È appena terminato l’anno che ha segnato il ricorrere di un doppio anniversario: il quarantesimo della morte di Eduardo De Filippo e il settantesimo dall’inaugurazione del San Ferdinando. Il teatro da lui acquistato nel quartiere San Lorenzo nel primo dopoguerra è stato donato poi dal figlio Luca alla città di Napoli ed è gestito oggi dal Teatro di Napoli – Teatro Nazionale. Per dialogare al riguardo abbiamo sentito l’archivista e storica, per diverso tempo collaboratrice di Eduardo, Maria Procino. Intervista
Le brevi biografie poste in controcopertina sui libri dicono che Maria Procino è storica e archivista, che ha lavorato nello staff della compagnia Il Teatro di Eduardo e della Compagnia di Teatro di Luca De Filippo e che oggi è consulente storico artistica della Fondazione Eduardo De Filippo. Autrice di vari testi tra cui Eduardo dietro le quinte. Un capocomico-impresario attraverso cinquant’anni di storia, censura e sovvenzioni (Bulzoni, 2003), nel quale esamina il rapporto tormentato che Eduardo ebbe con le istituzioni locali e nazionali del suo tempo. O ancora: potremmo dire che ha firmato scritti raccolti in atti di giornate e di convegni, che ha svolto consulenza storica per Tavola tavola, chiodo chiodo… di Lino Musella, e che da poco ha co-curato la pubblicazione in volume del testo dello spettacolo, distribuito in allegato all’edizione napoletana de la Repubblica, arricchito da due saggi, quello scritto da lei intitolato Alla ricerca di Eduardo, uomo e artista, e l’altro E mo’ miettete a fa’ ‘o presepio n’ata vota (di Alessandro Toppi). Ma la verità è che Maria Procino è una delle persone che possono raccontare Eduardo intrecciando piano umano e professionale. Lo conobbe da adolescente dopo avergli scritto una lettera, ne frequentò la casa, divenne parte del suo gruppo di lavoro osservandone repliche e successi, sconfitte e sacrifici, e da lui e da Luca imparò rigore e rispetto per il lavoro proprio e per quello altrui. Occhi scuri, voce squillante, risata contagiosa, Maria riceve le nostre domande, prende un respiro e comincia un racconto in cui la precisione di una data trova ospitalità nel calore di un legame che il passare del tempo rafforza. È con lei che decidiamo di parlare del San Ferdinando, teatro fondato da un attore per gli attori, che negli anni è stato anche chiuso, serrato, in silenzio, colpito dal disinteresse amministrativo più che dalle pallonate dei ragazzi che giocano abitualmente in piazza, e che oggi è parte fondamentale del Teatro di Napoli -Teatro Nazionale, per dono che gli eredi di Eduardo hanno fatto alla città. Lo facciamo, per tutto quanto di cui sopra, al termine di un anno pieno di iniziative, appuntamenti, recuperi, condivisioni a celebrare il coincidere di due anniversari, il quarantesimo della morte di Eduardo e il settantesimo dell’inaugurazione del San Ferdinando – lui acquistò quel che ne restava nel 1948 da Salvatore Golia per sei milioni e ne spese trecentocinquanta per riuscire ad aprirlo, nel 1954. E poi, o forse prima ancora, lo facciamo perché abbiamo ritrovato nella memoria di quegli occhi, nel portato ricordevole di quella voce, nell’immediata empatia con quella risata, la concrezione inarrivabile e famigliare, spontanea e dotta, inesauribile e asciutta di pagine di letture, ore di riflessioni, visioni, chiacchierate al telefono o al tavolino di un bar, un ri-conoscimento spontaneo avvenuto senza il bisogno di dirci o dire noi troppe di quelle parole che, lo sappiamo, saranno poche sempre.
La vita per il teatro e il teatro della vita. Rispettivamente in che momenti era Eduardo quando decide di acquistare ciò che restava del San Ferdinando?
Siamo alla fine degli anni Quaranta: Eduardo stava vivendo un momento davvero straordinario sia dal punto di vista artistico che sul piano privato. Le sue opere – da Napoli milionaria! a Filumena Marturano, da Le bugie con le gambe lunghe a Le voci di dentro – stavano ottenendo un grande successo e richieste in tutto il mondo. A Lucio Ridenti, suo amico ed editore della rivista Il dramma, scriveva nel 1947: «Che succede, mio Dio? Tutti i giorni, da tutte le più belle parti del mondo, viene chiesto il mio repertorio: Napoli milionaria!, Fantasmi, Natale in casa Cupiello, Filumena Marturano: dalla Svezia e Norvegia, dalla Grecia, dalla Rumenia, dalla Francia e dall’Inghilterra, ora rischiamo di veder rappresentati in America due lavori miei in una sola volta. È troppo bello per esser vero». Certo, il suo matrimonio con Dorothy Pennington era in crisi, ma lei rimaneva un punto di riferimento importante: colta, intelligente e sensibile, li accomunava anche l’amore per gli animali. Nel 1946 conobbe una giovane attrice e se ne innamorò: Thea Prandi, che divenne la madre dei suoi figli, Luca, nato nel 1948, e Luisella, nata nel 1949. Il grande timore era invece per la salute di sua sorella Titina, che non stava bene e avrebbe poi abbandonato il teatro.
Nessuna impresa, piccola o enorme che sia, prescinde dal contesto storico-sociale in cui viene compiuta. Immaginiamo un gioco di matrioske tra il Paese, la città di Napoli e il quartiere. In quale contesto Eduardo decide di aprire il suo teatro?
Ne ho scritto in Eduardo dietro le quinte: erano anni non facili per l’Italia, c’era un grande entusiasmo perché davvero tutti dopo la guerra credevano che la società stesse cambiando e gli artisti in prima linea. Eduardo in teatro e Rossellini nel cinema avevano chiesto invece di riflettere, di elaborare, perché «non è finito niente». Come hanno ribadito vari studiosi, in quegli anni la politica alleata restava in apparenza neutrale, in realtà da un lato c’era un imponente sforzo propagandistico attraverso lo Psychological Warfare Branch per diffondere l’americanismo, dall’altro l’indicazione era di appoggiare un governo moderato. L’Italia, da paese agricolo, stava diventando terziario più che industriale. Il settore dello spettacolo veniva regolato da sovvenzioni, censura, commissioni; in questo clima ricostruire un teatro era una impresa titanica, basti pensare che il credito teatrale, che rientrava in quello fondiario, era stato trasferito tra i crediti speciali. Napoli usciva piegata dal conflitto, semidistrutta fisicamente e moralmente. Nel 1945 venne eletto un sindaco antifascista, Gennaro Fermariello, dopo di lui il monarchico Giuseppe Buonocore, poi sostituito da Domenico Moscati fino al 1952. Si ricostituivano le vecchie forze che avrebbero dato ossigeno agli speculatori, aprendo la porta allo scempio urbanistico narrato in maniera rigorosa da quel capolavoro che è Le mani sulla città, il film di Francesco Rosi.
La sua è stata, sia in al principio che dopo, una scelta politica. Di che tipo e quale la sua scaturigine?
Se “politica” si intende nel suo significato di πολιτικός ovvero il bene della comunità, tutta la vita di Eduardo è stata permeata da scelte politiche, ma non partitiche. Il San Ferdinando era un progetto ben preciso, come ha sottolineato poi anche Luca De Filippo: Eduardo voleva creare un teatro che fosse aperto a tutti. Sapeva bene che lo strumento-cultura poteva essere fondamentale per la crescita di una città e un teatro poteva essere un volano anche per lo sviluppo economico e sociale. Un esempio concreto lo aveva: nel 1947 a Milano era stato fondato il Piccolo.
Quanto e come l’identità artistica e l’idea di teatro di Eduardo ti sembra abbiano inciso nella ricostruzione del San Ferdinando, inteso come spazio in senso letterale, ma anche come dimensione poetica e di pensiero in cui il teatro succede? E come, al contrario, ti sembra che tale dimensione abbia inciso nell’evoluzione del suo teatro e della sua identità artistica?
Eduardo conosceva il teatro in tutte le sue sfaccettature, anche tecniche. Per i collaboratori era ’o masto e questo termine riporta al rapporto proprio delle botteghe medioevali tra discipulus e maestro ovvero colui che insegnava l’ars, che tramandava il sapere artigiano. Costruì un teatro moderno, all’avanguardia per quei tempi, e nel rispetto di attori, tecnici e pubblico. Uno degli scopi era quello di preservare una memoria storica (pensiamo alla facciata che recupera quella originale settecentesca). E voleva un luogo autenticamente culturale, che ospitasse tradizione e sperimentazione e che fosse un cuore pulsante: non a caso il San Ferdinando venne ricostruito in un quartiere ricco di storia e che ogni giorno cerca di affrancarsi dai problemi che vive.
È noto che acquisto e rimessa in attività del San Ferdinando non siano stati né semplici né poco gravosi, sia sul piano economico che logistico e amministrativo. Quali le principali difficoltà?
Eduardo non ebbe l’aiuto finanziario da nessuna istituzione. In un’intervista raccontò: «Feci la domanda al Banco di Napoli per ottenere un mutuo ipotecario. Ma me lo respinsero dicendo che il Banco di Napoli concede mutui ipotecari solo per opere di pubblica utilità. Il teatro non è utile al pubblico. Allora scrissi all’on. Andreotti, presso la Direzione del teatro: La prego onorevole, di informarsi se è vero che lei ed io siamo inutili. Se è così, che ci stiamo a fare? È meglio andarsene – E l’on. Andreotti? – S’informò. Il Banco di Napoli confermò. Allora dal teatro passai al cinema». Soltanto nel 1964 quando creò una società con Paolo Grassi, le istituzioni si fecero vive.
Che relazione c’è stata dunque con le istituzioni?
Negli anni Cinquanta poco costruttiva. Anche il progetto di creare una nuova Cinecittà a Napoli non riuscì ad attuarlo. Negli anni Ottanta accettò la carica di senatore – che pure gli veniva da Sandro Pertini, un presidente che stimava – soprattutto perché capì che poteva portare la voce dei ragazzi di Napoli in Parlamento.
E che dialogo col resto dell’universo teatrale? Parlo di artisti, altri spazi e realtà più o meno similari?
Molti lo appoggiarono: scrittori, attori, registi, giornalisti e tanti cittadini napoletani che lo invitarono a non arrendersi. Senza dimenticare ovviamente Giorgio Strehler e Paolo Grassi. Non a caso Eduardo riaprì il San Ferdinando con una società creata con Grassi, la Teatrale napoletana, che univa, in un ponte ideale, Piccolo e San Ferdinando, Milano e Napoli. Dopo la morte improvvisa di sua figlia Luisella e la scomparsa di Thea, ammalata da tempo, Eduardo aveva sciolto le compagnie Il teatro di Eduardo e La Scarpettiana e aveva chiuso il San Ferdinando. Si rifugiò sul suo isolotto di Isca anche per stare accanto a Luca che, in poco più di un anno, aveva perso sorella e mamma. Gli impegni e i debiti però non gli dettero tregua: tornò al lavoro con la registrazione delle commedie in tv e la tournée di grandissimo successo nell’Europa dell’Est e in Unione Sovietica. Nel 1964 creò la società con Paolo Grassi. Fortunatamente accanto aveva già quella che sarebbe diventata poi sua moglie, Isabella Quarantotti: una donna di grande forza, sensibilità e intelligenza.
Quale la concezione politica e artistica della gestione del teatro e della programmazione da parte di Eduardo?
Al San Ferdinando cercò di portare passato e presente con uno sguardo ai giovani. Quando nel 1958 gli offrirono la gestione del Teatro Stabile di Napoli (il primo a proporglielo era stato nel 1949 l’allora sindaco Moscati), Eduardo stilò una bozza di programma che presentò e dove chiedeva non solo cinque anni per lavorare, ma proponeva Majakovskij, Garcia Lorca, Ionesco intrecciati a Petito, Scarpetta, Viviani. Gli ostacoli furono il ritardo culturale e sociale che Napoli affrontava in quegli anni e l’assenza di una politica teatrale seria in città.
Cosa pensi fosse davvero il San Ferdinando per Eduardo?
Eduardo voleva creare scuole per attori, per tecnici per quadri amministrativi; stanze dove gli artisti potessero soggiornare, insomma un’impresa che creasse anche lavoro. Non ha mai voluto venderlo nemmeno nei momenti peggiori; non voleva realizzare un monumento a se stesso o alla sua identità artistica ma una polis, uno “Stato della cultura”.
Provando a fare un salto cronologico. Il 7 febbraio 2003 gli eredi di Eduardo hanno donato al Comune di Napoli il San Ferdinando. Alle istituzioni, insensibili al tempo, Luca ha risposto dunque con generosità, perseguendo il bene pubblico, un interesse diffuso e collettivo. Come maturò quella scelta?
Prima di tutto dobbiamo pensare a una città diversa da quella degli anni Cinquanta, più consapevole delle sue potenzialità nonostante i problemi. Napoletani più coscienti del loro diritto a essere considerati cittadini e del loro diritto alla cultura e istituzioni più lungimiranti e attente. In questo clima maturò in Luca – insieme alla sua compagna di vita e di palcoscenico, Carolina Rosi – la decisione di donare a Napoli il San Ferdinando che, con la sua storia, appartiene alla città. L’intento era di vederlo aperto a tutti e di compartecipare alla creazione di una scuola che accogliesse i giovani.
In un’intervista rilasciata a la Repubblica il 17 gennaio 2024, Tommaso De Filippo – figlio di Luca, nipote di Eduardo – definisce il San Ferdinando «la dimora della cultura teatrale napoletana» e, nel contempo, invita a essere attenti e rigorosi perché in futuro sia ancora così. Tu che percezione hai del San Ferdinando oggi, della sua funzione rispetto al panorama artistico contemporaneo e in rapporto al quartiere?
Ogni volta che mi affaccio alla strada che porta a quell’edificio lo vedo, imponente, quasi abbracciare il quartiere. Il San Ferdinando è parte del Teatro Stabile, oggi Nazionale: una tappa indispensabile per lo sviluppo della città. Insieme a tutti i teatri che vivono a Napoli offre cultura, conoscenza. I luoghi di cultura sono fondamentali per il processo di riqualificazione territoriale. Tutti coloro che lavorano nei teatri, come nei musei, nei cinema, nelle biblioteche, negli archivi, affrontano ogni giorno ostacoli per andare avanti, ma non si fermano e, a mio parere, rappresentano una parte indispensabile dell’identità cittadina.
Quali sono le attività principali svolte dalla Fondazione De Filippo e che relazione c’è col Teatro di Napoli, oggi Nazionale?
La Fondazione Eduardo De Filippo è nata nel 2008 per volere di Luca e grazie alla collaborazione con il Comune e poi con la Regione Campania. Alla morte di Luca fu Carolina ad assumerne la presidenza, poi passata nel 2018 a Tommaso De Filippo, che è molto attento al lascito culturale ed etico di Eduardo e di Luca. La missione della Fondazione è la salvaguardia del teatro tradizionale e lo sviluppo di quello contemporaneo, promuove inoltre numerose iniziative nelle scuole e in luoghi altri, come negli istituti di pena minorile ad esempio, e per le giovani e i giovani artisti.
È stato l’anno del quarantesimo anniversario della morte di Eduardo. Il teatro ha ospitato diverse iniziative. Quali, o quali le principali e con che ottica di fondo sono state stabilite e organizzate?
È stato un anno straordinario, che ha celebrato i quarant’anni dalla morte di Eduardo e i settant’anni dall’inaugurazione del San Ferdinando: la collaborazione con il Teatro Stabile si è rivelata importante e proficua. Lo scopo è stato non solo ricordare questi eventi, ma soprattutto cercare una chiave di lettura per i giovani, provando a raccontare Eduardo, il suo impegno etico e morale, il suo amore per le giovani generazioni, il suo rigore e la grande capacità di non arrendersi davanti a nessun ostacolo. Voglio ricordare la mostra preparata insieme a Serena Schioppa e grazie a tutto lo staff tecnico del teatro, allestita nel foyer che già ospita i costumi di tanti artisti nelle vetrine messe a punto da Giulio Baffi; voglio ricordare i numerosi spettacoli teatrali che sono stati messi in scena e la proiezione di un piccolo gioiello restaurato dalla Cineteca Nazionale del Centro Sperimentale di Cinematografia di Roma con la collaborazione della Fondazione Eduardo De Filippo: un film quasi inedito, una versione di Questi fantasmi del 1954 con la regia di Eduardo, che ne fu sceneggiatore insieme a Giuseppe Marotta e Mario Soldati, e con protagonisti Renato Rascel, Franca Valeri, Ugo D’Alessio, Nuccia Fumo, Nino Veglia, un giovanissimo Giuseppe Anatrelli, Erno Crisa e Maria Frau e coi costumi di Roberto Capucci. Il film fu prodotto dalla società che Eduardo aveva fondato per la cinematografia: la San Ferdinando Film.
Infine viene da chiederti, tra passato e presente: il tuo ricordo più intenso e, adesso, cosa significa per te rivarcare la soglia del San Ferdinando, riabitarne il foyer, ripercorrere i corridoi, risedere in platea?
In quel teatro sono cresciuta e l’emozione è sempre forte. Nella memoria restano soprattutto tre spazi: le scale che, avendo diciott’anni (ero curiosissima, facevo di tutto e indegnamente l’aiuto sarta), salivo e scendevo di corsa ogni volta che era necessario, o quando Eduardo mi chiamava per chiedermi di Evole, la sarta, o di Giorgio, il capomacchinista. Lo specchio, che era ed è ancora di fronte al camerino di Eduardo: gli attori prima di andare in scena si fermavano e in quei riflessi controllavano il costume, il trucco, i gesti. Per me era un momento magico: l’attore abbandonava la sua anima là dentro per farsi personaggio. Infine il sottopalco: a volte mi piaceva fermarmi alla luce fioca che lo illuminava, ascoltando le voci di chi stava recitando sul palcoscenico. Mi sembrava di non essere sola ma in compagnia degli artisti del passato. Poi arrivava Pina, la custode, e intravedendomi mi chiedeva: «Marì che fai lloco?». Le rispondevo ridendo: «Pina, avete fatto fuggire Federico Stella e Tina Pica». E lei scuotendo la testa: «Guagliò, ma fusse scema?».
Alessandro Toppi, Marianna Masselli