Abbiamo visto al Teatro Fontana Come diventare ricchi e famosi da un momento all’altro, in scena fino a domenica 2 febbraio, ne abbiamo parlato con l’autore e regista. Intervista.
Ho intercettato Emanuele Aldrovandi al telefono durante un sabato di pioggia; dal salotto della mia casa milanese ho camminato con lui per le strade di Reggio Emilia, condividendo riflessioni sul teatro e parlando del suo ultimo spettacolo in scena a Milano. C’è qualcosa che ci accomuna, forse quel saper cogliere con complicità quell’ironia del paradosso che detta una visione delle cose. O forse solo la capacità di scherzare sulla nostra differente maturità anagrafica. Ridiamo. Cominciamo.
Partiamo dal tuo ultimo spettacolo portato al Teatro Fontana: da autore e regista porti in scena le complesse dinamiche di autoaffermazione dell’essere umano nell’era in cui imperano i social media e il ruolo che queste stesse dinamiche hanno nell’innescare un’idea di felicità. Come spesso accade nei tuoi lavori, il dilemma resta aperto ma alla fine la risposta alle questioni che poni sembra includere in sé poli opposti. È così?
Credo che il desiderio di felicità e affermazione, così come il vuoto contro cui si lotta cercando di riempirlo con affetti, sogni e speranze, riflettano la tendenza dell’uomo a proiettare nel futuro una felicità che manca nel presente. Ho ambientato la mia storia nell’epoca dei social perché è il mondo in cui viviamo, è il contesto socio-culturale che ci circonda. Al tempo stesso, non credo che questo spettacolo parli propriamente dei social, così come ne L’estinzione della razza umana non parlavo della pandemia. I social sono semplicemente lo sfondo entro cui i miei personaggi agiscono, perché i miei lavori parlano di quegli esseri umani lì. Questo spettacolo, ad esempio, racconta di una madre che proietta sulla figlia il proprio desiderio di felicità, di un compagno incapace di affermare ciò che desidera e che ritiene giusto, diventando complice di qualcosa che considera sbagliato, di un’attrice convinta che la sua fama dipenda solo dal proprio impegno, senza riconoscere altri fattori, e di uno scacchista che filtra il mondo attraverso la sua disciplina, risultando inadeguato a comprendere certe cose ma estremamente lucido nel coglierne altre. I personaggi agiscono quindi all’interno di un contesto, quello della visibilità mediale, ma il mio obiettivo non è dare un giudizio sulla moralità dei social. Per questo, nei miei lavori esistono sempre due piani: quello del plot, che si risolve nell’esito della vicenda – in questo caso, la bambina non è felice nonostante il successo e si toglie la vita – e quello semantico, che lascia invece i significati aperti alla lettura del pubblico, che non prende posizioni ma fa sì che siano i fruitori a decidere dove collocarsi nell’orizzonte di senso.
E quali sono le reazioni del pubblico a questa apertura semantica?
Ci sono persone che la riconoscono e che ne accolgono la complessità, altri – tra gli addetti ai lavori e il pubblico generico – credono invece che i miei “finali” abbiano l’obiettivo di dettare una morale. In realtà non è così, perché si tratta di creare morali opposte. Un esempio è la ricezione di Allarmi!: in Emilia-Romagna è stata letta come un’opera fascista, in Croazia è stata sabotata dagli attori che invece la reputavano comunista. Due estremismi opposti in due regioni diverse, ma il lavoro era lo stesso. È una medaglia al relativismo questa, le domande restano aperte e poi ognuno le riempie con i propri bisogni, le proprie paure.
Durante la visione, mi ha molto colpito uno slittamento che metti in atto, da un lato l’ossessione della visibilità di una figlia e della madre, dall’altro la sottrazione a quella logica, la negazione allo sguardo (penso a quando la bambina, nel momento in cui deve mostrare i suoi quadri decide di coprirli, dipingendoli di un giallo monotonale). Che cosa entra in campo all’interno di questo rapporto di visione?
Credo che questa logica abbia a che fare con la paura umana. Più desideri una cosa e più hai paura che ti faccia soffrire, più ami qualcuno e più dai in mano a questa persona il potere di farti stare male, più desideri la visibilità più ti esponi al rischio di non piacere. La figura della bambina estremizza questo aspetto, nella sua profonda semplicità di pensiero: nel sospetto di non essere all’altezza, copre tutto. È molto violento come concetto ed è una cosa che capita anche agli adulti. È difficile capire quale è il confine, perché più dai importanza ad una cosa più la carichi di una potenza opposta e, secondo me, è importante dirci che i social amplificano questa carica.
Lo spettacolo è anche una riflessione acuta sulle dinamiche di potere, chi sembra averlo è chi in fondo lo subisce, come se ne fosse intrappolato, come se nel tentativo di controllarlo fosse destinato a perderlo. Una sorta di paradosso…. La tua scrittura parte proprio dal paradosso, si arrotola, gioca, si acuisce ma poi smorza, sempre, con l’ironia. Cosa ti porta ad addentrarti in un terreno così fertile ma altresì così scivoloso?
Penso che, prima di tutto, sia un modo per me, come autore, di provare a guardare la realtà in modo diverso. Non dare allo spettatore quello che si aspetta ha un valore politico. Questo principio è sempre esistito nel grande teatro, ma nelle tendenze recenti – penso alle serie tv contemporanee o alla letteratura – viene spesso evitato, per paura di creare fraintendimenti. Le opere diventano dunque cautelative, predispongono degli schieramenti entro cui posizionarsi, un modus operandi che, secondo me, risponde al timore di essere incompresi, una strategia per evitare il pericolo. Invece a me, quel pericolo lì, piace, così come giocare sul disequilibrio che si viene a creare, sullo spiazzamento – prima sembra che io stia dicendo una cosa, poi un’altra. È una forma di ricerca, quella di scrivere di argomenti di cui non conosco a priori la risposta, problemi su cui mi interrogo senza avere una visione definitiva, ma in cui vedo la possibilità del paradosso.
Il tuo stile è molto riconoscibile, assume la forma dell’incastro, dai dialoghi alla formazione dei personaggi che su quei dialoghi si plasmano. Sono dei caratteri definiti nel genotipo, che impersonificano uno stereotipo, e con cui sembri dunque mantenere sempre una certa distanza, come se aderissero al reale ma con un ruolo prestabilito. Perché questa scelta?
Nella storia della letteratura e del teatro, esistono da un lato personaggi iperrealistici, che agiscono in modo naturale, e dall’altro personaggi più simbolici, grotteschi, archetipici, che si muovono nella direzione opposta. In scena cerco di posizionarmi su quel confine sottile tra i due estremi, un meccanismo che sulla carta funziona bene. Mi è capitato spesso di vedere in scena come questo equilibrio possa perdersi, perché la recitazione tende a piegarsi più da una parte o dall’altra: o verso un totalitarismo naturalistico, o verso un archetipo che rischia di svuotarsi del dolore umano. Per questo, cinque o sei anni fa, ho iniziato a fare regia: nel lavoro con gli attori, nella ricerca scenografica e nei costumi cerco di abitare proprio quel sottile punto di equilibrio.
In Come diventare ricchi e famosi credo di aver trovato questo compromesso scenico, anche grazie agli attori con cui collaboro da anni, amici che condividono il mio percorso e il mio codice di lavoro. Questo aiuta molto a definire uno stile: arrivo alle prove con un testo e, insieme agli attori, lo plasmo su di loro, attraverso un lavoro artigianale fatto di tagli e cuciture, aggiustamenti, modifiche nelle parole, per far sì che il testo aderisca il più possibile alle loro qualità. Ad aprile riporterò in scena Scusate se non siamo morti in mare, un’opera del 2015 che sto riscrivendo lavorando direttamente con gli attori. È un processo che mi diverte, mi stimola e mi permette di far coincidere il lavoro autoriale con quello della resa scenica.
Cosa pensi sia cambiato nella tua pratica teatrale in questi ultimi anni e nel contesto in cui ti inserisci? Penso all’intervista che ti abbiamo fatto 9 anni fa e mi chiedo come hai vissuto, artisticamente, questo ultimo decennio.
Non è cambiato il mio approccio di partire dalle domande senza offrire risposte univoche, così come non è cambiata l’ironia, che in fondo non è una scelta artistica, ma il modo in cui guardo le cose e le faccio funzionare all’interno delle dinamiche sceniche. D’altra parte, credo che sia cambiata in qualche modo la pratica, o forse più la mia consapevolezza della pratica. Dieci anni fa mi immaginavo solo come autore: era come se quello che scrivevo avesse sempre delle vite derivate, delle vite altre, che non avevo immaginato io. Da quando ho iniziato a mettere in scena i miei testi, ho acquisito una consapevolezza maggiore anche come autore e questo mi ha portato a una comprensione più ampia dei meccanismi teatrali. Ora avverto una maggiore padronanza rispetto a quello che sto facendo.
In generale, penso che la direzione in cui sta andando il teatro contemporaneo sia quella di lasciarsi un po’ alle spalle il teatro di regia, che è importante per la rilettura dei classici. Oggi, in Italia e in Europa, stiamo percorrendo la strada di un teatro contemporaneo in cui gli autori sono anche registi, con la propria compagnia e i propri collaboratori. Anche il fatto che questi lavori riescano a trovare spazio e ospitalità nelle grandi sale e nei circuiti è importante, anzi, importantissimo a livello di sistema culturale. Vedere che, nei teatri di provincia, accanto a uno spettacolo su Shakespeare, arrivano lavori di compagnie non note, senza nomi famosi della televisione e del cinema, dimostra che il teatro è vivo. Dimostra anche che vive di cose nuove nel presente, che non è solo un museo di reinterpretazione del passato, un luogo da frequentare ogni tanto, ma un dispositivo in grado di creare vero tessuto culturale e dibattito pubblico.
I tuoi lavori hanno anche avuto una buona circuitazione all’estero. Quali sono le tue impressioni in questo senso?
Nonostante i miei lavori siano giunti all’estero attraverso processi sempre diversi, ho notato che il pubblico ha delle reazioni negli stessi punti e questo mi fa pensare che ci sia una similitudine culturale di fondo, per cui quello che scrivo risuona e non parla solo ad un fruitore italiano. È bello anche vedere come le persone del settore, con i propri background culturali, abbiano cambiato sostanzialmente il mio lavoro. Gli anglosassoni, per esempio, mi telefonavano per chiedere di cambiare alcune parole, rimanevano dunque fedeli al linguaggio, in Germania, invece, volevano unire il mio testo assieme a quello di un’altra autrice. Mi piace vedere l’ampiezza della risonanza dei miei testi e come essi vengono utilizzati e reinterpretati in culture differenti.
Andrea Gardenghi
Visto al Teatro Fontana, Milano
testo e regia Emanuele Aldrovandi
con Giusto Cucchiarini, Serena De Siena, Tomas Leardini, Silvia Valsesia
aiuto regia Luca Mammoli
scene Francesco Fassone
costumi Costanza Maramotti
luci Antonio Merola
ambiente sonoro Riccardo Tesorini
movimenti Olimpia Fortuni
trucco Giorgia Blancato
realizzazione maschera Micol Russo e Cristina Ugo
collaborazione realizzazione scena Jessica Koba
collaborazione realizzazione costumi Nuvia Valestri
grafiche Anna Resmini
produzione Associazione Teatrale Autori Vivi, Teatro Stabile di Torino – Teatro Nazionale, Emilia Romagna Teatro ERT / Teatro Nazionale