persone hai veramente bisogno per non arrangiarti sempre? Per funzionare i grandi teatri hanno bisogno di persone, e questo vale in scala anche per i più piccoli. Possiamo parlare delle specifiche dei vari D.M., di quello che stabiliscono, delle nomenclature che scelgono, ma se non si parte da questo presupposto e da quello che i fondi stanziati vadano poi verificati nell’impiego non serve a nulla. Per capire se un teatro funziona basta d’altronde metterci piede, entrarci.
Il vostro è un teatro privato, che tuttavia riceve fondi statali e che alla luce di tutto quanto ci siamo detti sinora non sconfessa comunque una vocazione alla funzione pubblica. Ti chiedo perciò quale sia secondo te oggi il compito di un teatro pubblico?
Una ricetta non te la so dare, non per retorica. Se io fossi in un teatro pubblico porterei le mie idee e la mia formazione, sarebbero il presupposto per cambiare dopo aver ascoltato e capito cosa sarebbe il caso di fare, sperando di averlo capito bene. Volendo però essere più dogmatico bisognerebbe partire dal centro, ovvero da attori e drammaturghi, più si investe su di loro più questo restituirà nel tempo. Pensa di nuovo ad Hamlet, dietro c’è una mente geniale, sicuramente però anche i processi sono importanti. Uno dei punti più critici oggi è il tempo delle prove, anzi, ti dirò, sono e siamo diventati sin troppo bravi. C’è bisogno di trenta giorni, se tutto va bene, per realizzare uno spettacolo accettabile per il pubblico, una corsa sfrenata per inseguire una forma più che altro finita. Poi ci sono spettacoli, testi che hanno bisogno di meno, sono però dei casi. Il teatro è difficile, ha bisogno di tempo perché si crei fluidità tra le parole e chi le pronuncia o da loro corpo. Non c’è la reale occasione di rischiare, di ricercare, parola che preferisco a sperimentare. Il punto sarebbe quindi avere la possibilità di lasciare agli artisti una maggiore libertà e di farlo in un tempo più dilatato, con meno ansia da prestazione, costruire un ordinario più continuativo, un livello qualitativo per cui il pubblico non venga confuso piuttosto che mirare sempre a una straordinarietà, perché questa verrà sempre e comunque fuori. Di nuovo, tutto confluisce nel tema principale, le economie, con cui tutti si scontrano e che spesso sono sproporzionate rispetto alla quantità che è richiesta e al mercato. Non penso nemmeno ci sia una strada unica per un teatro pubblico. Come Tric e Nazionali siamo così legati gli uni agli altri da creare un’ uniformità della proposta, di fatto: siamo chiamati a coprodurre, a fare attività in sede, a collaborare tra di noi. E questo incide anche sul potenziale arrivo di qualunque direttore, illuminato magari, a dare una propria visione specifica. Non tutti i territori sono uguali e non lo sono le vocazioni. Riconoscerlo darebbe un carattere diverso a ciascuna specificità, come ad esempio accade a Parigi, dove riesci a identificare esattamente ciascun teatro.
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All’interno della vostra realtà c’è la Factory. Come una scuola si relaziona con la vostra visione in riferimento all’idea del tempo di cui parlavi e quale reale investimento fate sugli allievi?
Anche in questo caso devo parlare di trasformazione. Siamo arrivati al tredicesimo triennio della Factory e quindi a trentanove anni di formazione. Con il prossimo cambierà, è già cambiato dal decimo in poi. Quando io divenni direttore inserimmo la drammaturgia, cambiò il principio: mantenendo sempre un insegnamento individuale abbiamo cominciato a concentrarci sul lavoro collettivo e la scrittura scenica come ti ho raccontato. Vi erano dei registi, si poteva quindi autoprodurre all’interno del percorso del materiale tutto loro. C’è stato un altro triennio e poi è arrivato Mimmo (Borrelli n.d.r.). Mi piace collaborare e ho fatto un passo indietro perché pensavo che il suo linguaggio, il suo modo, la relazione nata – era diventato artista residente – potesse portare qualcosa di bello alla direzione della Factory. Così è stato, il nuovo triennio già al secondo anno si è concluso con Opera in transizione (adattamento di Opera Pezzentella). Bisogna preservare i ragazzi, ma ritengo importantissimo che vadano in scena, un’esperienza che dopo, appena entri nel mondo del lavoro, difficilmente riuscirai a costruire, le repliche sono sacrosante. Andare in scena dodici giorni di seguito invece che con il tipico saggio di fine anno meramente dimostrativo, avere la responsabilità del tuo camerino, del tuo costume, del tuo ingresso in scena e di tutto quello che prevede il vero teatro credo sia molto formativo. Non siamo tenuti a fare formazione, la Regione non lo prevede, è sempre stata una libera scelta e l’Accademia è sempre stata gratuita per intero (eccetto la tassa per il primo provino), con i costi che questo comporta, quindi lo stipendio degli insegnanti, la sala prove, le eventuali produzioni.
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Ecco questa delle sale prove, degli spazi necessari ai processi di formazione e creazione è una questione ora come ora…
C’è una difficoltà enorme in merito. Alla Sanità abbiamo trovato uno spazio da due anni. Quando è nata l’Accademia il suo posto era il Piccolo Bellini, dove all’epoca non c’era stagione, non c’era la pedana che c’è oggi con le poltrone ed era un luogo libero ottimo. Avendolo negli anni fatto diventare un teatro con una stagione, l’Accademia non poteva più starci dentro e ce ne siamo inventati uno nella soffitta sopra il palcoscenico, sulla graticcia, una situazione affascinante, ma costrittiva, non ideale, con delle travi nel mezzo. Facevamo di necessità virtù mutando gli impedimenti in opportunità. Si sarebbe indotti a pensare che avendo e gestendo un teatro, essendo cresciuto in qualche modo in una situazione di privilegio, sia abituato ad avere tutta una struttura intorno per lavorare, invece per provare mi basta una stanza di tre metri quadri senza tecnici o chissà cosa, è una capacità che sia io che mio fratello abbiamo imparato presto a sviluppare, una capacità pratica, manuale. Ora ritengo, però, che non vada bene arrangiarsi sempre e servano ambienti adeguati. Il problema delle strutture, dello scheletro in cui creare è centrale. Siamo tutti grandi artigiani, chi più e chi meno, va bene che ci siano le travi, che manchi una cosa o l’altra, che non ci sia nulla, ma sostenere una Factory, ovvero un’accademia a frequenza quotidiana, dal lunedì al venerdì dalle dieci alle diciotto, immagina che costi abbia. Non siamo mai stati finanziati per questo, né dalla Regione, né dal Comune, né dal Ministero, tuttavia abbiamo ritenuto fosse importante continuare, per una vitalità all’interno del teatro, un senso di appartenenza. Devo ammettere che a Napoli tantissimi attori sono venuti fuori dall’Accademia del Bellini, penso sia però il momento di una riflessione su come trasformare il tempo e le risorse economiche impiegati. C’è anche la questione del riconoscimento dei titoli: facciamo questa accademia di tre anni, con tanta qualità eppure alla fine i ragazzi non hanno un titolo riconosciuto. Ci abbiamo provato, abbiamo lottato dentro uno schema di linguaggio che, a essere sincero, non mi appartiene perché è quello della formazione e della didattica propriamente dette. Riunioni su riunioni, nottate intere per cercare di ottenere il riconoscimento dell’AFAM, ma niente. Non abbiamo le aule certificate, tutti gli insegnanti, anche il più grande degli artisti, con il curriculum più imponente, non esistendo il riconoscimento della figura professionale del regista con dei titoli non possono essere formalmente considerati dei formatori veri e propri. Di fronte a questo non ce l’ho più fatta, ecco perché forse per la prima volta non faremo partire un nuovo triennio. Siccome credo nella trasformazione so che le cose che muoiono non muoiono per davvero. A giugno i nostri allievi si diplomeranno al terzo anno, dopodiché faremo un quarto e forse un quinto anno, è ancora da decidere, di formazione professionale, un po’ come i percorsi di laurea tre più due. Ovviamente l’allievo cui proporremo questo genere di percorso potrebbe non volerlo fare, stiamo sondando l’ipotesi per offrire loro la possibilità di fare uno spettacolo con Mimmo in sala grande e due al Piccolo Bellini, uno con me e uno con una regista o un regista da trovare, un periodo di lavoro vero che diventi produzione con tutti gli allievi coinvolti.
Con lavoro vero intendi che verrà retribuito?
Si, pagato, trovando delle formule. Ci stiamo assumendo un impegno enorme, loro sono quattordici.
Significherebbe in qualche modo dilatare il tempo delle prove a un periodo più lungo?
Si. Esattamente. Stiamo cercando di capire come sostenerlo economicamente, è indubbio che verranno assunti, magari con un tempo lungo, di sei mesi, ma dobbiamo capire con che tipo di contratto. L’idea è che comunque dal terzo ci sia un anno o due di lavoro sul campo, di spettacolo, mantenendo un percorso di formazione di questo tipo. L’altra idea è di passare all’alta formazione, per allievi già diplomati. D’altra parte, lo dico senza polemica, si è creata negli anni e oggi c’è a Napoli una scuola che non c’era, quella del Mercadante. Il compito della prima formazione è allora già assolto da una realtà che è finanziata, non serve ce ne siano due a svolgerlo. Chiudiamo forse un’esperienza per iniziarne un’altra che abbia più senso per il contesto attuale.
Non posso perciò non chiederti cosa abbia portato a non diventare riconosciuta, e di conseguenza finanziata, una scuola che esiste da anni?
Burocrazia e miopia. Ci sono cose per cui ci vuole attenzione e consapevolezza. Andare al Comune ad esempio, a raccontarlo continuamente e raccontarselo da soli, trovando interlocutori sprovveduti o inconsapevoli…
Qual è quindi la vostra relazione con le istituzioni?
Devo dire la verità, essere onesto. Abbiamo il Ministero, la cui presenza è indiscutibile perché siamo riconosciuti come Tric, ciò che il nuovo D.M. chiama Teatri della città. C’è un progetto triennale cui devi rispondere con moltissimi criteri che richiedono lavoro e persone che lo svolgano, un mare di dati che, stampate, sarebbero due pile di carte da azzeccagarbugli. La Campania ha però da anni una legge specifica e dedicata al settore dello spettacolo dal vivo, la legge regionale n.6/2007. È come un altro piccolo FUS che regolamenta e distribuisce eventuali budget e li destina allo spettacolo dal vivo, anche con costanza e regolarità di pagamenti rispetto al passato almeno negli ultimi sette o otto anni. Un flusso che ha aiutato molto la crescita dello stesso e che varia dai dodici ai diciotto milioni di euro, spartito tra Nazionali, Tric, compagnie, compagnie itineranti, con il criterio delle percentuali. Una forza della Campania che tante altre regioni non hanno. Vero è che in tante altre regioni i comuni intervengono di più, mentre a Napoli non accade mai, almeno nel nostro caso.
Marianna Masselli