Intervista a Luana Gramegna, fondatrice e regista della compagnia Zaches teatro. Dall’ultimo lavoro, Arlecchino, ripercorriamo le tappe del percorso artistico della compagnia, tra sfide, ricerca continua sul corpo e i linguaggi del teatro visivo, prospettive e problematiche in Italia e all’estero.
Parlare con Luana Gramegna è come aprire un baule pieno di maschere, simboli, stoffa, musica, colla, legno e poesia. Sono gli elementi essenziali di un teatro artigianale che sfugge alle definizioni strette, per certi versi obbligate dal sistema teatrale italiano che, dai bandi ministeriali, ai criteri di programmazione fino alle categorie dei premi, conosce ancora una certa rigidità impenetrabile. Incontro Luana Gramegna telefonicamente alla fine di un’intensa tournée internazionale tra Francia e Spagna. I racconti di Zaches fanno pensare a quelli degli artisti girovaghi della Commedia Dell’Arte; non a caso, Gramegna parla di sé e della sua compagnia come di commedianti. Ci ritroviamo per tirare le fila di un percorso che si trova oggi a un punto di svolta, tra cerchi che si chiudono e nuovi cicli pronti ad aprirsi. Passato, presente e futuro uniti in un’unica prospettiva che oggi vede in Arlecchino, ovvero il teatro stesso, il punto di fuga.
Circa dieci anni fa debuttava Pinocchio, il primo capitolo della Trilogia Della Fiaba. Il vostro lavoro sulla maschera e gli archetipi si è approfondito e ampliato, diventando una cifra strutturata e riconoscibile nella Trilogia della Fiaba. Con Arlecchino, che ha debuttato a novembre al Teatro Metastasio, sembra chiudersi un cerchio tematico e stilistico per Zaches. Ѐ così?
Arlecchino non nasce da un riferimento letterario o una storia specifica, ma dalla volontà di interrogarsi su qualcosa che riguarda noi in questo momento. Volevamo continuare il nostro percorso e uscire anche da quello della Trilogia della Fiaba, portandoci però dietro tutta l’esperienza. Lavorare su Arlecchino traccia una continuità perché, come abbiamo fatto con Pinocchio, Cappuccetto Rosso e Cenerentola, andiamo a riscoprire le origini di un archetipo che tutt’oggi esiste ma di cui nessuno sa nulla, quel suo vestito è proprio scolorito, neanche i bambini ormai si vestono più da Arlecchino a carnevale. Eppure tutti conosciamo Arlecchino. Ma cosa conosciamo di Arlecchino? Cos’è Arlecchino? In quanto simbolo del teatro, Arlecchino ci interroga come artisti: cosa siamo? cosa facciamo? Qual è il nostro ruolo come commedianti in questa epoca e qual è l’attuale stato del teatro? Il teatro sta morendo, ma in questa morte noi vediamo la possibilità di una rinascita. Chiaramente quando si cerca di parlare attraverso simboli e archetipi le letture possibili sono molteplici: non vi risuona solo uno specifico stato d’arte, ma la nostra umanità. Il teatro, specchio di questa umanità, diventa un microcosmo: questa decadenza, questo lento consumarsi, degradarsi e morire ormai è in corso, non si può quasi più fare niente, non si torna indietro. Però forse è un’opportunità; l’umanità ha sempre trovato la maniera per sopravvivere. Non a caso i protagonisti sono dei Pulcinella, che è proprio la maschera della Commedia dell’arte che ha come motto quello dell’ «Ubi fracassorium, ibi fuggitorium»: dove c’è una catastrofe, c’è una via di fuga.
Il vostro Arlecchino porta con sé una dedica particolare, quella al maestro Eugenio Allegri. Qual è la genesi del lavoro?
Nel 2017 abbiamo incontrato Eugenio Allegri, l’ex direttore artistico del Teatro Fonderia Leopolda di Follonica che ci invitò a collaborare, a presentare dei nostri lavori e a sviluppare dei progetti per e con la comunità di Follonica. Con lui è stato amore a prima vista, un’intesa, artistica e umana, profondissima. Insieme avevamo costruito l’idea di portare il teatro nel Carnevale di Follonica, far sì che il teatro andasse per strada portando con sé tutta la sua potenza. Il carro del re Arlecchino, quello che tradizionalmente apre il carnevale, avrebbe dovuto inaugurare la festa: il covid però ha interrotto il progetto e successivamente Eugenio è venuto a mancare. Davvero poco tempo prima che succedesse, Eugenio aveva visto la nostra Cenerentola. In quell’occasione mi scrisse un’email per dirmi che era rimasto molto colpito dal lavoro e che avrebbe voluto fare qualcosa con noi. Gli sarebbe piaciuto riprendere un canovaccio che scrisse negli anni ‘90 e che non è mai andato in scena, accostandolo alla Vita del Signor Molière di Bulgakov: in una Venezia distrutta, dove la peste imperversa e tutto attorno c’è la morte, un teatro va a fuoco. La compagnia cerca di capire come risollevare le sorti di questo teatro, come farlo rinascere e ricorre a Molière, che come un deus ex machina avrebbe trovato la soluzione. Eugenio ci scrisse che avrebbe voluto che questo Molière fosse «una creatura vostra, ma avremo modo di parlarne». Purtroppo non è stato così, immagino che la sua idea di creatura avesse a che fare con un pupazzo o una marionetta. Quando lui è venuto a mancare, abbiamo realizzato in teatro quella mascherata barocca progettata per il carnevale, coinvolgendo 30 allieve di una scuola di danza di Follonica tra i 15 e i 20 anni in una performance sulla figura di Arlecchino che partiva proprio dalla sua maschera, esposta come un reperto in un museo, per andare scoprire cosa ci fosse sotto quella maschera. Quando in seguito abbiamo poi deciso di portare avanti quel percorso, siamo andati a riprendere le parole della email di Eugenio: l’immagine che lui ci aveva dato, questo teatro distrutto, la morte che incombe, un deus ex machina che arriva a salvarci, tutto era talmente forte che da lì abbiamo iniziato a costruire una nostra idea, tutta personale, sperando che in qualche modo lui possa apprezzare lo sforzo, ovunque sia. Il nostro deus ex machina, il nostro Molière, è Arlecchino. La nostra non è una scelta nostalgica: credo si debba avere un atteggiamento integrativo e non sostitutivo nei confronti del passato. Arlecchino è per noi simbolo di un teatro genuino, che abbraccia tutte le classi sociali, un teatro vivo, pieno di vita. C’è anche l’idea di una ciclicità, come nel carnevale, dove si dà fuoco al Re Carnevale precedente perché il nuovo possa prendere spazio. È un’idea di rinascita, non una visione catastrofica in cui tutto finisce, ma un inno alla speranza. È difficile dirlo oggi, con tutto quello che sta accadendo nel mondo, però ci credo fermamente, il nostro lavoro è mosso da questa speranza.
Questa ciclicità riguarda anche il vostro percorso artistico e di compagnia. Tutta la Trilogia della Fiaba è ancora in repertorio, in tournée in Italia come all’estero. Cosa verrà dopo?
Quando abbiamo debuttato con Pinocchio, la prima tappa di questo lungo percorso rivolto anche ad un pubblico di nuove generazioni, venivamo dai due progetti della Trilogia della Visione, che ora abbiamo deciso di riprendere. A novembre abbiamo presentato un primo studio di Lost in Time, la terza tappa della Trilogia della Visione che era rimasta incompleta: tutto il progetto indaga l’atto del vedere come forma articolata di percezione. Il primo lavoro era dedicato alle pitture nere di Goya, il secondo ai manga di Hokusai e questo terzo affonderà nelle pitture di Francis Bacon. Si tratta di un’indagine che mette in relazione l’arte visiva e l’arte performativa, attraverso la danza contemporanea e gli strumenti dell’immagine e della visione propri del teatro di figura, che sta all’origine di tutta la nostra ricerca. Al Wonderland Festival di Brescia abbiamo presentato 15 minuti di questo primo studio soprattutto a operatori esteri, perché siamo alla ricerca di produttori che vogliano supportarci nel percorso di creazione. Nel frattempo stiamo portando avanti l’alta formazione con le masterclass che abbiamo presentato quest’anno, di cui vado molto fiera. Abbiamo coinvolto artisti e maestri internazionali, da gennaio ad aprile avremo Yi-Chun Liu dei Peeping Tom, la compagnia Zero En conducta di Barcellona e Duda Paiva che è un maestro della marionetta ibrida: tutta la proposta riguarda movimento e figura, un lavoro molto forte sul corpo legato alla manipolazione. Sono proposte di formazione che in qualche modo danno la possibilità di approfondire linguaggi e tecniche specifiche di una certa visione artistica, fondamentali anche per noi, perché partecipiamo a queste formazioni noi stessi, è un’occasione di crescita pazzesca.
Dopo la lunga esperienza con la fiaba tornate dunque a una ricerca lontana dal teatro per l’infanzia. Cercare produzione, contatti e distribuzione all’estero ha a che fare con il fatto che in Italia il teatro di figura è ancora strettamente legato all’idea di teatro per le nuove generazioni?
In parte è così. Il teatro di figura in Italia viene visto come un teatro che si rivolge esclusivamente ad un pubblico dell’infanzia. Con la Trilogia della Fiaba abbiamo cercato dal di dentro a scardinare un po’ questa cosa. Il nostro obiettivo è di lavorare sul pubblico, costruendo drammaturgie su più livelli per cui poi, in base all’età, alla sensibilità, alla formazione, all’educazione, ognuno riuscirà a leggerle. Tutto il pubblico potrà essere coinvolto in primis emotivamente e poi anche intellettualmente. Per noi deve essere un’esperienza collettiva: la cosa bellissima che accade, soprattutto nelle pomeridiane, è quando genitori e figli insieme riescono a fare un’esperienza in comune, ognuno a suo modo.
Perché in questi dieci anni questa visione del teatro di figura in Italia non è cambiata?
Perché non si supera lo scoglio della programmazione. Il teatro di figura all’estero è visto diversamente, i lavori che vengono selezionati sono lavori per un pubblico di adulti, però con una forte connotazione di teatro visuale. Non c’è questa barriera. Qui da noi qualcosa sta accadendo adesso, anche se è difficile raccontarlo perché non si accompagna ad una narrazione. Le direzioni artistiche dei teatri navigano un po’ a vista, si lasciano aperte più porte perché stanno forse fiutando questo cambiamento. Per esempio i nostri spettacoli alcuni operatori li hanno programmati anche in serale. è successo per esempio con il nostro Arlecchino. Abbiamo fatto un esperimento insieme al teatro Metastasio, che è anche il nostro coproduttore: abbiamo aperto la stagione di Met Ragazzi, ma debuttando in serale, in un contenitore sperimentale in cui sono presenti spettacoli che fanno parte della stagione ragazzi, ma che secondo noi possono avere anche un pubblico diverso. Un modo per dire che la programmazione per ragazzi si può fruire anche di sera e soprattutto insieme a una comunità di spettatori, non solo di altri ragazzi. Il grosso problema è proprio l’abitudine, perché in Italia siamo abituati ad andare a teatro separati per categorie di spettatori. In Germania o in Russia non è sempre così, non c’è questa distinzione tra repliche per ragazzi e repliche per adulti.
Questa separazione netta tra categorie si riscontra anche in ambito produttivo: la vostra ricerca, fondata sulla contaminazione tra i linguaggi, sfugge alle etichette di genere e dunque alle voci di finanziamento. Come gestite questi aspetti?
Questo è un altro motivo per il quale ci rivolgiamo a interlocutori principalmente stranieri. Attualmente siamo finanziati dal ministero come compagnia di produzione di teatro di figura, quindi rientriamo nella categoria teatro. Lost in Time, l’ultimo progetto che stiamo producendo, non lo possiamo sostenere da soli, perché è un lavoro che, se lo promuovessimo come teatro di figura, non sapremmo dove distribuirlo. Dove va? Non può essere proposto a un pubblico molto giovane, perché affronta tematiche non adatte all’infanzia. Un’altra opzione sarebbe il circuito danza, ma in quel caso dovremmo fare borderò come danza e non li potremmo rendicontare per il ministero. Questo vorrebbe dire avere almeno un altro lavoro che ci garantisca la possibilità di rispondere ai parametri ministeriali, per non perdere il finanziamento. Dunque a livello produttivo non siamo liberi. Dobbiamo continuamente cercare il minor compromesso possibile per non snaturarci, per riuscire comunque a portare avanti la nostra ricerca, ma rimanendo dentro ai parametri. Con l’estero abbiamo più chance, siamo più liberi. A prescindere da questo, noi abbiamo sempre guardato all’estero, non siamo mai rimasti solo e esclusivamente legati al territorio nazionale. La nostra è una forma di teatro che è universale, quindi vuole rivolgersi ad un pubblico universale senza barriere linguistiche, senza barriere culturali.
Zaches è un gruppo solido e stabile, probabilmente perché a monte c’è una scelta importante di riconoscimento reciproco e di incastro forte. Quanto è importante il gruppo nel vostro lavoro? Quali sono le sfide per tenerlo in piedi così a lungo?
Il gruppo per me è necessario. Io credo tanto nel gruppo perché mi sento definita nel momento in cui entro in dialogo, è imprescindibile per capire quello che ho in testa. Dal punto di vista della creazione ho il privilegio di lavorare con gli stessi artisti da dieci anni, parliamo la stessa lingua, attingiamo allo stesso universo immaginifico: Francesco Givone (scenografo, mascheraio e light designer della compagnia, ndr), Stefano Ciardi (compositore, musicista, sound designer, ndr), Enrica Zampetti (performer, formatrice e project manager, ndr), Gianluca Gabriele (performer, musicista, formatore, ndr) e Amalia Ruocco, performer che fa parte di tutta la trilogia ed è anche nel cast di Arlecchino. La nostra conformazione di gruppo si rispecchia anche nel nostro lavoro artistico, per come è orchestrato. Ognuno ha il suo ruolo, la sua specificità cui portiamo rispetto, la riconosciamo, ci studiamo e ascoltiamo. Zaches funziona bene in squadra e Zaches siamo tutti noi, ognuno con quello che deve fare. In un mondo in cui prevale sempre più una dimensione individualista, per me è un valore poter fare affidamento alla squadra. Non è facile perché devi far fronte anche a tanti problemi, alle esigenze di tutti, capire qual è la giusta misura, dove finisce la sfera professionale, dove inizia la sfera personale che inevitabilmente c’è… Il nostro lavoro è permeato di vita, della nostra in primis.
Di recente, durante una tournée internazionale, Cenerentola ha vinto il premio come miglior spettacolo al Festival Titirijai di Tolosa, in Spagna. Cosa significa per voi confrontarsi con platee estere?
Siamo stati molto felici del premio. Il Festival Titirijai ha 40 anni di storia, è curato dal Topic, un centro culturale prezioso, vero e proprio museo della marionetta con pezzi unici. Lì abbiamo visto spettacoli bellissimi e incontrato artisti e operatori di tutto il mondo. Grazie a un incontro fatto proprio lì stiamo organizzando una tournée anche in Giappone, al Puk Puppet Theatre di Tokyo, uno storico teatro delle marionette. In Italia ci siamo sempre sentiti un po’ come degli outsider, molto diversi rispetto a tanti altri. Ora come ora sento che comunque ha avuto un senso, stiamo tracciando un nostro percorso che sta portando anche dei riconoscimenti. Per esempio il premio Hystrio Corpo A Corpo 2023: ne siamo stati molto felici perché la contaminazione, la sperimentazione di diversi linguaggi artistici è proprio il nostro. Certo, non credo che vinceremo mai un Ubu, intanto perché non facciamo teatro adulti. Come fai a vincere un Ubu se fai teatro ragazzi? Poi magari per il tipo di lavoro che facciamo non abbiamo ancora raggiunto la maturità drammaturgica necessaria, chissà… So che siamo stati visti un po’ come snob, perché siamo profondamente timidi, non facciamo molte public relation. Il fatto è che molto spesso le public relation sei costretto a farle dentro alla nicchia di appartenenza, per rinfrescare la tua presenza all’interno di quella nicchia. A me è sempre stata molto stretta questa cosa. C’è ad esempio tutta la nostra parte artigianale che è un valore che non vogliamo perdere, forse però è anche quello che fino ad ora magari ci ha definiti come poco contemporanei: se al contemporaneo associamo le nuove tecnologie, quello che facciamo noi, fatto di polvere, di legno, di carta, sembra qualcosa che appartiene al passato. Invece vogliamo battere su questo, perché secondo noi la manualità oggi assume un valore ancora più importante che vogliamo valorizzare, con progetti come l’Atelier di Scenografia Zaches, che per ora non è ancora strutturato ma vogliamo presto che lo sia.
Sabrina Fasanella