La redazione di Teatro e Critica ha stilato una mappa composta da quasi 50 spettacoli visti nei 12 mesi passati tra stagioni teatrali e festival, danza e arti performative.
È evidente ormai quanto il contemporaneo nelle arti performative vada declinato al plurale. La biodiversità delle opere che hanno animato i palcoscenici in queste stagioni emerge in modo lampante proprio quando si tratta di fare i conti alla fine dell’anno. Questa nostra mappatura sugli spettacoli che maggiormente ci hanno colpito (tra quelli visti nel 2024) e che vorremmo rivedere nell’anno successivo torna per la terza volta, vale la pena ribadire anche in questo caso che non si tratta di una classifica, ma di una vera e propria cartografia dei teatri del contemporaneo: ci sono d’altronde quasi 50 segnalazioni (un allenamento alla curiosità, per citare Catwoman nell’immagine di questa pagina). A teatro non troverete la cronaca immediata di questi anni tragici colpiti da guerre e soprusi, eppure rimane questo il luogo in cui cercare le contraddizioni del mondo; la nostra speranza allora è quella di disegnare attraverso queste opere una costellazione di esperienze artistiche con le quali misurare il dolore e la difficoltà di essere presenti al nostro tempo.
Come per gli scorsi anni la circuitazione rimane uno dei punti deboli del sistema teatrale italiano, per molti di questi spettacoli (soprattutto gli internazionali) non sarà facile avere altre date, noi, come al solito, cercheremo di avvertirvi nel caso di repliche e tournée. (A.P.)
Qui tutti gli spettacoli segnalati da ogni redattore e redattrice di teatroecritica:
Letizia Chiarlone
La signora delle Camelie (regia di Giovanni Ortoleva)
Ancora, dunque, la storia di Margherita Gautier, ma anche di Alexander Dumas e di una maschera fragile che, dietro pretese di possesso, cela un profondo senso di inadeguatezza. [recensione completa]
Giorni infelici (di S. Scuccimarra, regia M. D’Amico)
“Né peggio né meglio, nessun cambiamento. Nessun dolore” nel rassicurante e solitario angolo di mondo che Donna si è ritagliata, dove non esistono estremi, se non giorni più o meno infelici, tutti uguali. Fino a quando, nel suo copione perfettamente cadenzato, non incappa la nuova vicina [recensione completa]
Una relazione per un’Accademia (di F. Kafka, regia T. Ragno)
Un microfono di fronte a un leggio e a un alto sgabello dotato di numerosi appigli per piedi e mani. Si attende l’arrivo dell’illustre ospite che esporrà la sua relazione di fronte alla platea. Stretta tra le dita la maniglia della sua ventiquattrore, schiena dritta, compare una scimmia in smoking e scarpe da ginnastica. [recensione completa]
Il giro di vite (regia di D. Livermore)
La vicenda parrebbe tratteggiare un’innocente storia di fantasmi con protagonista una giovane istitutrice, la quale acconsente di prendersi cura di due bambini, Miles e Flora. […] Dietro un’apparenza mite e immacolata, i bambini nascondono un segreto che apre una voragine sempre più profonda che li separa dall’istitutrice, la quale, impotente e isolata, assiste alla loro perdizione. [recensione completa]
Sabrina Fasanella
Bibidibodibiboo (Francesco Alberici)
Lo spettacolo vincitore del premio Ubu 2024 come miglior nuovo testo italiano si distingue per un’alta integrazione di elementi efficaci: dalla drammaturgia a scatola cinese, che affronta in modo tridimensionale e affatto retorico il tema del mobbing, all’alta consapevolezza del mezzo registico. Ne deriva un’opera completa, godibile, profonda; che con la semplicità dell’intelligenza teatrale utilizza i mezzi espressivi del contemporaneo per smascherarli, poggiando su una struttura drammaturgica solida e su prestazioni attoriali di alto livello. Uno spettacolo contemporaneo in senso ampio. [leggi la recensione di Graziano Graziani]
Kalergi! Il complotto dei complotti (Firmamento Collettivo)
Un lucido ed efficace gioco drammaturgico tra il metateatrale e il distopico, a firma di Luca D’arrigo e messo in scena dal giovane Firmamento Collettivo (con D’arrigo sul palco Carmelo Crisafulli, Martina Tinnirello e Giulia Triviero). Diversi piani di narrazione intersecati per restituire un quadro profondo e attualissimo, in cui rientrano teorie del complotto, legami d’amicizia e soprattutto un’importante riflessione sulla verità e sulla sua rappresentazione. [recensione dal festival Canile Drammatico]
Vorrei una voce (Tindaro Granata)
In un racconto di essenziale semplicità, Tindaro Granata condensa l’esperienza umana ed emotiva che ha condiviso con le detenute di massima sicurezza della Casa Circondariale di Messina. Attorno alla musica di Mina si schiudono le storie che Granata restituisce col filtro della propria generosità attoriale e umanità cristallina. L’arte come potente mezzo per l’incontro con l’altro e con se stessi. [recensione completa]
Andrea Gardenghi
Trilogia Cadela Força – Capitolo I La Sposa e Buonanotte Cenerentola (Carolina Bianchi)
Dopo il debutto al Festival d’Avignone la scorsa estate, Carolina Bianchi porta alla Triennale di Milano il primo capitolo di una trilogia lacerante, che si articola attorno al concetto di violenza. In esso, l’artista brasiliana decide di affrontare lo stupro negando il potere della catarsi, decide di reiterare il proprio smarrimento attraversando il trauma e abbandonandosi ad esso. Qual è il potere dell’arte nel riportare alla memoria le tracce di questo dolore? Quale quello del teatro nella sua rappresentazione? È da questi interrogativi che lo spettacolo prende avvio nella forma di una conferenza/performance dove Bianchi illustra con precisione i germi della sua lunga ricerca, i riferimenti letterari, iconografici, poetici e mette in evidenza l’ubiquità della violenza femminicida, innescando una crisi che investe i codici stessi del teatro. Un lavoro profondo che si rivela così un densissimo “esercizio di memoria inquietante”. [recensione completa]
Saigon (Caroline Guiela Nguyen)
Nel ricostruire con l’immaginazione la trama di una storia che in qualche modo le appartiene, Caroline Guiela Nguyen organizza sapientemente presenze e assenze degli attori sul palco del Piccolo Teatro di Milano, inchiodando lo spettatore alla visione, plasmandone i sentimenti di compassione e nostalgia, di solitudine e amarezza. La sua regia è, tuttavia, incredibilmente “pulita”: l’inquadratura fissa mantiene per tutta la durata dello spettacolo una funzione documentaria, registra con imparzialità l’esplosione della vita che fluisce, della vita che cambia, di quella che torna e di quella che migra, e ne mantiene una certa carica centripeta. Tutto accade dentro il ristorante, nella Saigon del 1956, nella Parigi del 1996. Anche i sentimenti restano intrappolati lì, in quella sospensione geografica e temporale, in una storia fatta di famiglia e radici, di lacrime e memoria. [recensione completa]
Hybridity – Standard – Chora (di CocoonDance Company)
Un mondo di creazione e dissolvenza, che parte dalla composizione coreografica per decostruire i principi stessi della forma. È quest’astrazione, prodotta con metodo e sperimentazione collettiva, la cifra portante degli acuti lavori dell’ensemble guidato da Rafaële Giovanola, fondatrice assieme al drammaturgo Rainald Endraß della compagnia nel 2000. Il risultato, presentato nelle sale del Teatro Elfo Puccini, non è tanto da ricercare nello spettacolo-oggetto, un lavoro finito e pre-confezionato da poter assaporare e ammirare con una certa distanza, bensì è da considerarsi nella sua possibilità creativa di farsi e ricostruirsi incessantemente, di presentarsi come un’opera senza drammaturgia apparente, un work in progress denso, ripetitivo a tal punto da divenire ipnotico e ossessivo, matrice al tempo stesso di un linguaggio altro, mutevole e sempre vivo. [recensione]
Silvia Maiuri
How about now (Hannes Langolf)
Nelle intenzioni del coreografo Hannes Langolf, in scena con Ed Mitchell nel ruolo del ragazzo, la relazione tra i due è inevitabile e funzionale a descrivere le dinamiche di potere tra uomini. Il personaggio da lui interpretato è un uomo schivo, pieno di dubbi e insicurezze sia sul proprio aspetto che sulle proprie scelte; crescendo ha perso fiducia in se stesso e nel prossimo, ora ha paura. In uno dei momenti più evocativi dello spettacolo dice di ricordare quanto gli piacesse, da giovane, tuffarsi in mare e quanto ora sia invece terrorizzato dal salto. L’altro, al contrario, sembra più spavaldo, sicuro di sè. La sua figura alta e l’atteggiamento duro danno l’idea di un giovane uomo determinato a viversi il presente. Con le sue domande insistenti tende a mettere all’angolo l’interlocutore in uno scontro fatto di parole e danza che, però, non sono mai in simbiosi: al contrario il gesto è generativo di senso, sottintende qualcos’altro, un significato sconosciuto che non passa attraverso il linguaggio. [recensione completa]
Sbucci (Gli Omini)
“Sbucci” non è un’indagine sull’uomo, né la sua caricatura; gli sbucci sono le prime ferite, quelle da cui ognuno di noi si è rialzato, chi piangendo, chi con fierezza, orgoglioso di portare addosso, su gomiti e ginocchia, i segni delle prime battaglie. Sono stati gli sbucci a dare l’incipit alla nostra strategia di sopravvivenza. […] Facendo un balzo all’indietro verso l’infanzia, proseguendo a ritroso fino ai primi atterraggi sui ginocchi, Gli Omini restituiscono un’immagine limpidissima del pensiero “bambino” che ci descrive – noi, tutte le generazioni precedenti – con disincanto, senza retorica. [recensione]
La Vegetariana (Daria Deflorian)
L’adattamento teatrale dà alla protagonista di Han Kang un volto, una figura, la possibilità di mostrarsi. Lei ci sembra quasi un’apparizione, l’incarnazione dei suoi sogni inquietanti e dei suoi desideri di morte che via via si fanno sempre più potenti, restituendoci delle immagini straordinarie. Nel senso letterale del termine potremmo dire che La vegetariana esce fuori dall’ordinario, è un racconto che si insinua e vaga nell’inconscio, penetra nelle viscere di un corpo, quello di Yeong-hye/Piseddu, esponendole alla luce. La sua storia è, in fondo, una storia di violenza domestica che inizia in età infantile e si ripete per tutto l’arco della sua vita in diverse forme, lasciando una profonda traccia. [recensione]
Valentina Vittoria Mancini
Gennareniello (Lino Musella)
Non è facile avere a che fare con Eduardo. Certo, non perché sia intoccabile: è solo che molto spesso non lo si vuole capire. È come per Napoli: pochissimi osservano dalla giusta angolazione, e ormai i danni si stanno pagando. Eppure Lino Musella è riuscito a compiere un’operazione inedita, forse inaspettata, per il nostro contemporaneo: ha dato una forma storica a De Filippo, e lo ha reso leggibile. Comprendere vuol dire anche poter manipolare con intelligenza, e quella terrazza, che non esiste più, che è lontanissima da qualunque idea pittata di indegna oleografia o vomitevole senso di “napoletanità”, ha accolto una storia famigliare tra le più classiche e l’ha fatta grande. [recensione]
Noccioline (Renato Carpentieri)
Niente della regia di Renato Carpentieri è memorabile in questa riproposizione eccessivamente filologica del testo di Paravidino: la pedante e disinfettata copia carbone dell’originale, il contesto festivaliero totalmente inadeguato, l’assenza di un pubblico sveglio, hanno spogliato Noccioline del suo valore sovversivo. I brillanti, seppur giovanissimi, attori in scena avrebbero avuto bisogno di una guida ben diversa. Pur tuttavia, Noccioline deve essere visto da un pubblico quanto più vasto possibile. Quello che noi definiamo male ha numerose categorie, ma nessuna di queste è la banalità: il male ha dei principi storici, segue delle regole economiche precise, e non è vero che chiunque vi potrebbe aderire. È giusto che si ritorni ad assumere una postura sovversiva nei confronti del male. Magari un giorno si smetterà di appellarlo “male” e lo si chiamerà col suo vero nome. Ci si augura che, a furia di vedere Noccioline, qualcun’altro si incazzi, lo rivitalizzi, gli ridia un senso, e lo scagli. [recensione]
Mare di ruggine. La favola dell’Ilva (Antimo Casertano)
C’è poco, pochissimo da dire, sul valore inestimabile del lavoro di Antimo Casertano. Con quanta maestria è riuscito a intrecciare il personale e lo storico: che intuizione intelligente, e giusta sia dal punto di vista estetico che etico, e profondamente legata a una forte tradizione narrativa, distillare il poetico nel reale affinché ciò che è vero diventi chiaro per tutti. È ormai troppo che le classi cosiddette subalterne non hanno lo spazio di autonomia di racconto e rappresentazione. Casertano concede con forza la dignità e il respiro a quell’autonomia. [recensione]
The Interrogation (Milo Rau)
Il ricordo dello spettacolo di Rau e Louis ha l’esaltazione irrefrenabile dell’innamoramento. Che piacere rivedere nella testa la giovane freschezza di quella sincerità così irruenta. Lo scrittore francese si narra come se fosse la protagonista di un romanzo della Ernaux o della Leduc, e il fulgore della sua sottile figura si staglia nel grigiore metallico di Hallencourt. La profondità della comprensione del proprio vissuto e del tempo e dello spazio che si è vissuto, lo studio accorto di cosa regola le relazioni tra gli individui, quali costruzioni sociali li muove, restituiscono un racconto di formazione tra i più belli. Quella comprensione non ha appiattito la vita con una sdolcinata compassione, ma l’ha risollevata per mezzo di una infaticabile tenerezza. [recensione]
Marianna Masselli
Opera in transizione. Anime pezzentelle dalla faccia sporca (Mimmo Borrelli)
A distanza di dieci anni e all’interno del contesto museale del Purgatorio ad Arco Mimmo Borrelli riadatta il suo Opera Pezzentella per i ragazzi del secondo anno della Factory del Bellini. Si ri-compone un complesso drammaturgico la cui potenza si afferma paritetica non tanto nella costruzione di versi, azioni e immagini, ma piuttosto nell’evoluzione di un’epica, di un immaginario e di un modus della messinscena che l’autore di Bacoli, anche regista e in scena insieme a loro, condivide con gli allievi, i quali, lontani da qualsivoglia trappola di metonimia interpretativa, lo com-patiscono nel senso etimologico (da latino cum-patere, soffrire insieme). [recensione completa]
Re Lear è morto a Mosca (César Brie)
Brie, in scena anche come interprete, ricostruisce (in una drammaturgia scritta insieme a Leonardo Ceccanti sulla base dei documenti recuperati da Antonio Attisani) la storia del Teatro Goset e degli artisti che lo hanno animato o attraversato in una dimensione che riesce, attraverso vicende accadute in Russia nella prima metà del Novecento, a farci guardare con un dolore sempiterno alle dinamiche censorie di regime, una riflessione che vale oggi come allora e che pure si offre come un quadro di concrezione poetica del Teatro, affresco vitale quantunque delicato, gentile e malinconico allo stesso tempo di danza, suono, parola, azione e segni.
Re Checchinella (Emma Dante)
Nel confrontarsi con il cunto seicentesco di Basile, Emma Dante restituisce così magia a quella fiaba nera, mettendo in scena una metamorfosi performativa con una complessità di sguardo e una sensibilità ironica che permette di accedere con il sorriso divertito a verità non dette, a realtà nascoste. [recensione completa di Andrea Gardenghi]
La grande magia (Gabriele Russo)
L’allestimento di Russo la restituisce attraverso una scelta registica che nella discrezione e nell’ortodossia del rispetto drammaturgico (ivi inteso in senso ampio e non meramente legato alla parola) non manca di voler apportare una chiave di lettura, la sua, che cerca la propria valenza in una dimensione quasi atemporale, che diviene contemporanea per un principio diacronico di eterno ritorno dell’uguale, valido per la storia quanto per l’approccio ai classici. [recensione completa]
Lucia Medri
La vie secrète des vieux (Mohamed El Khatib)
Nello spettacolo diretto da El Khatib, culmina il progetto cinematografico in una casa di riposo a Chambéry intitolato Le grand âge de l’amour: «mentre giravo per le case di cura infatti, incontrando queste persone, interrogandole sui loro desideri e sulla loro vita amorosa, ho preso coscienza della portata che queste semplici conversazioni avevano, di cosa significassero per loro». Chi ascolta queste storie comprende infatti quanto il desiderio, emancipatosi dal peso storico di convenzioni familiari, possa nutrire nuovamente le relazioni, le psicologie, la salute, le scelte di queste persone che, attraverso l’amore e il sesso, riaffermano il loro ruolo politico nella società. [recensione completa]
La morte ovvero il pranzo della domenica (Compagnia Dammacco)
Balivo è all’apparenza una signora anziana e parla da anziana. Il suo ruolo però è scisso: nel corpo della madre e nella voce della figlia che racconta il suo punto di vista sul pranzo a casa dei genitori ultranovantenni: l’arrivo, le portate, il dolce, la musica, il commiato. Scorre tutta una vita, i tendaggi diventano un paesaggio colorato che muta col variare dello spettro di luci e, mentre Balivo percorre quello spazio bidimensionale avanti e indietro, nella familiarità dei gesti si palesano i discorsi sulla morte dei genitori e i pensieri della figlia: è la consapevolezza di dover lasciare andare, è quella bambolina poggiata sul tavolino che l’anziana /figlia colpisce fino a far cadere. La platea singhiozza, per le risate ma anche per le lacrime che iniziano a scorrere discrete nel buio; non tutta ma una buona parte viene coinvolta con soave caducità in questa catarsi collettiva. [recensione completa]
Mum di M. Lloyd Malcolm (regia R. Di Maio)
La depressione post partum – tema che solo negli ultimi anni ha visto il diffondersi di una letteratura a riguardo, e ancora un tabù in molti contesti, tanto familiari che sociali – viene resa dalla regia attraverso una dimensione scenica costruita come fosse una matrioska – non è casuale il riferimento alla figura femminile – che ne racchiude al suo interno di altrettante: dalla casa di Nina, all’ospedale, alla casa della madre, al tribunale. Mum confonde i piani della realtà con quelli della finzione, non risparmia gli spettatori, ovvero la società indifferente al dolore, alla stanchezza, alla paura, e rappresenta i meccanismi mentali che imbrigliano non solo una madre, ma anche chi le sta accanto. (Lucia Medri) [recensione completa]
Quello che non c’è (Giulia Scotti)
Quando «quello che non c’è» appartiene al passato, e noi viviamo nel presente, è necessario cercare degli appigli narrativi per fare entrare quella storia lì nella vita di qui. L’autrice, attrice e fumettista Giulia Scotti si pone queste domande ed è alla ricerca di questo “raccordo” in Quello che non c’è, che già nella sua anteprima si poggia su una materia potente di senso, che proviene dall’autobiografia ma sin dalle prime battute viene “allontanata” dal sé per farsi intimità collettiva. Nebulosa e ancora fragile, la scrittura scenica si esprime però attraverso le proiezioni della nettezza bianco nera dei suoi fumetti: la definizione grafica, e simbolica, di spazi, oggetti, momenti, viene macchiata di un rosso acceso, conturbante. Coi disegni, l’autrice ci si relaziona, li aspetta apparire sullo sfondo, li guarda, li tocca, e con la sua voce, e quella dello zio registrata in voice over, ci entra in contatto. [recensione completa]
Pinocch-io (Lucia Guarino)
Un’indagine, che è anche un duello di scherma a cui alludono i costumi, sulla propria natura che parte dalla menzogna – prima di qualsiasi altra azione, la danzatrice indossa simbolicamente il lungo naso – per arrivare alla verità del corpo in un percorso enigmatico, malinconico, a tratti inquietante in cui la burattina biomeccanica si sfida a diventare se stessa. Un essere dai cuori di carta inchiodati al petto, che possono essere presi e sfogliati uno dopo l’altro, lentamente, con decisione; tante stille rossastre appartenenti a un’intera vita. [recensione completa]
Simone Nebbia
Il fuoco era la cura (Sotterraneo)
Sotterraneo torna a giocare con il tempo, indaga i rapporti di causa-effetto ponendo sotto esame il presente, quel fascio intricato di possibilità e impossibilità che si stringe attorno alle vite dei contemporanei. C’è una scena vuota e nera, al centro della quale emerge, come una sorta di totem, un proiettore verticale che attrae verso l’alto, dove ha luogo l’immaginazione, sembra un fuoco attorno a cui solo una storia – o la, storia – può essere narrata; cinque presenze si caricano il peso di uno spettacolo senza risparmiare nulla, capaci di diventare uomini-teatro al pari di come nel romanzo si parla di uomini-libro, cercano sul palco di far emergere tratti della vicenda, frammentata in singole scene che via via vengono discusse, a costituire elementi di un’indagine più profonda sulla società che ci avviamo a diventare, usano cioè il teatro come sonda per la contemporaneità, costruiscono un rituale con il solo intento di sovvertirlo, vanno avanti e indietro nel tempo e nel racconto creando così una distopia nella distopia. [recensione completa]
Never Young (Biancofango)
Quest’ultimo lavoro di Biancofango, Never young, seconda parte di un progetto dedicato alla figura/tema di Lolita, si insinua nella percezione di spettatori dapprima divertiti, poi sempre più coinvolti in un collettivo impianto d’accusa che fissa i punti di una decadenza oggi così limpida e feroce.
Schierati in orizzontale, gli attori e i tecnici dello spettacolo sul fondale attendono l’ingresso e l’avvio di un audio: un’intervista che Daria Bignardi ha realizzato di recente con Ambra Angiolini, negli anni Novanta ragazza prodigio e sogno generazionale come conduttrice del programma Non è la Rai, riconsiderando a posteriori quel periodo e l’identificazione, per la stampa e l’immaginario collettivo, con un “lolitismo” malizioso ma ritenuto innocente, quando la TV era ancora nello schermo e non direttamente nel salotto di chi la guarda. Durante l’intervista, alla conduttrice ormai donna è richiesto di leggere l’incipit del romanzo di Nabokov, scritto nel 1955, certo per smarcarla da quella identificazione ma, dato il meccanismo televisivo, allo stesso modo per certificarla ancora una volta. [recensione completa]
Miserella (Teatro dell’Argine)
Quando inizia la famosa “mezza età”? Questa domanda sibila tra le storie di ogni donna che si racconta, sotterranea emerge dalla crescente necessità di continuo allenamento o di una nuova alimentazione contro l’aumento di peso, dalla scelta di abiti adeguati alla diversa età, dai nodi alle mani o quella ruga o quel capello grigio, da tutto ciò che si trasforma senza dare il tempo di abituarsi. Micaela Casalboni dispone le attrici in una frontalità attraverso cui cercare fin da subito contatto con il pubblico, lasciando all’ironia e alla leggerezza di interpretare la sofferenza e lo smarrimento per ciò che fa diventare diversi da una mutazione ideale. Miserella è il nome di una pianta – molte ce ne sono in scena a veicolare queste parole in un divenire naturale – il “fiore di stecco” che porta in cima al gambo secco molti sorprendenti fiori. E le piante non sanno se non vita o morte, non hanno mezze età. [recensione completa]
I cuori battono nelle uova (Les Moustaches)
Tre future madri, tre diversi modi di vivere e far vivere la gravidanza. C’è una dolce donna che ha paura non ci sia vita nel suo ventre, c’è una donna energica che attende due gemelli e fatica a vedersi madre, c’è infine una donna che inizia a lottare con suo figlio, maschio che solo maschio accetta possa essere, fin da prima che nasca. Ma soprattutto c’è l’ignoto di un trauma da venire, magnifico e terribile, che emerge con estrema forza dal testo versificato, ma non lirico, di Les Moustaches. Grazie a una partitura fisica di grande impegno, lo spettacolo consegna tre luminose prove d’attrice e soprattutto pone in luce un tema molto urgente e talvolta rimosso dal dibattito contemporaneo, la narrazione stereotipata di una maternità che in contrario è ricca di strati complessi sul piano emotivo e psicologico, di una varietà di situazioni molto lontane dal candore, certo paradossale, in cui è consolatorio immaginare una gravidanza. [recensione completa]
Il rito (Alfonso Postiglione)
Una voce in lingua svedese, fuori campo, lascia inquadrare via via la scena sopraelevata a centro palco, una stanza d’ufficio dove si svolgerà presto un interrogatorio (o, vedremo, più di uno); dà la sensazione di essere una miniatura che fuoriesce da una valigetta enorme, aperta a favore di pubblico. Così inizia Il rito, tratto dall’omonimo film di Ingmar Bergman del 1969, realizzato per la TV svedese. Nella stanza il giudice si sta preparando ad accogliere tre attori, clown precisamente, per l’istruttoria a proposito di un numero che ha ricevuto una denuncia per oscenità; attorno alla scena è invece l’atonalità asettica del grigio in cui appaiono – nella musica misteriosa e tormentata – Thea, Sebastian e Hans, fasciati nella profondità dell’abito bianco. Il tema della censura dell’arte, che Bergman portava addirittura in TV da noi oggi ridotta a organo di sistema, attraversa l’intera piéce con profonda inquietudine e si rivela avvolgendo l’ambiguità della relazione tra i tre personaggi, uniti da una viscerale profondità diabolica e allo stesso tempo da una pungente fragilità terrena. [recensione completa]
Andrea Pocosgnich
Capitolo Due (Massimiliano Civica)
Ci voleva Massimiliano Civica, che con il comico spesso stringe relazioni fruttuose, – si pensi anche a Belve del 2018 – per farci tornare a riflettere su quello strano oggetto – mai ben identificato dalla cultura teatrale italiana – che è la commedia, ancora meno a fuoco quando si tratta di commedie contemporanee. […] C’è però un ingrediente segreto in questo spettacolo ed è tutto nella recitazione, nella compostezza degli interpreti, nella ricerca, di precisione, sulla parola che ha ogni volta la traiettoria della linea retta: il testo in questo modo è come se avesse una consistenza solida, tridimensionale, e con questa solidità apparisse di fronte agli attori e alle attrici. Non si perde così una virgola della straordinaria drammaturgia. [recensione completa]
Ilva Footballclub (Usine Baug e Fratelli Maniglio)
Il piano documentaristico si interseca con quello ispirato dal libro Ilva Football Club di Fulvio Colucci e Lorenzo D’Alò, così anche la cronologia dello spettacolo è una continua corsa avanti e indietro nel tempo e questo contribuisce a rendere tutto ancorato a un infinito presente, perché di fatto nulla progredisce, nulla migliora. Diveniamo spettatori di una partita immaginaria, la piccola squadra di dilettanti contro la grande compagine di serie A… [recensione completa]
Foresto (Babilonia Teatri)
Alla sinistra di Castellani, in mezzo al palco, protagonista della pièce, c’è Daniel Bongioanni, performer sordo che attraverso la lingua dei segni recita il testo (ne è anche traduttore) con una fisicità dirompente e una mimica, che con la sua verve grottesca, ha un potere magnetico per la platea. Sullo sfondo il monologo viene proiettato in italiano chiudendo così il trittico linguistico di un’opera che appare semplicissima per il pubblico celando però al contempo diversi livelli di complessità e sfumature. [recensione completa]
La vegetariana (Daria Deflorian)
Yeong-hye non mangia più la carne.
Così inizia il romanzo La vegetariana della scrittrice sud coreana Han Kang da cui Daria Deflorian, insieme alla sceneggiatrice Francesca Marciano, parte per elaborarne una parabola scenica. La vita annoiata e mediocre di Yeong-hye è descritta attraverso le voci dei personaggi che le gravitano intorno in tre parti letterarie, che qui si trasformano in tre atti a cui la regia dà per titolo nomi di colori: rosso, azzurro chiaro, verde. [leggi la recensione completa di Silvia Maiuri]
Rush (Mette Ingvartsen)
La coreografa danese ha voluto racchiudere vent’anni di carriera e dunque vent’anni di collaborazione con la performer in un solo di un’ora e mezza. È il corpo nudo di Saktin a farsi archivio, con la potenza però di far tornare al presente il passato: il rischio di un lavoro del genere è quello di rendere omaggio solo alla nostalgia, ai tempi che furono, quando eravamo giovani, performanti e abitavamo un mondo diverso e apparentemente più semplice; ma l’intuizione di Ingvartsen sta proprio nella necessità di trasformare il materiale evocato in qualcosa che abbia validità nel qui e ora, non solo nella memoria. Allora, di certo il corpo è un archivio, ma è anche una sorta di macchina del tempo che però non agisce su di noi ma sull’opera, ricreandola nel presente. [recensione completa]
Ilaria Rossini
Sottobosco (Chiara Bersani)
Il sottobosco è materia organica, i corpi sono spezzati («la mutilazione è un linguaggio» scriveva Lorrie Moore), il movimento può farsi così minuto e sottile (e lo sguardo così vigile e vergine nel percepirlo) da somigliare al fremito, la luce pulsa e trema riflessa sulle colonne del proscenio, i suoni e gli ultrasuoni, governati da Lemmo, si infittiscono fino al frastuono, per poi lentamente diradarsi e, di nuovo, fluidificarsi. Il corpo di Chiara Bersani rappresenta uno dei vertici del disegno scenico, ma un vertice sul quale lo sguardo non si impiglia troppo a lungo, un elemento inscritto in un quadro più largo, vivo e denso, entro il quale si smarrisce la nozione di conformità (e dunque anche quella di “eccentricità”) e gli argini della percezione si fanno labili, disponibili al dilagare. [recensione completa]
Sleep In The Car (Virgilio Sieni)
Vi è un sentore profondo di materialità, il presentimento perenne di una sorta di “effettività” che connota il pensiero coreografico, che offre all’astrazione della ricerca sul movimento (alle sue sublimazioni) il tracciato semplice delle consistenze terresti. Come scrive Deleuze desiderare significa «costruire un concatenamento, costruire una regione» ed è, infine, a una grazia analogica e, si direbbe, che l’immaginazione rinviene. La geografia è allusa nell’oggetto scenico (una vecchia cartina che viene dispiegata e consultata) e nella varietà di suoni che l’azione nello spazio aperto genera. È contenuta nelle premesse della performance (che vuole esplorare l’idea del sonno in auto, a varie latitudini e longitudini), ma anche nella nozione stessa di viaggio […] Come a dire che non esiste un sentire che non sia situato, e non esiste un movimento che non pretenda la disponibilità all’immanenza. [recensione completa]
Come tremano le cose riflesse nell’acqua (Liv Ferracchiati)
Se ci volasse sopra un gabbiano, da qui, si vedrebbe? C’è un gabbiano – čajka – precisamente Il gabbiano di Čechov, dietro e molto, molto dentro questo nuovo spettacolo di Liv Ferracchiati che ha debuttato in prima assoluta al Piccolo Teatro Studio di Milano. Come tremano le cose riflesse nell’acqua è un manuale di grande teatro europeo, un tributo alla dedizione verso l’arte come atto di profonda indagine interiore che riverbera appena in un tremolio, come succede alle cose quando si indagano nel riflesso, rischiando di dissolversi soltanto con un tocco, magari con uno sguardo troppo diretto: è fragile l’acqua in cui si specchia la vita degli esseri umani. (leggi la recensione di Simone Nebbia)
IGRA (Kor’sia)
C’è una qualità opalescente, nella visione (velata da una membrana in proscenio) e nel suono, alla quale si oppone il prodigio nitido dei corpi, la perfezione atletica e struggente del movimento, portato ai propri vertici, di precisione tecnica o di estaticità tribale. È proprio alla superficie estatica e muta, al mistero dell’apollineo (più profondo e sapienziale di quello del dionisiaco) che, infine, la partitura rinviene. Il lirismo di Eros appare senza dirompere, cristallizzato in un perimetro, esaminabile attraverso il lessico della zoologia: una voce fuori campo riconduce le gestualità degli interpreti – fluidissime, combinatorie – al sexual behaviour delle scimmie bonobo. La «nobile semplicità e quieta grandezza» neoclassica sorveglia il confine, totemica, in forma di scultura marmorea. L’enigma eterno, comune a ogni epoca, è quello dell’imitazione come trascendenza [recensione completa]
Viviana Raciti
Quanon Revolution (Evoè Teatro)
A ritroso da uno degli episodi più grandi legati a teorie cospirazioniste, l’attacco a Capitol Hill del 6 gennaio 2021, Riccardo Tabilio scrive una storia corale, QUANON REVOLUTION, che ha il respiro e il ritmo da serie hollywoodiana, con personaggi tagliati chirurgicamente: la soldatessa rientrata con PTSD ma anche un residuo e malcelato istinto di continuare a uccidere; il bravo ragazzo che deve fare i conti con il fantasma del fratello morto, padre single con figli perché la moglie lo ha lasciato; l’attorucolo con manie di grandezza e una realtà squallida da cui scappare. La regia di Silvio Peroni, rispecchia un linguaggio serrato e soprattutto rimanda a un senso di inadeguatezza, sconforto e impotenza che, miscelati a un generico desiderio di vendetta e riscatto, a ipotesi di verità taciute e necessità di trovare un colpevole anche dove non c’è, diventano il terreno fertile perché possano attecchire azioni pericolose. [recensione completa]
A solo in the spotlight (Vittorio Pagani)
Vittorio Pagani, con possanza, ironia e grazia, crea con A solo in the spotlight una danza che è figlia di una posizione intellettuale precisa, porta in scena un movimento sessualizzato e lo critica; chi dice che a essere oggetto di desiderio smodato siano soltanto i corpi femminili? Danza, inventa, si presta: fa di tutto perché possa essere preso. Il problema è quanto pesa questo “tutto”, fin dove spingersi pur di ottenere ciò che si desidera. E poi? Se bisogna essere sempre più performanti, catchy, aggressivi ma disposti a sottomettersi pur di stare dentro il sistema, a perdere le proprie idee cedendole al nome più forte, è quasi “scontato” mettere a tacere il proprio senso etico e civile. [recensione completa]
Bless this mess (Katerina Andreou)
Bless this mess: probabilmente, quel “mess” a cui fa riferimento il titolo della coreografia di Katerina Andreou, a cui potremmo attribuire significati di caos, pasticcio, disordine, e che a prima vista potrebbe anche descrivere quanto accade sulla scena, sembra più una provocazione, una sfida: casino, sì, ma benediciamolo perché vitale. Perché sottende in realtà a ritmi diversificati, che coinvolgono differentemente i quattro magnifici danzatori – tra cui la stessa coreografa greca, attualmente residente in Francia – su diversi piani fisici, scindendo parti anatomiche, variando il ritmo, l’oscillazione, l’intenzione di esecuzione di uno stesso gesto. In questa costruzione entropica, che parte in maniera più contenuta sotto moduli musicali reiterati e a cura sempre di Andreou, esplode nel corso dei 55 minuti di esecuzione per diventare una summa di energie mai paghe. [recensione completa]
Stefano Tomassini
Quest’anno vorrei segnalare le performance di danza che più mi hanno coinvolto, a partire però dagli interpreti: sia perché in questo momento in Italia vi sono danzatrici e danzatori di altissimo livello che lavorano trasversalmente in più formazioni, e sia perché spesso il loro lavoro rimane in ombra, troppo poco celebrato e riconosciuto, rispetto a quello più riconoscibile e rivendicativo dei coreografi e delle coreografe. Invece a volte sono proprio loro che andiamo a vedere, a cercare, a riconoscere, per desiderare tutto quell’immaginario che con la loro presenza, la loro bravura, la loro bellezza, sempre portano a sé. La prima è Alice Raffaelli, interprete/musa di Enzo Cosimi (Venere vs. Adone), e presenza decisiva nel lavoro di Francesco Marilungo (Stuporosa), nonché più recentemente di Elisa Sbaragli (Se domani alla NID), perché danzatrice capace di essere mille corpi e mille voci, indomata da una sprezzatura capace però di amicizia. E poi Filippo Domini, mirabile interprete solista del Fauno di Roberto Zappalà, interprete veloce e padrone dello spazio, in piena consapevolezza dei suoi mezzi, e capace di confondere i pensieri di chi guarda; così come Anna Forzutti (Trilogia dell’estasi) con le sue linee potenti e la bellezza del movimento generata forse chissà sempre dallo sguardo. Infine Andrea Dionisi, che avevo già visto in un turbinante assolo in Maquam di Michele Di Stefano, e poi l’ho ritrovato, fra soglie più quiete ma non meno perturbanti, in Redrum di Nanou, nonché incredibile presenza/assenza di corpo e di mente per Jacopo Jenna, in uno dei lavori più belli che abbiamo già alle spalle (Danse macabre!).
Mi pare di capire che manchi un capolavoro assoluto in grado di mettere d’accordo tutte le anime della redazione ma emergano diversi spettacoli espressivi di diverse sensibilità . Apprezzo molto lo spazio che realtà “collettive” hanno saputo conquistarsi nel panorama teatrale contemporaneo così come l’importanza ed il ruolo che le donne stanno rivestendo – a livello drammaturgico – con sempre maggiore forza. Grazie questo riassunto è molto, molto utile.