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Incontrare la comunità. Dialogo con Teresa Ludovico

Intervista a Teresa Ludovico, regista, attrice e direttrice artistica del Tric Teatri di Bari (Teatro di rilevante interesse culturale nato nel 2014 dalla fusione con il Teatro Abeliano, i due teatri poi si sono divisi).

Teresa Ludovico è attrice e regista pugliese, da anni lavora anche in Giappone e negli anni ha sviluppato diverse esperienze e contatti con il teatro internazionale. Dal 1993 è parte del Tetro Kismet di Bari, di cui è regista stabile dal 1998, oggi è direttrice artistica di Teatri di Bari in cui, oltre alla storica realtà barese, rientrano il Teatro Radar di Monopoli e la Cittadella degli artisti di Molfetta, tutti luoghi d’accoglienza di Maggio all’infanzia, festival storico di teatro ragazzi. In una lunga conversazione abbiamo ricostruito insieme il suo percorso artistico e i cardini della prospettiva di costruzione della proposta culturale.

Foto Yang Seungwoo

Come nasce la tua fascinazione teatrale?

Sono nata a Gioia del Colle e allora di teatro ce n’era pochissimo da vedere ed era quello dei comunali. I teatri nelle cittadine spesso erano chiusi come monumenti. Da adolescenti non sapevamo in realtà nemmeno cosa fosse. Un insegnante in pensione chiese a me e ad altri ragazzi se fossimo interessati a partecipare a una lettura di un testo, da mettere poi in scena, era Atti unici di Čechov. Quando ci siamo ritrovati in questa saletta da dopolavoro e abbiamo letto il testo è iniziato un lavorio nella testa. Diedi quindi l’adesione per la messinscena, a livello amatoriale. Essendo minorenne era necessaria l’autorizzazione dei genitori: mio padre, una persona con una certa autorità e autorevolezza, non ha dato l’adesione e si è molto arrabbiato, così non partecipai. Come sempre, tutte le cose che ci vengono proibite diventano attraenti.

Come questa prima fascinazione si è strutturata in un percorso di formazione e professionalizzazione?

Mi iscrissi a Bari alla Facoltà di Scienze Politiche. Appena arrivata vidi un cartello: “laboratorio di teatro al Piccolo Teatro di Bari”. Ci andai e da lì man mano è venuto tutto. Queste piccole realtà sono importanti: D’Attoma, Nietta, anche loro in quel tempo erano presidi di resistenza rispetto a un teatro cosiddetto “borghese”.  Ognuno costruisce il proprio percorso. Negli anni ho partecipato a diversi laboratori, alla scuola di Orazio Costa finanziata dalla Regione e lì ho cominciato a conoscere il teatro legato al corpo, al movimento. Ho scoperto un altro mondo, il teatro dell’azione, più vicino a quello grotowskiano. Ma la mia più grande scoperta e l’innamoramento è stato con gli spettacoli di Eugenio Barba, con quella modalità, con quel rapporto, il piano totale, assoluto, il teatro del gruppo, che ti cambia la vita, in cui fai parte di una comunità che deve poi dialogare con la più grande comunità della città, della regione, del mondo. Ho cominciato a frequentare anche tutti i corsi dell’ISTA, una scuola, dove Eugenio ha sempre dialogato con il teatro internazionale, andava oltre, un teatro di tipo antropologico, un ponte per altre culture che partiva dalla nostra prima isola, il nostro corpo, un teatro che quindi parta dalla conoscenza dei suoi meccanismi e che sia fatto soprattutto di profonda relazione culturale. Un teatro che non sia solo il tuo ombelico. Ne rimasi affascinata, come dai laboratori con gli attori di Petr Brook. Erano gli anni tra gli Ottanta e i Novanta e c’era una dimensione completamente differente, c’erano i grandi maestri, da cui tutti eravamo affascinati e che tuttavia ti insegnavano, una volta acquisita, ad abbandonare la forma, per cercare in qualche modo il maestro che è in te. Il mio percorso è stato quindi negli anni la ricerca di questa sorta di maestro che dentro mi facesse maturare una poetica più vicina alle mie domande rispetto al mondo e al senso stesso di fare teatro.

In un’intervista in cui tu parlavi di Barabba, uno spettacolo recente sulla drammaturgia di Antonio Tarantino, facevi riferimento a un doppio passaggio: quello di cui mi hai appena detto, del teatro come corpo e poi quello del ritorno alla parola, alla sua potenza come entità semantica complessa, e nella stessa intervista parlavi anche del concetto di marginalità…

Nella vita una delle cose più importanti sono gli incontri, ne segnano un po’ la direzione. Negli anni Novanta ho avuto la fortuna di vedere lo Stabat Mater di Antonio Tarantino, per caso, non lo conoscevo affatto, era emerso come autore da pochissimo, quella è stata la prima opera che lo aveva portato fuori dal suo regno, prima era un pittore e viveva ai margini, nel vero senso della parola. Questa marginalità, anche fisica, che è stata la sua forza per un verso, l’ha portata fino alla fine della sua vita. Vedendo lo spettacolo rimasi sconcertata, in quel periodo lavoravo molto sugli esercizi fisici, il training… Mi ha travolta letteralmente, come uno shock. Sentivo che lì c’era una grande potenza. Qualche anno fa ho avuto la possibilità di conoscerlo e ho scoperto che tutto questo gigantesco complesso di parole, i flussi, i monologhi lunghissimi, spesso senza punti e virgole, sono però così incarnati in un’azione che, se riesci a scoprirla, consentono al corpo di diventare tutt’uno ed essere organico con la parola. Parole che sono violente, aggressive dolcissime, che hanno una stratificazione. Un lavoro complesso, ma di grande fascino. Feci prima Cara Medea, un atto unico, dalla richiesta dei diritti cominciò tra noi una fittissima corrispondenza, feci con lui anche un laboratorio che mi permise di entrare nei suoi meccanismi di scrittura. Poi mi diede anche i diritti di Piccola Antigone, un inedito che portai in scena insieme a Vito Carbonara, uno dei mie attori totem, conosciuto durante le esperienze, durate anni, di lavoro su teatro e disabilità e che rappresentava quel corpo vero, assoluto, dove in un gesto c’è tutto. Mi diede poi un altro inedito, Namur, che ho messo in scena con Roberto Corradino. Mi ha sempre detto che gli piaceva il mio modo di mettere in scena, con pochissimi elementi, «dove la mia parola vibra insieme ai corpi». Aver incontrato Antonio Tarantino con la sua scrittura mi ha dato la possibilità di rilanciare un lavoro di un altro tipo che ha creato un cortocircuito con la sua ricerca. Dopo diversi anni sono riuscita ad avere anche i diritti di Barabba, un altro inedito, un testo difficilissimo, credimi, che secondo me rappresenta il testamento spirituale di Antonio Tarantino, c’è dentro tutta la sua poetica, anche se non è l’ultimo che ha scritto. Un archetipo dell’umanità che va oltre il Barabba. L’ho portato in scena con Michele Schiano di Cola, un altro grande incontro, secondo me uno dei più bravi attori quarantenni in Italia, con una solida preparazione, un corpo dai cui pori viene fuori quell’energia, quella potenza che dovrebbe appartenere ad ogni corpo d’attore e a cui ho sentito di dover creare subito una costrizione, infatti è stata costruita una torre-gabbia, con una partitura assolutamente rigorosa. Dal 2001 lavoro stabilmente in Giappone come drammaturga e come regista, in una realtà orientale, con artisti con un altro tipo di cultura. Sai, ogni corpo è lo specchio di una cultura, anche involontaria. Lì ho imparato il rigore, anche nella forma, i miei spettacoli hanno delle precise partiture che servono a proteggere il contenuto. Questo permette allo spettacolo di non “scendere” mai, c’è la forma che protegge l’attore, ma all’interno di quella forma deve lottare, come l’incontro tra ghiaccio e fuoco, come Barabba appunto dove il corpo raggiunge l’apice del teatro di Tarantino perché diventa corpo politico.

Foto Ufficio Stampa

Dal 1993 sei parte del Teatro Kismet e dal 1998 sei regista stabile. Mi piacerebbe capire, alla luce del percorso che abbiamo ricostruito, cosa ha significato questo “trovare casa”?

Trovare casa per me è soprattutto l’incontro con una comunità di artisti. Avere la possibilità in maniera stabile, quotidiana di poter vivere il teatro da tutti i punti di vista. Tant’è che ultimamente mi sto occupando della direzione artistica. Si può pensare magari che sia un lavoro esclusivamente organizzativo, difatti lo è, ma tutto dipende da come lo si fa. Quando inizio a programmare una stagione in qualche modo mi avvicino alla programmazione con l’esperienza del regista: guardo tutti gli spettacoli che mi vengono proposti, o scelgo io di andare a vederli. Cerco di costruire la stagione come uno spettacolo, di dargli un ritmo, che possa stimolare il pubblico che ci frequenta normalmente o quello cui vorremmo arrivare, come le nuove generazioni. Non è un lavoro da lista della spesa, richiede un’ideazione. Lavorare in un teatro quotidianamente negli anni di cui parlavi mi ha dato, ad esempio, la possibilità di occuparmi della formazione, sono entrata al Teatro Kismet come formatrice, oltre che attrice-autrice e poi regista, ho condotto per tanti anni i laboratori sull’approccio al linguaggio teatrale dei giovani. Ancora una volta la cosa importante è stato l’incontro, il confronto e la possibilità di inserire la visione di un lavoro all’interno di una comunità. La cura dello spazio, la cura delle relazioni: il teatro non come mordi e fuggi. In fondo il teatro è e rimane un rito, con un respiro comune con altri spettatori, una cosa che da sempre abbiamo cercato di offrire e proteggere all’interno delle nostre strutture teatrali. Una visione di teatro, una pratica che trasmetti e una cura che ti fa sentire a casa. Ci troviamo a volte in tournée nazionali (all’estero invece succede meno) in dei camerini che sono luoghi brutti, poco accoglienti, senza nemmeno una bottiglia d’acqua: per chi viaggia ed è sempre in tournée essere accolto, invece, in un teatro in cui c’è una cura e poi l’incontro post spettacolo o almeno l’ascolto dl pubblico è un vantaggio, oltre alle sale a disposizione per allenarsi, … Insomma una continuità nel processo creativo. Per me è stato importantissimo l’incontro con la compagnia del Teatro Kismet. Carlo Formigoni, forse uno degli ultimi maestri, ad esempio ha lasciato come insegnamento forte quello di aver cura delle nuove generazioni, fino all’ultimo momento si è occupato della gente, con i suoi laboratori anche con i non professionisti, una pratica che è anche espressione della propria vita. All’interno poi ovviamente ognuno di noi ha la propria poetica, la propria visione di teatro, sarebbe assurdo omologarsi e funzioniamo ancora per questo forse. Il nostro punto in comune è il luogo, è la ricerca di senso, ognuno con i suoi percorsi e linguaggi.

Ti devo allora chiedere di approfondire il concetto, anzi i concetti di luogo e spazio come nuclei che contemplano una complessità di fattori. Teatri di Bari è un’entità complessa che racchiude al suo interno spazi diversi in luoghi diversi, non solo per una questione di collocazione e o di numero di posti, ma anche per tipologia in senso più ampio. Come il tuo concetto di luogo e di spazio e la tua continua convivenza di identità tra l’artista e l’organizzatrice teatrale hanno trovato una propria prospettiva nella gestione di questi spazi e come se ne conserva la specificità all’interno però di una visione e di una proposta unitaria e coerente?

Noi tutti crediamo che sia fondamentale il dialogo con il posto. Abbiamo la gestione di tre spazi: il Teatro Kismet con la sua storicità, e poi un teatro comunale, il Radar di Monopoli, di cui abbiamo la gestione ma che, oltre alle proposte per adulti o ragazzi o gli eventi speciali per la stagione, condividiamo con il Conservatorio e altri eventi proposti proprio dal Comune, quindi è già una dimensione differente, non è portatore solo un’identità, però è inserito in un territorio ed è importante il dialogo con quel territorio; poi c’è la Cittadella degli artisti a Molfetta, un laboratorio urbano, uno spazio della città a disposizione del gestore, ma anche di tutte le altre realtà culturali del territorio. La stagione del Teatro Kismet è in qualche maniera la più semplice, riflette un’identità che è legata anche al nostro rapporto con le produzioni, ci sono anche le nostre produzioni e coproduzioni nazionali e internazionali e le compagnie che ospitiamo hanno a che fare con tutte le relazioni che la “comunità Kismet” ha o ha avuto negli anni o scopre di anno in anno. C’è una riconoscibilità: soprattutto il teatro contemporaneo, la danza, la musica, insomma la nostra materia, quello che abbiamo sempre “frequentato”. Rispetto agli altri due luoghi facciamo un lavoro differente. Cerchiamo di mantenere lo stesso rigore, la stessa accoglienza, però siamo anche molto attenti a confrontarci con la diversità di questi spazi. La Cittadella degli artisti è un luogo dove accogliamo soprattutto progetti legati alla formazione, alla sperimentazione, alle prove, dove vengono presentati degli studi, un’attenzione quasi al divenire; poi abbiamo anche la stagione serale, gli spettacoli della mattina per gli studenti dai tre anni sino agli adolescenti, i concerti musicali. C’è lo spazio del teatro che ha centonovanta posti e, oltre al foyer-bar, poi c’è uno spazio polivalente che consente di fare le cosiddette residenze, può ospitare piccoli festival, come succederà quest’anno con la semifinale del Premio Scenario: si crea qualcosa di davvero unico e vivo e una certa relazione con la città. Lo stesso succede col Maggio all’infanzia che organizziamo nei tre spazi e ogni anno segna l’arrivo di centinaia di operatori, direttori, artisti, i quali nella programmazione dialogano con altri luoghi della città, come biblioteche, giardini, … Insomma i tre spazi diventano un motore che dialoga con tutta la città, quindi anche con le altre periferie: siamo periferie che vanno a incontrare le altre periferie. C’è poi uno spazio che non viene mai citato, un quarto, che gestiamo ormai da vent’anni e che invece ci sta particolarmente a cuore, la piccola sala del Teatro Fornelli di Bari, nata per i percorsi creativi con i ragazzi ospiti del Carcere Fornelli, soprattutto Lello Tedeschi se ne occupa e sono progetti meravigliosi, molto preziosi per noi, sia per il senso di portare lì il linguaggio teatrale, un linguaggio potente che a volte ti cambia la vita, sia per la possibilità di far incontrare ai ragazzi gli artisti e viceversa. Sono tutti minorenni e si trovano spesso per la prima volta a confronto con la parola teatro, sono così bravi perché non hanno sovrastrutture, superato il primo momento di spavalderia magari vivono quell’esperienza in quel momento della loro vita in modo assoluto, anima e corpo.

Foto Ufficio Stampa

Penso a quanto ha detto Nicola Lagioia qualche tempo fa a proposito del Kismet: lo spazio, di concezione contemporanea, in sé è una sorta di isola calata all’interno di un contesto o meglio di un sistema urbano e di quartiere che sembra volerlo far implodere più che il contrario. Cioè la sua collocazione, che è una grandissima possibilità, sembra non essere poi supportata se non da voi…

Esattamente. Lo so, hai ragione, è una grande fatica. All’epoca la compagnia dei giovani del Teatro Kismet scelse proprio la collocazione in una periferia, la compagnia si spostava molto con gli spettacoli per bambini all’estero, quindi si era innamorata di quel tipo di strutture, che altrove si trovano da anni ormai. In tutti questi anni ce l’abbiamo messa tutta per mantenere la nostra dignità in quel posto, crediamo che vivere in periferia sia un grande vantaggio e anche un segno, un’essenza. Negli ultimi anni continuiamo a chiedere di avere almeno i servizi necessari per agevolare gli spettatori: non c’è un bus che fa servizio arrivando in quella zona, prima non c’era neanche la luce elettrica, hai visto quello che succede all’angolo con le ragazze e le macchine che si fermano anche di mattina, quando ci sono magari gli spettacoli per bambini, … Abbiamo fatto di tutto, siamo andati dal questore, ma non si riesce a tutelare quel posto. L’anno scorso è nata in maniera spontanea un’associazione di spettatori che si chiama “Amiki, Amici del Kismet”, si stanno impegnando presso il Comune, la Regione per riuscire ad ottenere qualche vantaggio come pulire la strada, o far arrivare dei mezzi per gli studenti e gli universitari la domenica pomeriggio, … Kismet in sanscrito significa buon destino: nonostante i disagi, rimane comunque un posto in cui chi arriva, non solo le centinaia di artisti e artiste in tutti questi anni, vive l’incontro, e credo che la luce che emana rimane.

Vorrei tornare un attimo su territorio e comunità e pensare alla loro relazione sia in riferimento alla comunità teatrale del pubblico che abita i teatri sia rispetto alla comunità allargata a livello nazionale e internazionale di chi il teatro lo fa.

Noi siamo comunità, il Teatro così come lo intendiamo nasce all’insegna di questa idea. Siamo un gruppo di artisti che lavora e agisce come Teatri di Bari come operatori di una comunità. Ti faccio l’esempio di me, io vivo il teatro dalla mattina alla sera, se ci sono due repliche io le guardo entrambe non solo per una questione “professionale”, ma perché ogni serata è un incontro, la relazione che insaturo, e come me tutti gli altri, è una relazione uno a uno ed è quella la cosa importante, perché l’evento teatrale diventa un momento che mette in gioco il rapporto con il pubblico. Il pubblico di riferimento per ciascuno dei nostri spazi è differente. Per esempio il Radar è un teatro che è stato chiuso per decenni e ha riaperto da poco, dove non a caso stiamo proponendo anche dei percorsi di accompagnamento alla visione, con dei giovani critici in cui diamo la possibilità di avvicinarsi al linguaggio teatrale, scrivere delle piccole recensioni in modo da sviluppare l’occhio a guardare il teatro, una delle tante cose che facciamo per avvicinarci e dialogare. Se riesci a creare un rapporto di fiducia con le persone poi divengono degli spettatori critici e a me fa piacere, il confronto dà modo di ragionare anche per costruire una stagione.

Il vostro contesto è cambiato moltissimo negli ultimi anni, anche per il flusso di persone che vi arrivavano…

Beh prima per il Kismet avevamo solo duecento posti, più una saletta in cui non si poteva fare lo spettacolo in contemporanea di un’ottantina di posti nel retrogradinata se ricordi. Adesso abbiamo quattrocento posti e anche la programmazione è cambiata in qualche modo perché in una serata arrivano quattrocento persone e lo spettacolo deve tener conto di un palco immenso. Nel retrogradinata facevamo prima spettacoli per venti persone, una cosa che ci manca tantissimo ma che ora non possiamo più fare. Anche i luoghi determinano la scelta della programmazione.

Foto Ufficio Stampa

L’infanzia è il periodo della scoperta. In Maggio all’infanzia cosa hai portato e cosa invece hai guadagnato in termini di scoperte?

L’infanzia è il mio luogo segreto, che mi porto dentro da sempre, da quando ho iniziato a relazionarmi col linguaggio teatrale. Una partenza e un approdo, è quanto detta anche le mie scelte artistiche, in generale, non faccio differenza tra uno spettacolo per ragazzi e uno per adulti se non semplicemente per l’onestà e il rispetto per i bambini. Ho un ventaglio di esperienze legate all’infanzia notevole, ho messo in scena tra Giappone, Inghilterra e Italia spettacoli “per tutto pubblico”. Significa che principalmente lo spettacolo deve avere un’onestà e una chiarezza per il suo destinatario numero uno, il bambino, e poi deve contenere una serie di strati che lo spettatore adulto può riconoscere, non per forza il bambino. Il mio spettacolo ideale a teatro è quello, e richiede moltissimo tempo per essere creato perché bisogna tener conto di una serie di fattori, scendere dal piedistallo dell’adulto e mettersi a un’altezza che non è bambinesca, bensì essenziale, archetipica e nello stesso tempo seminare una serie di strati che l’adulto può conoscere e incontrare. È lo spettacolo più complesso da costruire e quello che sento più vicino alla mia natura di artista, quello dell’infanzia dello stupore. Maggio all’infanzia è una grande opportunità per noi e per il pubblico, ogni anno c’è questo appuntamento fisso. Richiede uno sforzo organizzativo notevole, lanciamo un bando in cui le compagnie che hanno uno spettacolo nuovo posso partecipare così da avere una vetrina per gli operatori. Inoltre visionare le proposte di spettacoli che arrivano è per noi anche un termometro per capire come cambino le nuove generazioni (ci sono spettacoli per bambini e ragazzi fino all’ultimo anno delle superiori) e come nello stesso tempo, però, i bambini restino sempre gli stessi. Bisogna stare attenti a quello che si propone perché lo spettatore adulto arriva da solo a teatro la sera, fa lui la scelta, paga un biglietto e se lo spettacolo non gli è piaciuto o si confronta oppure se ne va e non torna più. Il bambino o l’adolescente è portato spesso dagli insegnanti. Si deve perciò sviluppare la relazione con gli insegnanti, ecco perché siamo stati i primi, dagli anni Novanta a proporre laboratori per loro. Significa coinvolgerli nel linguaggio teatrale e fornire elementi di scelta. Il bambino o l’adolescente arriva preparato a volte, mentre altre volte non sa nemmeno cosa viene a vedere. La responsabilità che abbiamo è proporre spettacoli con una propria validità.

Come ti poni nei confronti della parola responsabilità appunto, termine che corrisponde nel tuo caso sia alla responsabilità di artista che di direttrice artistica di un Tric, quindi di un teatro che beneficia di fondi pubblici?

Sai, è un atteggiamento rispetto alla professione, alla vita, alle scelte che fai. Il teatro è una via, una pratica in cui fai delle scelte di cui ti assumi la responsabilità. Spero di continuare a fare scelte che siano orientate alla scoperta di senso rispetto alla comunità degli spettatori, i quali a loro volta hanno le proprie responsabilità. In tutto questo non sono sola, c’è con me tutto un apparato di persone, di collaboratori che esprimono sé stesse. L’Oriente mi ha insegnato che anche come sistemi i fiori in un vaso nel foyer è una scelta, il bello di lavorare a teatro è che tutto è un atto creativo, una scelta di vita, un modo di stare al mondo. Per quanto riguarda il Tric, invece, lo Stato ti dà dei parametri che devi rispettare, una serie di caratteristiche schematiche, rigide, ma oltre a queste, in realtà quello che conta a mio avviso è il contenuto. Un Tric è diverso da un altro, come lo è una compagnia o un gruppo di lavoro perché è fatto di persone, quindi sono loro, la loro visione in quel momento storico, la loro storia a determinare poi la specificità di quel teatro. Stando anche alle richieste, è centrale il rapporto con il territorio, la maggior parte dele nostre produzioni devono essere rappresentate sul territorio. Personalmente lo trovo restrittivo, il teatro deve sempre superare i propri confini secondo la mia idea, i teatri devono viaggiare, incontrare l’altro, è un modo per allargare lo sguardo. Noi cerchiamo comunque di sviluppare entrambi gli aspetti: creare produzioni che siano pronte a viaggiare, ma anche radicarci sul territorio e dialogare con le altre sue realtà.

Qual è il vostro rapporto con le istituzioni regionali e con il circuito regionale che ha recentemente modificato la sua denominazione in Puglia Culture? Quali sono state le maggiori possibilità e le maggiori difficoltà di dialogo a livello sistemico?

Ci stiamo lavorando. Non è facile, ci auguriamo che il futuro porti a una maggiore condivisione di visioni e progetti.

Marianna Masselli

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Marianna Masselli
Marianna Masselli
Marianna Masselli, cresciuta in Puglia, terminato dopo anni lo studio del pianoforte e conseguita la maturità classica, si trasferisce a Roma per coltivare l’interesse e gli studi teatrali. Qui ha modo di frequentare diversi seminari e partecipare a progetti collaterali all’avanzamento del percorso accademico. Consegue la laurea magistrale con una tesi sullo spettacolo Ci ragiono e canto (di Dario Fo e Nuovo Canzoniere Italiano) e sul teatro politico degli anni '60 e ’70. Dal luglio del 2012 scrive e collabora in qualità di redattrice con la testata di informazione e approfondimento «Teatro e Critica». Negli ultimi anni ha avuto modo di prendere parte e confrontarsi con ulteriori esperienze o realtà redazionali (v. «Quaderni del Teatro di Roma», «La tempesta», foglio quotidiano della Biennale Teatro 2013).

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