| Cordelia | febbraio 2025 

Tra le tre figlie di Re Lear, Cordelia, è quella sincera. Cordelia ama al di là del tornaconto personale. Gli occhi di Cordelia appaiono meno riverenti di altri, ma sono giusti. Cordelia dice la verità, sempre.

Cordelia è la rubrica delle recensioni di Teatro e Critica. Articoli da diverse città, teatri, festival, eventi e progetti. Ogni recensione è anche autonoma, con una propria pagina e un link nel titolo. Cordelia di febbraio 2025 è online da oggi, seguila anche nei prossimi giorni, troverai altre recensioni.

Qui gli altri numeri mensili di Cordelia

#BOLOGNA

BEHIND THE LIGHT (di Cristiana Morganti)

L’ironia è la scelta stilistica preponderante nella drammaturgia degli spettacoli autobiografici di Cristiana Morganti, storica danzatrice del Tanztheater Wuppertal Pina Bausch, che prendendo le mosse da lì si mostra al mondo con spiazzante intimità. Come era accaduto già in Moving with Pina (2010) e Jessica and me (2104), pezzi fondamentali del percorso di Morganti “dopo Pina”, l’interazione col pubblico e la negazione della sua aspettativa, fa della performance qualcosa che va al di là del puro mostrarsi, assimilabile più a un estratto del suo diario personale. Ancor più che in passato c’è il desiderio di interrompere la fluidità della danza: interessante l’intervento dei video di Connie Prantera in cui Morganti risulta quasi grottesca mentre affronta scene di vita quotidiana cercando di non annegare nella disperazione per la malattia dei genitori, il divorzio e le nuove condizioni lavorative imposte dalla pandemia ai danzatori. Mai come questa volta il corpo, di cui ha fatto manifesto, ci appare più onesto. E in questa sua capacità falsaria, nell’ottica di un genere teatrale che dice e poi nega, che mescola la verità e l’invenzione, noi siamo la chiave di tutto. Il pubblico osannato e deriso, vantato e deluso, siamo noi a cui non si vuole più obbedire. I rumori disturbanti, la lunghezza prolungata delle scene, lo sfondamento continuo del limite del proscenio, la rabbia urlata, la conversazione diretta, sono tutti elementi stilistici che sembrano concorrere a distrarci dalla mitologia del Tanztheater. Ma questa intenzione viene puntualmente contraddetta dalla bellezza gestuale di Morganti e della sua coreografia in cui ci sembra sempre di ritrovare un’emozione antica che risale come un’onda alla nostra riva. Insieme alla performer ci sentiamo fragili e potenti, ricchi e annientati, siamo in continua mutazione. Behind the Light, presentato post-pandemia, risuona senza fatica in questo nuovo periodo storico oscuro in cui è necessario tenere sempre una luce accesa.

Visto all'Arena del Sole coreografia, drammaturgia e interpretazione Cristiana Morganti regia Cristiana Morganti e Gloria Paris disegno luci Laurent P. Berger creazione video Connie Prantera assistente di prova Elena Copelli datore luci Matteo Mattioli audio/video Giovanni Ghezzi produzione esecutiva Lisa Cantini

#MILANO

ZORRO (di Antonio Latella e Federico Bellini)

Un’illusione collettiva che si incarna in un simbolo per trasformarsi in un’idea di giustizia. È questo l’eroe mitico che Antonio Latella e Federico Bellini smontano fin dalle radici, fin nella sua essenza, in Zorro, andato in scena al Piccolo Teatro Grassi di Milano. Per farlo, la regia di Latella parte dall’esasperazione di forme e contenuti: paillettes, costumini aderenti sgargianti, luci luccicanti e suoni disturbanti – curati rispettivamente da Simona D’Amico, Simone De Angelis e Franco Visioli – sono motivi grotteschi, al limite del surreale, che vengono costantemente punzecchiati da risate sguaiate, cactus “mobili” e personaggi eroici inadatti che si rincorrono e azzuffano, si cimentano in canti e balletti e pronunciano parole sconclusionate in un linguaggio che vuole rivisitare costantemente se stesso. Sono questi i quattro personaggi – il povero, il poliziotto, il muto e il cavallo – che si muovono in un paesaggio scenico pop di eccessi e ipocrisie. Animatori di platea come di un villaggio turistico, cercano di interrogarsi sul senso (della povertà, della cittadinanza, delle carceri e dei migranti, dei morti, di tutto) ma finiscono, per carenza di focus e spessore sia nella scrittura sia nelle intenzioni stesse della pièce, a interrogarsi sul nulla. Michele Andrei, Paolo Giovannucci, Stefano Laguni e Isacco Venturini scambiano invece abilmente ruoli e maschere: aspettano e continuano per 3 ore ad aspettare qualcuno o qualcosa che non verrà, in un gioco repentino di trasformazioni e citazioni che deride l’illusione del cambiamento, per frantumare l’eroismo romantico di un’intera generazione e rivelarne il vuoto abissale che lo sottende. Qui, il mito si sgretola. L’ingiustizia resta. L’eroe si dissolve nella risata ridicola del fallimento, accolta da molti in platea. E il tratto della Z rimane, inciso nella pelle, ma come un segno che non ferisce davvero, non interroga e genera soltanto un insistente prurito. (Andrea Gardenghi)

Visto al Piccolo Teatro Grassi di Milano. Crediti: di Antonio Latella e Federico Bellini, regia Antonio Latella, scene Annelisa Zaccheria, costumi e simboli personaggi Simona D’Amico, suono Franco Visioli, luci Simone De Angelis, movimenti coreografici Alessio Maria Romano assistente alla regia Paolo Costantini, con Michele Andrei, Paolo Giovannucci, Stefano Laguni, Isacco Venturini produzione Piccolo Teatro di Milano – Teatro d’Europa

#ROMA

MILLENOVECENTO89 (Le Cerbottane)

Millenovecentottantanove. Una data, in principio. Ma una data che è pure una fine. La storia, per come la conosce chi è nato e si è formato nel Novecento, conclude in anticipo il secolo proprio in quella data. E non è soltanto per la caduta del Muro di Berlino, per la trasformazione del PCI via via in un covo di boyscout, a generare questa convinzione è la diffusa sensazione di vertigine che coglie il passaggio da un mondo definito, chiaro, a un altro che invece adotterà il caos e la velocità, sua sorella, come nuovi miti del presente. Lo spettacolo che Le Cerbottane - Laura Pizzirani e Francesca Romana Di Santo – hanno portato sul palco dell’Angelo Mai ha per titolo proprio questa data, o meglio: Millenovecento | 89, il secolo intero e il numero in coda che lo fa detonare. Le due attrici sono in scena due bambine che raccolgono il cambiamento epocale per il riflesso che porta nella loro vita, in parte consapevoli mutuando le parole dei grandi, in parte prese da uno smarrimento che emerge e si diffonde grazie agli squarci nel tempo, che riportano alla luce un certo modo di osservare e considerare la società, la preminenza della politica nel dibattito dentro e fuori la famiglia, ma allo stesso tempo anche la lassità di una classe dirigente creduta indissolubile e invece fagocitata da vanità e vigliaccheria. Squillano i telefoni della sede di partito, Marx si collega e prova a capire cosa sia accaduto, nessuno – e non solo le bambine – sa darsi una spiegazione eppure a breve, dopo un paio di mesi appena, sarà già il 1990, l’inizio dell’epoca successiva che getterà una coltre di soubrette e televendite su quella appena trascorsa. Pizzirani e Di Santo, due bambine immerse nella palude di fine secolo ma che forse volevano solo diventare Jem e le Holograms, costruiscono uno spettacolo per quadri divertenti e al contempo profondi, fanno teatro politico con pochi e solidi mezzi, soltanto nel tentativo di alleggerire una materia grave si avverte ci sia ancora un’indagine da svolgere, come se il punto non fosse ancora raggiunto e la verità più nuda su quel che siamo stati fosse, inequivocabile, in quel che ora (non) siamo. (Simone Nebbia)

Visto all’Angelo Mai. Crediti: Testo e messa in scena Laura Pizzirani e Francesca Romana Di Santo; Tecnica Camila Chiozza; Organizzazione e promozione Veronica Arietto; Una produzione Le Cerbottane; in collaborazione con AtelierSì , Angelo Mai e POLIS Teatro Festival

TANTO VALE DIVERTIRSI (Uno e trio)

Il fondale chiuso da un sipario di pesante velluto, ai lati il retro delle quinte, al centro una cornice imperlata di lampadine che è insieme specchio di camerino e centro della scena di questa scheggia di metatetralità divertita e, insieme, funesta. Siamo dietro le quinte di un teatro di vita e di morte, dove tre comici ridicoli e irrimediabilmente malinconici mettono in prova un improbabile Amleto in salsa di avanspettacolo. Il duo iniziale (Antonella Carone e Loris Leoci) consegna il presagio della sventura, l’ingresso del terzo personaggio (Tony Marzolla) fa virare il tutto sul tono del varietà rasoterra, pregno di doppi sensi, equivoci di facile presa ma anche una sopraffina esecuzione per contrabbasso e terzetto vocale. Ma la vicenda nasconde il negativo del divertissement: in sottofondo riverbera forte e chiaro il canto del cigno di chi si sta giocando tutto per sopravvivere. Nel 2016 Antonella Ottai (già docente di teatro alla Sapienza Università di Roma) dava conto, in Ridere rende liberi (Quodlibet) della triste sorte di certo cabaret mitteleuropeo finito a far da intrattenimento ai gerarchi nei campi di prigionia nazisti, in cambio di qualche ora di vita in più. A questa vicenda si ispira Tanto vale divertirsi, fatica autoprodotta dal gruppo pugliese Uno e trio, scavalcamontagne attraverso l’Italia giunta a Roma in un teatro di quartiere, che rende un omaggio commosso e riconoscente. Con qualche debito di ritmo a una prima parte troppo dilatata, i toni della slapstick comedy più spudorata ed eclettica si mescolano a una sottile operazione di suspense che lascia emergere poco a poco la tragedia celata dietro al maquillage della farsa, concedendosi una raffinata escursione in macabre videoproiezioni dove un cartoon fa danzare gli scheletri e lascia poi il posto a un epilogo/commiato fuori maschera, di rara crudezza. Grande è l’agio di questo trio di mestieranti devoti e sinceri, in grado di fare della commedia uno strumento documentale e della Storia un dilaniante grimaldello di sensibilità, mai suddito della retorica e sempre attento a una vocazione popolare. E così, sembra abbia detto Bakunin, «una risata ci seppellirà». (Sergio Lo Gatto)

Visto al Teatro di Tor Bella Monaca Progetto, Regia e Interpretazione: Antonella Carone, Tony Marzolla, Loris Leoci; drammaturgia: Damiano Nirchio; scenografia e costumi Pier Paolo Bisleri; disegno luci Giuseppe Pugliese; arrangiamenti canzoni e vocal coach Isabella Minafra; arrangiamenti musicali strumentali Vito Liturri; supervisione ragtime Dino Parrotta; assistente alla regia Rossana Suriano; sarta Angela Gassi; prosthetics Marcella Zito; montaggio video Nicola Galluzzi; tecnico Gianni Colapinto; foto di scena Alessio Gernone

QUELL’ATTIMO DI BEATITUDINE (di e con Christian Di Filippo)

Rapsodico, imprevedibile, un po’ diabolico, sicuramente nevrotico: N si presenta con la giacca e i capelli pettinati all’indietro, cammina deciso dal fondo, entra in luce, ha qualcosa da dirci: N non ha niente, non ha casa e famiglia, non ha un gatto, ha solo Diana, la Citroën gialla parcheggiata all’incrocio con Via Istria, nella quale vive. Questo è il suo punto d’osservazione della realtà e punto di contatto con la società. Della macchina, tiene puliti i vetri con lo sgrassatore affinché possa guardare la tv, quella però della famiglia del palazzo di fronte. Al dialogo, N preferisce scrivere delle lettere, quasi delle invettive che appunta sul suo taccuino nero, contro K. la vicina “gattara”, contro il traffico, contro il condominio, contro tutto. Un giorno, quella sua veemenza, dopo essere stata scagliata contro Dio, si trasforma in incendio. Quell’attimo di beatitudine è il monologo scritto e interpretato da Christian Di Filippo che porta Noi, pubblico, a contatto con N, l’individuo solo e isolato – perfetta nella sua plasticità, la smorfia consapevole di disgusto che si palesa sul volto dell’attore quando parla degli «esclusi». N potremmo essere Noi se un giorno dovessimo perdere e perderci e, per il reato di incendio doloso, entrare in carcere. In cella, N diventa una sorta di santone a cui il resto delle persone recluse si rivolgono, riceve pure la stima del direttore dell’istituto penitenziario, incontra persino il Papa. Il testo di Di Filippo, in cui si può cogliere un riferimento a The Lady in the Van di Alan Bennett, è un’appuntita disamina sociale che, senza ridondanze moralistiche o pietà filosofeggianti, riesce a scandagliare tutte le temperature dei sentimenti umani tramite una lente verista. Il testo, l’attore e la regia non si prendono mai troppo sul serio ed è un pregio funzionale a far emergere, degli aspetti antropologici trattati, la loro variegata gamma di buone intenzioni e meschine contraddizioni. (Lucia Medri)

Visto a Fortezza Est: di e con Christian Di Filippo; Musiche Elio D’Alessandro; Aiuto regia Viola Carinci; Assistente alla regia Celeste Tartaglia; Foto Luisa Fabriziani; Produzione AMAranta Indoors. Spettacolo Vincitore della XXIII edizione del Palio poetico musicale teatrale ErmoColle

#ROMA - Equilibrio Festival

VIRO (Abbondanza/Bertoni)

«Ciao X, anche tu da queste parti?/ Chi, io?/ hai voglia di farmi compagnia?/ Chi io?...» X e Y se ne tornano da dove sono venuti, camminano verso il nero fondale mentre la voce off, di quelle tipiche da automa, scandisce queste frasi, i due performer aprono la bocca di tanto in tanto, come in un sogno rallentato. È una chiusura ironica, ma è anche l’epilogo in cui le due entità devono riunirsi; d’altronde nelle note di accompagnamento di Viro (ultimo spettacolo della compagnia Abbondanza/Bertoni visto al Palladium per Orbita e Equilibrio Festival) si parla di «apnea creativa» che «diventa la chiave per un nuovo stato di coscienza gemellare». Ai due gemelli viene concessa la parola solo dopo poco meno di un’ora di partiture gestuali, fisiche senza sosta che corrono veloci sulla musica techno di Olaf Bender, aka Byetone. Gesti apparentemente semplici, che «appartengono a un istinto collettivo», scrive la coreografa Antonella Bertone parlando di un codice nel quale è la «mascolinità minuscola» ad essere esposta (dopo il precedente Femina). Cristian Cucco e Filippo Porro - che non si risparmiano e non mollano un beat -,  capelli grigi con una riga al lato e t-shirt nera performano un campionario di stereotipi del maschio medio, fatto anche di mossette e mimica facciale, sempre ancorati all'incedere percussivo e rumoristico della musica: si aggiustano la maglietta, le mani sull’inguine, una spolverata ai pantaloni, i palmi battuti sul petto con il volto pronto a ringhiare, le mani in tasca, il sesso come un ginnastica. Si fatica nella parte centrale dello spettacolo, dove la coreografia non stupisce e per arrivare alla durata di un’ora ci vorrebbero idee più nette con le quali illuminare una tematica un po’ esausta. Pensiamo ad esempio ai nuovi maschi, a quelli che si definiscono femministi, a quelli che hanno riscoperto tenerezza e lacrime, Viro non riesce a fare quel salto in più di pensiero che permetterebbe di colpirci con qualcosa che non sappiamo, e invece nei cinquanta minuti di sudore e tecnica possiamo al massimo confortarci di essere tra quelli bravi, tra quelli che sanno riconoscere gesti e movenze del maschiaccio tipico.

Visto al Teatro Palladium. Di: Michele Abbondanza e Antonella Bertoni Coreografia: Antonella Bertoni Regia: Michele Abbondanza Con: Cristian Cucco E Filippo Porro Disegno luci: Andrea Gentili Direzione tecnica; Claudio Modugno Musiche: Byetone – Death Of A Typographer Sound Design; Giacomo Plotegher Consulenza musicale: Marco Dalpane Organizzazione, strategia e sviluppo: Dalia Macii Amministrazione e coordinamento: Francesca Leonelli Comunicazione e Ufficio Stampa: Francesca Venezia

CATHEDRAL (Marcos Morau / Ballet Junior de Genève)

Il balletto cosiddetto Junior di Ginevra è una sorta di incubatore di talenti per la danza, ed è stato un piacere assistere alle performance di questo giovane ensemble che si è esibito sul palcoscenico della Sala Petrassi dell’auditorium romano intitolato a Ennio Morricone. Il cartellone ovviamente è quello di Equilibrio, occasione unica per la danza a Roma che ora si intreccia anche con le ospitalità di Orbita. Nel doppio programma, che prevedeva due lavori coreografici, i giovani interpreti hanno dovuto attraversare due mondi lontanissimi tra loro, due esempi dell’arte coreica di oggi, pensati da Marcos Morau e Alessandro Sciarroni. Il catalano è autore di una spettacolarità totale incentrata sul dato visivo, teatrale e ama lavorare su un piano di subconscio in cui i personaggi umani si mischiano con i pupazzi, le maschere e gli oggetti di scena in grado di narrare frammenti di realtà. Cathedral, il primo dei due pezzi (di mezz'ora ciascuno), sfoggia tutte le caratteristiche mostrate in questi anni da Morau, che però qui rischiano di trasformarsi in un certo manierismo (si guardi a tal proposito alle parole di Tomassini da Milano proprio su Morau). È bellissimo e suggestivo l’incipit: tutto l’ensemble è in fila,  alla destra degli spettatori, lentamente si avvicina alla sinistra del palco dove parallelamente alla fila di interpreti c’è un lungo tavolo alle cui estremità due performer sussurrano in francese al microfono. Il tavolo verrà spostato al centro e la musica percussiva (di Arvo Pärt) lentamente si aprirà a note più ariose e armoniche, qui l’ensemble alternerà i tipici movimenti scattosi dei singoli (il linguaggio denominato Kova dall'autore) alle partiture collettive con i soliti effetti ottici dati degli unisoni sfasati che creano delle onde con i corpi dei danzatori e delle danzatrici, anche questa modalità l'abbiamo vista nelle coreografie del recente Notte Morricone. Sul finale compaiono due pupazzi che però non colpiscono per le fattezze troppo neutre rispetto alla ricchezza espressiva usata solitamente dall’artista della Veronal. Lo spettacolo sembra essere un estratto dal più complesso lavoro in scena in questi giorni a Rotterdam e basta dare un'occhiata alle immagini per misurare la distanza dallo show completo.

Visto all’Auditorium Parco della Musica / Equilibrio 2025: Coreografia Marcos Morau, rimontata da Valentin Goniot/Assistente Alma Munteanu Musica Arvo Pärt Luci Mårten K. Axelsson Scene e costumi Silvia Delaugnea Marionette Christopher Kiss danzatori Maxim Detouillon Dandreu, Blandine Janthial, Bailey Kager, Carolina Lopes, Saraï Martens, Aris Papaioannou, Anastasia Pavliuk, Anton Pontet, Marie-Lou Pivoteau, Zoé Raoul, Ivo Santos, Mafalda Soares Costa, Nina Vanhout, Spyros Zikos

TURNING (Alessandro Sciarroni / Ballet Junior de Genève)

Il secondo autore della serata, che ha prestato le proprie coreografie al Ballet Junior de Genève è Alessandro Sciarroni: un artista che ha creato il proprio segno coreografico attorno alla ripetizione, alla dilatazione del tempo, tentando sempre di inserire un elemento di umanità purissima, di comunicazione empatica nella precisa geometria delle sue partiture. Qui il coreografo marchigiano, ormai riconosciuto internazionalmente, riprende un suo lavoro di qualche anno fa dispiegandolo sui corpi dei giovani interpreti dell’ensemble svizzero. Sono schierati sul palco occupando tutto lo spazio: camicie azzurre a varie fantasie, pantaloncini blu o marroni, calzettoni e una fascia rossa o blu, immobili guardano verso il pubblico. Una di loro lentamente comincia ad animarsi, prima con la testa e poi con il corpo, in un atto di rotazione che in pochi minuti diverrà atto di adorazione totale per il movimento; ruotano e guardano il pubblico, il quale restituisce sguardo ed energia, perché altro non si può fare di fronte a questi sortilegi di Sciarroni, vero e proprio stregone del tempo e dello spazio. Qualcuno accenna un sorriso, altri non lasciano trapelare nulla, quasi a cercare uno svuotamento in questa piroetta totalizzante; ognuno interpreta a proprio modo il percorso dentro il movimento, ce n’è uno ad esempio che non nasconde la gioia, la felicità di potersi esprimere in quel contesto, un altro è invece serissimo, un metronomo, non sembra subire la fatica. Qualcuno ha bisogno di rallentare per poi riprendere: il corpo gira su se stesso e allo stesso tempo disegna una traiettoria circolare, non si può non pensare alle traiettorie dei pianeti e degli astri. Piccoli cambiamenti si innestano nella ripetizione: un braccio si alza, un altro va dietro la testa, fino a vere e proprie rotazioni sulle mezze punte. La musica come sempre puntella emotivamente la prova atletica e umana dell’ensemble e l’effetto, come spesso accade con Sciarroni, è quello di scoprire una commozione che improvvisamente, e forse inaspettatamente, ci sorprende.

Visto all’Auditorium Parco della Musica / Equilibrio 2025: TURNING_MOTION SICKNESS REMIX – PRIMA ITALIANA NUOVA VERSIONE 31 MAGGIO 2024 PER JUNIOR BALLET DE GENÈVE DURATA: 30 MINUTI Coreografia Alessandro Sciarroni Styling Ettore Lombardi Luci Sébastien Lefèvre Consulente alla drammaturgia e preparazione fisica Elena Giannotti. Danzatori Maxim Detouillon Dandreu, Bailey Kager, Carolina Lopes, Saraï Martens, Aris Papaioannou, Anton Pontet, Zoé Raoul, Ivo Santos, Mafalda Soares Costa, Nina Vanhout, Spyros Zikos

DANCER OF THE YEAR (di Trajal Harrell)

In che modo agiscono i riconoscimenti sulle personalità artistiche? Un premio è solo un premio o diventa scintilla di indagine, esercizio di consapevolezza? È un gesto di cuore, muscoli e animo la risposta a queste domande che Trajal Harrell - Leone d’argento della Biennale di Venezia 2024 – ci dona, letteralmente come un regalo, nel solo Dancer of the year, presentato in prima nazionale durante il festival Equilibrio 2025. La coreografia suddivisa in 5 parti per la drammaturgia di Sara Jansen ha commosso il pubblico in un’unione armonica di emozioni. Dopo essere stato definito dancer of the year dalla rivista tedesca Tanz nel 2018, Harrell ha deciso di venire a patti con questa definizione creando una performance lirica e autobiografica che ci offre in tutta la sua luccicante spontaneità. Come dichiarato nell’incontro post spettacolo condotto dal direttore di Equilibrio Emanuele Masi «è un lavoro artigianale con cui ho voluto mostrare l'interno di me, tirando fuori quello che ho dentro, tutto quello che posso fare, anche le cose più brutte». A sostenere la semplicità strutturale dei movimenti, è una danza emotiva che si sviluppa bidimensionalmente, lungo un tappeto rosso poggiato su una grande stuoia quadrata, ed è accompagnata da altrettanti movimenti sonori. Questi, musicalmente parlando, possiedono una qualità sentimentale che aderisce alle partiture, all’incedere e evolversi di questo Pierrot che incendia, vivificandolo, il gesto coreografico, come nelle dirompenti sequenze di Twenty Looks or Paris is Burning at The Judson Church. Se la danza è sempre stata esaltazione della forza, Harrell vuole invece esprimere della danza le sue fragilità; un linguaggio che - erede del voguing newyorkese, della postmodern dance e del butoh giapponese – vuole innazitutto tenerci insieme, regalarci il calore che sta dietro un abbraccio, l’energia di un bacio. «I’ve tried to bring you together», dirà alla fine Harrel con gentile e composta onestà.

#PARMA

VAUTOURS (AVVOLTOI) (di Roberto Serpi)

Vautours è il testo di debutto di Roberto Serpi, selezionato dal progetto Mezz'ore d'autore di Teatro Due nel 2022, oggi riproposto con una regia condivisa dallo stesso Serpi e degli altri rinomati interpreti della pièce, Sergio Romano e Ivan Zerbinati. All'avvoltoio, rapace che si nutre per lo più di carogne, Serpi associa il mondo del lavoro e della competizione tra ultimi. Ultimi sono i personaggi, necessariamente tre, che abitano lo sgombro e anonimo scantinato di una qualsiasi e anonima grande azienda. Un rapporto, se non di amicizia, almeno di vaga solidarietà nella condivisione del disagio disoccupazionale, che si trasforma ben presto in una vicenda di inganni, menzogne e prevaricazione, nel tentativo di raggiungere a ogni costo un unico irrinunciabile obbiettivo: un posto in azienda. Il rapporto tra i tre e il palco nudo con le sue tubature e porte di servizio ci suggeriscono atmosfere beckettiane, ovviamente, ma anche quelle dei cortili scimoniani; così come l’idiota onesto interpretato con raffinatezza da Zerbinati non può che suggerirci l’insuperabile Lennie Small di Steinbeck. Mentre il plot talvolta inciampa nell’indecisione tra assurdo e verosimile, l’elegante, ritmato, denso testo vuole rimettere alla prova - a occhi attenti forse ingenuamente - un teatro di situazione che rinuncia all'azione, alle scene e agli orpelli per sorreggersi sulle dinamiche relazionali e sull'abilità attoriale; che non manca, ma che soffre della mancanza di una visione registica unitaria ed esterna che sappia mettere ordine in una dinamica drammaturgica a volte discontinua, e che si prenda cura dei pochi, quindi cruciali, elementi scenici; come l’iconico bigrigio Siemens62, unico oggetto costantemente presente e con un ruolo affatto secondario nello svolgimento della vicenda, che, tuttavia, con la sua patina vintage ci porta irrimediabilmente indietro nel tempo in un'epoca che cozza con l'immaginario, pure astratto, che ci siamo fatti della grande azienda e del grande direttore al piano di sopra, così come con i costumi, semplici e senza tempo, di Elisabetta Zanelli. (Angela Forti)

Visto al Teatro Due: di Roberto Serpi; interpretato e diretto da Sergio Romano, Roberto Serpi, Ivan Zerbinati; luci Luca Bronzo; costumi Elisabetta Zinelli; produzione Teatro Due.

#MILANO

TOTENTANZ, MORGEN IST DIE FRAGE (di Marcos Morau)

È incredibile come Marcos Morau sia riuscito a rendere noiosa la morte (e senza nemmeno riuscire a esorcizzarla). Tutta la retorica possibile del e sul caro estinto non è mancata nel suo Totentanz, Morgen ist die Frage (stage version) per La Veronal al Festival Fog della Triennale di Milano. Tra il solito dispendio di fumo e tanto buio, il neon effetto obitorio da far altalenare nell’aria (o a effetto croce per terra per rituali sempre un po’ così-così), e con sul palco tanto di barelle per dissezioni anatomiche e cadaveri/manichini/spettri da agitare per aria che però impressionano pochissimo. E poi suoni d’organo che montano e minacciano, pure le campane che toccano a morto, la solita bandiera nera sventolata a li mortacci tua, e i noiosi cluster continui tutti orchestrati sui movimenti inesausti, prevalentemente a scatti, dei quattro performer (bell* & brav*), come in un insopportabile videogioco. Quel che ne risulta insomma è un clima più da risibile fumetto che da carnevale «di una disperata vitalità». Quali segreti sulla fine qui si svelano? Nessuno, tranquilli. Davvero non ho mai avuto la percezione di sapere dove la performance volesse o potesse andare a parare. Nel mezzo, un video mix degli orrori e degli squartamenti di ogni tipo e tempo, coi volti dei cattivi della nostra storia, in una temporalità talmente veloce da non creare mai un vero caso. L’orrore esposto come in vetrine viste in corsa. Poteva già bastare. E poi il finale, in una sorta di rave poco credibile, molto fuori luogo. Morau è artista dal forte immaginario visivo, molto organizzato in termini espressivi ma pochissimo coreografico, per cui io credo abbia bisogno di drammaturgie forti e chiare, solide e vorrei anche scrivere necessarie. A questo giro tutto è sembrato senza idee, sforzato in una soluzione produttiva impropria e soffocante, un poco acchiappacitrulli. Morau dovrebbe fermarsi, e riflettere, su cosa è più necessario per lui, come poter chiarire la sua ricerca, se ne ha una, e come impedire che la sua identità diventi merce di pronta cassa pei mercanti nel tempio, ossessionati dall’iperproduttività d’oggidì. (Stefano Tomassini)

Visto alla Triennale Idea e direzione artistica: Marcos Morau Direzione di produzione: Juanma G. Galindo Coreografie: Marcos Morau in collaborazione con gli interpreti Con: Ignacio Fizona Camargo, Valentin Goniot, Fabio Calvisi, Lorena Nogal Drammaturgia: Roberto Fratini Direzione tecnica e gestione del palcoscenico: David Pascual Progetto sonoro e musiche originali: Clara Aguilar Video design: Marcos Morau, Marc Salicrú, Marina Rodríguez, Albert Pons Design dei costumi e degli spazi: Marcos Morau

LA COLLEZIONISTA (di M. Barile, regia M. Lorenzi)

Un teatro che si fa museo. È questa la scena che attende l’ingresso degli spettatori prima che inizi La Collezionista, testo di Magdalena Barile che Marco Lorenzi dirige sul palco del Teatro Elfo Puccini. Siamo nella casa della Marchesa Doris (Ida Marinelli), la grande collezionista in cui rivivono l’opera-vita di Peggy Guggenheim e al contempo la passione di Luisa Casati Stampa per l’arte. Troviamo la donna nella sua casa-museo di Venezia, alle prese con le proteste degli attivisti e con i costi altissimi della gestione, l’impossibilità burocratica di dedicare più all’arte il lusso del vuoto, lo spreco intellettuale, lo scopo della provocazione; attorno a Doris è Marcel, un assistente/amante (Angelo Tronca) che cerca di mantenere l’equilibrio tra la donna e ciò che rappresenta il suo museo, cercando allo stesso tempo di accogliere l’innovazione di due artisti antitetici tra loro ma, forse, nel bene e nel male complementari: Lux (Barbara Mazzi) e Andy (Yuri D’Agostino), forse entrambi immaginari, ma capaci di interpretare la provocazione portandola oltre un limite apparentemente invalicabile. La scena di Marina Conti e le luci di Giulia Pastore definiscono il bianco vorticoso delle pareti e dell’abito che ingloba, disperde lo sguardo e fa apparire le opere esposte nella loro solitudine, proprio la stessa di Doris; poi, quando il bianco cede luce, lo spazio si ammanta di un’atmosfera più calda, in cui prevalgono il giallo tenue e il rosa, un crescente presagio che penetra ogni angolo al punto da far emergere una domanda: chi vive in una casa-museo finisce poi per farne parte? La Marchesa – una Marinelli che passa tra le opere come anche lei fosse tale – è poi disgiunta dall’arte cui ha dato lustro? Il discorso attorno all’arte è lucido, il testo di Barile denso di stimoli urgenti, tuttavia la regia di Lorenzi manifesta un impeto che sembra poco funzionale perché emerga al meglio, tutta l’energia in eccesso innesca una recitazione a tratti scevra di modulazioni avvolgenti, cadenzate, il cui risultato è raffreddare una riflessione invece vivace con cui l’arte dovrà, presto o tardi, fare i conti. (Simone Nebbia)

Visto al Teatro Elfo Puccini. Crediti: di Magdalena Barile; regia Marco Lorenzi; con Ida Marinelli, Barbara Mazzi, Yuri D'Agostino, Angelo Tronca; scene Marina Conti; costumi Elena Rossi; luci Giulia Pastore; suono e video Gianfranco Turco; effetti scenici Tommaso Serra; assistente alla regia Giorgia Bolognani; assistente alla regia stagista Alessio Boccuni; foto proiettate sulla scena: Guido Harari e Armin Linke (dall'archivio del teatro); foto di scena dello spettacolo Laila Pozzo; produzione Teatro dell’Elfo, Ama Factory

#TORINO

GISELLƏ (coreografia di Nyko Piscopo)

Audace, per niente scontata, pur non senza qualche lentezza (nella parte iniziale), è la versione di Gisellə del giovane coreografo (sempre un po’ rannuvolato ma anche spesso mordace e gioioso e curioso e dio solo sa cos’altro) Nyko Piscopo del gruppo Cornelia. Visto in prima assoluta nella bella stagione di danza del TPE al Teatro Astra di Torino. È tutto un atto bianco, sembra la vendetta di un ex-ballerino di fila che spazientito tira un secchio di vernice su tutto quanto, ma invece è un atto d’amore per ciò che ancora è capace di restanza. Molto semplicemente: ogni forma dell’amore. La scena è frugale ma funzionalissima: essenziali strutture lignee sono le capanne del villaggio (del primo atto) ma nella loro radicale semplicità sembrano segni presi in prestito da dipinti di Klee. Il suono, pieno anche di silenzî, sembra musica concreta ma quella bella anni 70 (composta oggi da Luca Cianciello). Vi sono almeno due intuizioni intriganti e ben pensate: Gisellə quando si scopre tradit* si frizza, letteralmente muore per congelamento (e qui Leopoldo Guadagno dà il suo meglio: è una immobilità rabbiosa epperò sofferta, come una rediviva Straccia-capelli-Fracci); lui, Albrecht, il farabutto traditore (Nicolas Grimaldi Capitello maturato e in grande forma) tenta di riscaldarl* ma invano, il corpo gli si spezza proprio fra le braccia; segue un lutto collettivo che è una grottesca gran cagnara (ma la splendida Eleonora Greco, qui Batilde poi suora/badessa che dirige il funerale, mi rassicura: «a Napoli, quando muore qualcuno, facciamo sempre così») poi, per la parte delle Willi, Mirta è nel primo piano di uno Yul Brinner circondato da casalinghe in forma di spettri che sciabattano in uno spazio video, e che dal video (il filmato è il lago del secondo atto) martorizzano il corpo vivo del farabutto traditore manipolandone i gesti (il virtuale insegue e opprime, come nei sogni, il reale); il maledetto verrà salvato, nuovamente. I bellissimi costumi sono pensati quasi come corpi di uno spettacolo a parte, anch’essi tutti costretti in questo ingegnoso, difficilissimo bianco. (Stefano Tomassini)

Visto al Tpe Teatro Astra Nyko Piscopo sound design e musiche originali Luca Canciello scenografia Paola Castrignanò costume design Daria D’Ambrosio costume design (video) Pina Raiano video artist Andrea de Simone aka Desi danzatori Mimmina Ciccarelli, Nicolas Grimaldi Capitello, Leopoldo Guadagno, Eleonora Greco, Raffaele Guarino, Francesco Russo, Sara Ofelia Sonderegger, Matilde Valente danzatori (video) Marina Iorio, Giuseppe Li Santi, Samantha Marenzena, Rita Pujia, Chiara Saracco foto Serena Nicoletti management Vittorio Stasi produzione Cornelia co-produzione Scenario Pubblico – Centro di Rilevante Interesse Nazionale per la danza supporto ATERBALLETTO – Fondazione Nazionale della Danza; Asti Teatro, Officine San Carlo

#ROMA

AMARA TERRA (di Luca Pastore)

Prima dell’inizio dello spettacolo, nel foyer, il pubblico riceve personalmente delle vecchie cartoline, spedite minimo una cinquantina di anni fa: gli inchiostri sbiaditi, i timbri postali che hanno perso la loro definita ufficialità come la posa che lascia il bicchiere sul mobile; le calligrafie indecifrabili alcune, altre impeccabili tanto da sembrare stampate. Sono messaggi brevi volti a testimoniare quello che rappresentano, dei saluti dall’Italia. Quello che colpisce sono i destinatari, la maggior parte famiglie, mai persone singole, ma gruppi, realtà collettive. Le famiglie sono il materiale dal quale si sviluppa Amara Terra di Luca Pastore una sequenza di quadri che uniscono da Nord a Sud un paese fatto di amenità e amarezze, differenti storie, la maggior parte drammi, tramite le quali a essere portata in scena è la storia orale custodita dai nostri genitori e nonni. Questo racconto dei racconti popolari cucito insieme da Pastore e dal cast compone un corredo antropologico a rischio sparizione se non se ne recupera la memoria. Forse quella dei Millennials, e a ben sperare quella della Gen Z, sono le ultime due generazioni che potranno ancora salvare questo patrimonio, e incorporarlo come fanno Miriam Messina, Martina Caronna, Ludovica Avetrani, Claudio Filardi. In una scena riempita di sedie e stoffe e vestiti come a ricreare una camera di famiglia, le attrici e l’attore - alternando con destrezza il polilinguismo dei dialetti della penisola ma con meno rigore il cambiamento dei molteplici registri che vanno dal comico al tragico al grottesco - interpretano diversi ruoli di passate e diverse storie filiali che però ci riguardano da vicino, anche in virtù di una riconoscibile stereotipia. Sono le tracce che ereditiamo, modelli sociali e tare che, se trasmessi criticandone gli aspetti più crudi come fa il testo di Pastore, possono fungere da bagaglio socioculturale per il futuro. (Lucia Medri)

Visto a Fortezza Est: testo e regia Luca Pastore; con Miriam Messina, Martina Caronna, Ludovica Avetrani, Claudio Filardi; musiche e suoni Mattia Yuri Messina; una produzione I Cani Sciolti. Foto Simona Albani

SECONDO PIANO (di Andrea Giovalé regia Michele Eburnea)

Non diremmo giovani perché sarebbe fare loro un torto. Ormai la categoria - fiaccata dalla retorica escludente dei bandi, dal finto interesse della politica, dalla delusione degli adulti – merita invece di eclissarsi nel suo stato e goderselo finché dura senza che glielo si ricordi. Andrea Giovalé, Michele Eburnea e Sara Mafodda sono innanzitutto tre professionisti che hanno debuttato lo scorso weekend all’Altrove Teatro Studio con Secondo Piano un testo agile ma rigoroso, scandito da tempi comici matematici che, conservando l’impostazione di un esercizio registico- drammaturgico lo porta alla sua maturità completandolo con una scrittura complessa e a più livelli (ipotizziamo anche a più mani). Dopo i titoli di testa che ricordano molto le sitcom degli anni 80’-90’, sul divano appaiono Mumu (Eburnea) e Muma (Mafodda): si definiscono un duo artistico ma non lo sanno fin quando un funzionario (Giovalé) si inserisce nella loro bolla duale – efficace la scelta dei costumi blu in tinta con il divano – e inizia a fare loro delle domande su cosa sono, cosa pensano, cosa vogliono. Ed è proprio davanti a uno di questi interrogativi che la loro solidità viene scalfita da un “sì” dato al posto di un “no”. Del resto le relazioni è così che finiscono, quando diamo risposte diverse a domande inattese. In una drammaturgia ipertestuale ibridata dal linguaggio televisivo, da riferimenti alla slapstick comedy, tra gag e colpi di scena, i tre raccontano un divorzio consensuale in quattro appuntamenti: dalla separazione, alla stipula, fino alla fine. Senza quel rallentamento del ritmo dato da un superfluo intermezzo metateatrale e forse stemperando lievemente il pathos del finale, Secondo Piano crea empatia - Mafodda e Eburnea sono tanto uguali quanto diversissimi - coinvolge per verosimiglianza al tema riuscendo però a creare degli slittamenti di senso, a guardare da fuori i nostri sentimenti con intelligenza umoristica. È un attento uso del mezzo teatrale che non dimentica le logiche della scena, pur contaminandole proficuamente con riferimenti che spaziano dalla tv al cinema alla musica. (Lucia Medri)

Visto all’Altrove Teatro Studio: di Andrea Giovalè; Sara Mafodda; Michele Eburnea; Con Michele Eburnea; Sara Mafodda; Regia Michele Eburnea; Foto di Grazia Menna

BOCCONI AMARI – SEMIFREDDO (di Eleonora Danco)

Lo chiamano istinto filiale in psicologia, quell’attaccamento che si esplicita nella tessitura dei rapporti e anche, soprattutto, nelle nevrosi. Eleonora Danco - che più passano gli anni e più rende affilata, perturbante, imprevedibile la sua ferocia – eleva questo istinto alla sua degenerazione in Bocconi amari – semifreddo, visto al debutto al Teatro Vascello. Una pièce minimale e animale, grigio bluastra come i costumi di scena, che, nella concitazione di un ritmo scenico impeccabile sin dalle prime battute, mette in scena, divorandolo, il dramma borghese di una famiglia romana. In un salotto che sembra di cemento, livido e asettico, il padre Franco (Danco), la madre Maria (Orietta Notari), la figlia Paola (Beatrice Bartoni), i figli Luca (Lorenzo Ciambrelli) e Pietro (Federico Majorana) si riuniscono per il compleanno della madre e attorno alla tavola iniziano a scannarsi. L’interpretazione attoriale e i suoi movimenti si incastrano alla perfezione in un meccanismo di alzate, sedute, silenzi, rimbrotti, imprecazioni e qualche carezza: la madre è insoddisfatta, il padre la difende, la figlia è autolesiva e i figli frustrati. Due attrici mature – Danco e Notari – incontrano due attori e un’attrice più giovani ma non c’è alcuna differenza o paternalismo attoriale, al contrario il livello di onestà scenica uniforma il cast e livella i vari gradi di esperienza. Il primo atto si conclude con la morte della madre, il secondo si apre con il compleanno del padre; sono passati vent’anni e tutto è peggiorato. La crisi economica ha allargato le ferite, i problemi sono incancreniti, ma è qui che la scrittura di Danco lenisce la violenza inserendo dei soliloqui che rifuggono il cinismo del reale, tramite i quali i personaggi si staccano dalla crudeltà dei loro corpi, invecchiati, piegati, indolenziti, plastificati, per evadere nei ricordi d’infanzia, dove c’è ancora aria per il desiderio, reso scenicamente da una danza sollevata sotto una pioggia di fogli di carta, piani di vita effimeri, mai realizzati. Ingoiamo allora il boccone, ma non sappiamo se riusciremo a mandarlo giù. (Lucia Medri)

Visto al Teatro Vascello: scritto e diretto da Eleonora Danco, con Eleonora Danco, Orietta Notari, Federico Majorana, Beatrice Bartoni, Lorenzo Ciambrelli; Costumi Massimo Cantini Parrini; Assistente costumi Jessica Zambelli; Scenografia Francesca Pupilli e Mario Antonini Luci Eleonora Danco; Musiche scelte da Marco Tecce; aiuto regia Manuel Valeri e Maria Chiara Orti; regia Eleonora Danco; produzione La Fabbrica dell’Attore/Teatro Vascello – Teatro Metastasio di Prato.

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