| Cordelia | febbraio 2025
Tra le tre figlie di Re Lear, Cordelia, è quella sincera. Cordelia ama al di là del tornaconto personale. Gli occhi di Cordelia appaiono meno riverenti di altri, ma sono giusti. Cordelia dice la verità, sempre.
Cordelia è la rubrica delle recensioni di Teatro e Critica. Articoli da diverse città, teatri, festival, eventi e progetti. Ogni recensione è anche autonoma, con una propria pagina e un link nel titolo. Cordelia di febbraio 2025 è online da oggi, seguila anche nei prossimi giorni, troverai altre recensioni.
#PARMA
VAUTOURS (AVVOLTOI) (di Roberto Serpi)
Vautours è il testo di debutto di Roberto Serpi, selezionato dal progetto Mezz'ore d'autore di Teatro Due nel 2022, oggi riproposto con una regia condivisa dallo stesso Serpi e degli altri rinomati interpreti della pièce, Sergio Romano e Ivan Zerbinati. All'avvoltoio, rapace che si nutre per lo più di carogne, Serpi associa il mondo del lavoro e della competizione tra ultimi. Ultimi sono i personaggi, necessariamente tre, che abitano lo sgombro e anonimo scantinato di una qualsiasi e anonima grande azienda. Un rapporto, se non di amicizia, almeno di vaga solidarietà nella condivisione del disagio disoccupazionale, che si trasforma ben presto in una vicenda di inganni, menzogne e prevaricazione, nel tentativo di raggiungere a ogni costo un unico irrinunciabile obbiettivo: un posto in azienda. Il rapporto tra i tre e il palco nudo con le sue tubature e porte di servizio ci suggeriscono atmosfere beckettiane, ovviamente, ma anche quelle dei cortili scimoniani; così come l’idiota onesto interpretato con raffinatezza da Zerbinati non può che suggerirci l’insuperabile Lennie Small di Steinbeck. Mentre il plot talvolta inciampa nell’indecisione tra assurdo e verosimile, l’elegante, ritmato, denso testo vuole rimettere alla prova - a occhi attenti forse ingenuamente - un teatro di situazione che rinuncia all'azione, alle scene e agli orpelli per sorreggersi sulle dinamiche relazionali e sull'abilità attoriale; che non manca, ma che soffre della mancanza di una visione registica unitaria ed esterna che sappia mettere ordine in una dinamica drammaturgica a volte discontinua, e che si prenda cura dei pochi, quindi cruciali, elementi scenici; come l’iconico bigrigio Siemens62, unico oggetto costantemente presente e con un ruolo affatto secondario nello svolgimento della vicenda, che, tuttavia, con la sua patina vintage ci porta irrimediabilmente indietro nel tempo in un'epoca che cozza con l'immaginario, pure astratto, che ci siamo fatti della grande azienda e del grande direttore al piano di sopra, così come con i costumi, semplici e senza tempo, di Elisabetta Zanelli. (Angela Forti)
Visto al Teatro Due: di Roberto Serpi; interpretato e diretto da Sergio Romano, Roberto Serpi, Ivan Zerbinati; luci Luca Bronzo; costumi Elisabetta Zinelli; produzione Teatro Due.
#TORINO
GISELLƏ (coreografia di Nyko Piscopo)
Audace, per niente scontata, pur non senza qualche lentezza (nella parte iniziale), è la versione di Gisellə del giovane coreografo (sempre un po’ rannuvolato ma anche spesso mordace e gioioso e curioso e dio solo sa cos’altro) Nyko Piscopo del gruppo Cornelia. Visto in prima assoluta nella bella stagione di danza del TPE al Teatro Astra di Torino. È tutto un atto bianco, sembra la vendetta di un ex-ballerino di fila che spazientito tira un secchio di vernice su tutto quanto, ma invece è un atto d’amore per ciò che ancora è capace di restanza. Molto semplicemente: ogni forma dell’amore. La scena è frugale ma funzionalissima: essenziali strutture lignee sono le capanne del villaggio (del primo atto) ma nella loro radicale semplicità sembrano segni presi in prestito da dipinti di Klee. Il suono, pieno anche di silenzî, sembra musica concreta ma quella bella anni 70 (composta oggi da Luca Cianciello). Vi sono almeno due intuizioni intriganti e ben pensate: Gisellə quando si scopre tradit* si frizza, letteralmente muore per congelamento (e qui Leopoldo Guadagno dà il suo meglio: è una immobilità rabbiosa epperò sofferta, come una rediviva Straccia-capelli-Fracci); lui, Albrecht, il farabutto traditore (Nicolas Grimaldi Capitello maturato e in grande forma) tenta di riscaldarl* ma invano, il corpo gli si spezza proprio fra le braccia; segue un lutto collettivo che è una grottesca gran cagnara (ma la splendida Eleonora Greco, qui Batilde poi suora/badessa che dirige il funerale, mi rassicura: «a Napoli, quando muore qualcuno, facciamo sempre così») poi, per la parte delle Willi, Mirta è nel primo piano di uno Yul Brinner circondato da casalinghe in forma di spettri che sciabattano in uno spazio video, e che dal video (il filmato è il lago del secondo atto) martorizzano il corpo vivo del farabutto traditore manipolandone i gesti (il virtuale insegue e opprime, come nei sogni, il reale); il maledetto verrà salvato, nuovamente. I bellissimi costumi sono pensati quasi come corpi di uno spettacolo a parte, anch’essi tutti costretti in questo ingegnoso, difficilissimo bianco. (Stefano Tomassini)
Visto al Teatro La Fenice Nyko Piscopo sound design e musiche originali Luca Canciello scenografia Paola Castrignanò costume design Daria D’Ambrosio costume design (video) Pina Raiano video artist Andrea de Simone aka Desi danzatori Mimmina Ciccarelli, Nicolas Grimaldi Capitello, Leopoldo Guadagno, Eleonora Greco, Raffaele Guarino, Francesco Russo, Sara Ofelia Sonderegger, Matilde Valente danzatori (video) Marina Iorio, Giuseppe Li Santi, Samantha Marenzena, Rita Pujia, Chiara Saracco foto Serena Nicoletti management Vittorio Stasi produzione Cornelia co-produzione Scenario Pubblico – Centro di Rilevante Interesse Nazionale per la danza supporto ATERBALLETTO – Fondazione Nazionale della Danza; Asti Teatro, Officine San Carlo
#ROMA
SECONDO PIANO (di Andrea Giovalé regia Michele Eburnea)
Non diremmo giovani perché sarebbe fare loro un torto. Ormai la categoria - fiaccata dalla retorica escludente dei bandi, dal finto interesse della politica, dalla delusione degli adulti – merita invece di eclissarsi nel suo stato e goderselo finché dura senza che glielo si ricordi. Andrea Giovalé, Michele Eburnea e Sara Mafodda sono innanzitutto tre professionisti che hanno debuttato lo scorso weekend all’Altrove Teatro Studio con Secondo Piano un testo agile ma rigoroso, scandito da tempi comici matematici che, conservando l’impostazione di un esercizio registico- drammaturgico lo porta alla sua maturità completandolo con una scrittura complessa e a più livelli (ipotizziamo anche a più mani). Dopo i titoli di testa che ricordano molto le sitcom degli anni 80’-90’, sul divano appaiono Mumu (Eburnea) e Muma (Mafodda): si definiscono un duo artistico ma non lo sanno fin quando un funzionario (Giovalé) si inserisce nella loro bolla duale – efficace la scelta dei costumi blu in tinta con il divano – e inizia a fare loro delle domande su cosa sono, cosa pensano, cosa vogliono. Ed è proprio davanti a uno di questi interrogativi che la loro solidità viene scalfita da un “sì” dato al posto di un “no”. Del resto le relazioni è così che finiscono, quando diamo risposte diverse a domande inattese. In una drammaturgia ipertestuale ibridata dal linguaggio televisivo, da riferimenti alla slapstick comedy, tra gag e colpi di scena, i tre raccontano un divorzio consensuale in quattro appuntamenti: dalla separazione, alla stipula, fino alla fine. Senza quel rallentamento del ritmo dato da un superfluo intermezzo metateatrale e forse stemperando lievemente il pathos del finale, Secondo Piano crea empatia - Mafodda e Eburnea sono tanto uguali quanto diversissimi - coinvolge per verosimiglianza al tema riuscendo però a creare degli slittamenti di senso, a guardare da fuori i nostri sentimenti con intelligenza umoristica. È un attento uso del mezzo teatrale che non dimentica le logiche della scena, pur contaminandole proficuamente con riferimenti che spaziano dalla tv al cinema alla musica. (Lucia Medri)
Visto all’Altrove Teatro Studio: di Andrea Giovalè; Sara Mafodda; Michele Eburnea; Con Michele Eburnea; Sara Mafodda; Regia Michele Eburnea; Foto di Grazia Menna
BOCCONI AMARI – SEMIFREDDO (di Eleonora Danco)
Lo chiamano istinto filiale in psicologia, quell’attaccamento che si esplicita nella tessitura dei rapporti e anche, soprattutto, nelle nevrosi. Eleonora Danco - che più passano gli anni e più rende affilata, perturbante, imprevedibile la sua ferocia – eleva questo istinto alla sua degenerazione in Bocconi amari – semifreddo, visto al debutto al Teatro Vascello. Una pièce minimale e animale, grigio bluastra come i costumi di scena, che, nella concitazione di un ritmo scenico impeccabile sin dalle prime battute, mette in scena, divorandolo, il dramma borghese di una famiglia romana. In un salotto che sembra di cemento, livido e asettico, il padre Franco (Danco), la madre Maria (Orietta Notari), la figlia Paola (Beatrice Bartoni), i figli Luca (Lorenzo Ciambrelli) e Pietro (Federico Majorana) si riuniscono per il compleanno della madre e attorno alla tavola iniziano a scannarsi. L’interpretazione attoriale e i suoi movimenti si incastrano alla perfezione in un meccanismo di alzate, sedute, silenzi, rimbrotti, imprecazioni e qualche carezza: la madre è insoddisfatta, il padre la difende, la figlia è autolesiva e i figli frustrati. Due attrici mature – Danco e Notari – incontrano due attori e un’attrice più giovani ma non c’è alcuna differenza o paternalismo attoriale, al contrario il livello di onestà scenica uniforma il cast e livella i vari gradi di esperienza. Il primo atto si conclude con la morte della madre, il secondo si apre con il compleanno del padre; sono passati vent’anni e tutto è peggiorato. La crisi economica ha allargato le ferite, i problemi sono incancreniti, ma è qui che la scrittura di Danco lenisce la violenza inserendo dei soliloqui che rifuggono il cinismo del reale, tramite i quali i personaggi si staccano dalla crudeltà dei loro corpi, invecchiati, piegati, indolenziti, plastificati, per evadere nei ricordi d’infanzia, dove c’è ancora aria per il desiderio, reso scenicamente da una danza sollevata sotto una pioggia di fogli di carta, piani di vita effimeri, mai realizzati. Ingoiamo allora il boccone, ma non sappiamo se riusciremo a mandarlo giù. (Lucia Medri)
Visto al Teatro Vascello: scritto e diretto da Eleonora Danco, con Eleonora Danco, Orietta Notari, Federico Majorana, Beatrice Bartoni, Lorenzo Ciambrelli; Costumi Massimo Cantini Parrini; Assistente costumi Jessica Zambelli; Scenografia Francesca Pupilli e Mario Antonini Luci Eleonora Danco; Musiche scelte da Marco Tecce; aiuto regia Manuel Valeri e Maria Chiara Orti; regia Eleonora Danco; produzione La Fabbrica dell’Attore/Teatro Vascello – Teatro Metastasio di Prato.
#MILANO
LA COLLEZIONISTA (di M. Barile, regia M. Lorenzi)
Un teatro che si fa museo. È questa la scena che attende l’ingresso degli spettatori prima che inizi La Collezionista, testo di Magdalena Barile che Marco Lorenzi dirige sul palco del Teatro Elfo Puccini. Siamo nella casa della Marchesa Doris (Ida Marinelli), la grande collezionista in cui rivivono l’opera-vita di Peggy Guggenheim e al contempo la passione di Luisa Casati Stampa per l’arte. Troviamo la donna nella sua casa-museo di Venezia, alle prese con le proteste degli attivisti e con i costi altissimi della gestione, l’impossibilità burocratica di dedicare più all’arte il lusso del vuoto, lo spreco intellettuale, lo scopo della provocazione; attorno a Doris è Marcel, un assistente/amante (Angelo Tronca) che cerca di mantenere l’equilibrio tra la donna e ciò che rappresenta il suo museo, cercando allo stesso tempo di accogliere l’innovazione di due artisti antitetici tra loro ma, forse, nel bene e nel male complementari: Lux (Barbara Mazzi) e Andy (Yuri D’Agostino), forse entrambi immaginari, ma capaci di interpretare la provocazione portandola oltre un limite apparentemente invalicabile. La scena di Marina Conti e le luci di Giulia Pastore definiscono il bianco vorticoso delle pareti e dell’abito che ingloba, disperde lo sguardo e fa apparire le opere esposte nella loro solitudine, proprio la stessa di Doris; poi, quando il bianco cede luce, lo spazio si ammanta di un’atmosfera più calda, in cui prevalgono il giallo tenue e il rosa, un crescente presagio che penetra ogni angolo al punto da far emergere una domanda: chi vive in una casa-museo finisce poi per farne parte? La Marchesa – una Marinelli che passa tra le opere come anche lei fosse tale – è poi disgiunta dall’arte cui ha dato lustro? Il discorso attorno all’arte è lucido, il testo di Barile denso di stimoli urgenti, tuttavia la regia di Lorenzi manifesta un impeto che sembra poco funzionale perché emerga al meglio, tutta l’energia in eccesso innesca una recitazione a tratti scevra di modulazioni avvolgenti, cadenzate, il cui risultato è raffreddare una riflessione invece vivace con cui l’arte dovrà, presto o tardi, fare i conti. (Simone Nebbia)
Visto al Teatro Elfo Puccini. Crediti: di Magdalena Barile; regia Marco Lorenzi; con Ida Marinelli, Barbara Mazzi, Yuri D'Agostino, Angelo Tronca; scene Marina Conti; costumi Elena Rossi; luci Giulia Pastore; suono e video Gianfranco Turco; effetti scenici Tommaso Serra; assistente alla regia Giorgia Bolognani; assistente alla regia stagista Alessio Boccuni; foto proiettate sulla scena: Guido Harari e Armin Linke (dall'archivio del teatro); foto di scena dello spettacolo Laila Pozzo; produzione Teatro dell’Elfo, Ama Factory