| Cordelia | gennaio 2025
Tra le tre figlie di Re Lear, Cordelia, è quella sincera. Cordelia ama al di là del tornaconto personale. Gli occhi di Cordelia appaiono meno riverenti di altri, ma sono giusti. Cordelia dice la verità, sempre.
Cordelia è la rubrica delle recensioni di Teatro e Critica. Articoli da diverse città, teatri, festival, eventi e progetti. Ogni recensione è anche autonoma, con una propria pagina e un link nel titolo. Cordelia di gennaio 2025 è online da oggi, seguila anche nei prossimi giorni, troverai altre recensioni.
#ROMA
HO RAPITO PAOLO MIELI (di Diego Frisina)
Il teatro d’autore ha difficoltà ad immergersi nella realtà dei personaggi e della cronaca contemporanea, il racconto teatrale ha bisogno di una serie di filtri, temporali, poetici e artistici in generale per potersi accostare a qualcosa che trova posto nei giornali o nelle trasmissioni televisive. Storicamente il palcoscenico è stato anche il luogo della satira, oggi però a parte qualche tentativo della stand-up comedy la satira sembra essere stata inglobata nei linguaggi comici dei social tra meme e citazioni televisive. Interessantissimo dunque questo tentativo più che riuscito di Diego Frisina, diretto insieme a Mario Pizzuti (lo spazio di Torpignattara figura anche come produttore dimostrando quanto un luogo indipendente possa fungere da incubatore): Ho rapito Paolo Mieli, racconto apparentemente strampalato (già il titolo dice molto dell’assurdità radicale dell’ autore) in cui lo stesso Frisina, sul palco con ottime dote da attore, è il protagonista di una vera epopea morettiana (per l’ironica analisi politica), e nella quale alcuni protagonisti del mondo mediatico-intellettuale devono vedersela con guerre e politici senza scrupoli come in un fumetto che potrebbe ricordare le scorribande di Zerocalcare. Tutto parte da un invito nel famoso programma di Lilli Gruber, Otto e Mezzo, solo che invece della puntata in cui Frisina avrebbe dovuto parlare delle ragioni del suo mestiere di attore gliene tocca una in cui viene invitato a commentare un dibattito sulla guerra. Qui nascono gli interrogativi: come può oggi qualcuno che si definisce pacifista impegnarsi attivamente per la causa? La risposta sta in un geniale ribaltamento comico, la costituzione di un gruppo armato pacifista, con tanto di bandiera arcobaleno sulla quale campeggia un Kalašnikov. Il racconto prenderà sempre di più svolte surreali, come appunto il rapimento del famoso giornalista, e in un paio di occasioni sarà supportato dalla proiezione di suggestive illustrazioni. Ho rapito Paolo Mieli è una bellissima e coraggiosa sorpresa, si spera in tante altre repliche. (Andrea Pocosgnich)
Visto al Teatro fortezza Est. Crediti: di e con DIEGO FRISINA regia di MARIO PIZZUTI e DIEGO FRISINA sound design ALLESSANDO SCORTA e GIANLUCA FRADDOSIO animazioni MARINA ANGELUCCI co-prodotto da FORTEZZA EST
RADIO ARGO (regia Peppino Mazzotta)
Avete mai avuto voglia di riprendere un abito dall’armadio che non indossate da molti anni, solo per vedere se vi sta ancora bene? Deve essere accaduta qualcosa del genere a Peppino Mazzotta che, sulla scena con Radio Argo di Igor Esposito già tredici anni fa, decide oggi di tornare al Teatro India in questa riscrittura dell’Orestea per voce sola, ma con un habitat sonoro maestoso (da cui il suffisso suite) curato da Massimo Cordovani, autore ed esecutore delle musiche (tastiere, synth, handpan, chitarra elettrica, glockenspiel), sulla spoglia scena insieme a Mario Di Bonito (batteria, xilofono). Un uomo teso come un fusto che dal suolo si erge verso l’alto, nello spazio che si direbbe occupato proprio dagli umani, tra la terra dove poggiano le loro azioni e il cielo dove solo possono gli dei. Ma nell’antica Grecia, gli uni e gli altri potevano forse concorrere unisoni, le scelte degli umani dagli dei determinate, le ire di questi ultimi confluite nei destini del mondo terrestre. Le voci, in una sola, che Mazzotta inarca verso l’ascolto di una platea più ampia di quella solo teatrale, sono quelle dei protagonisti dell’opera di Eschilo, ma intrecciate in confessioni che giungono come arringhe oltre le scelte compiute, o subite: Ifigenia bambina va incontro a un tradimento che si chiamerà sacrificio, Agamennone reo e re amato e al contempo inviso ai propri sudditi, Clitennestra moglie che non sopisce la vendetta, Egisto usurpatore di trono, Cassandra uccisa ed esule due volte, la cui memoria trascina l’onta da Troia fino in Grecia, infine Oreste che attende, compie per sé ed Elettra un destino che da sempre conosce, agisce sia pur agito dagli eventi cui mai potrebbe sottrarsi. Ognuno di essi, nell’ambiente che la musica edifica attorno alla vicenda e soprattutto nella scrittura preziosa, vibrante e anche tenera di Esposito, esprime i meriti e le bassezze, le colpe e le pene cui la giustizia divina li chiama, raccogliendo una domanda terribilmente contemporanea: che ne è, dopo, della carneficina? Ne resta memoria? Oppure il sangue, nel tempo, attenua l’urgenza del proprio colore? (Simone Nebbia)
Visto al Teatro India. Crediti: di Igor Esposito; con Peppino Mazzotta; musiche originali di Massimo Cordovani eseguite dal vivo con Mario Di Bonito; regia di Peppino Mazzotta; post produzione live dei suoni a cura di Andrea Ciacchini; responsabile tecnico Jacopo Andrea Caruso; Produzione Teatro Rossosimona
#MILANO
AMADEUS (Ferdinando Bruni e Francesco Frongia)
Salieri. Di spalle alla platea e rivolto verso la propria storia, riverso al passato come l’Angelus Novus di Paul Klee narrato da Walter Benjamin. Salieri il compositore glorificato da Dio, almeno finché Dio non si accorse che la musica aveva un altro nome: Wolfgang Mozart, detto Amadeus. È questo il titolo dell’opera di Peter Shaffer, al cinema per l’omonimo film di Milos Forman, in prima nazionale sul palco del Teatro Elfo Puccini per mano di Ferdinando Bruni e Francesco Frongia, con i sontuosi costumi di Antonio Marras. Salieri (lo stesso magnetico Bruni) ormai vecchio e cadente – forse pentito? – ripercorre a ritroso l’itinerario che va dall’incontro con il giovane Mozart (sfrenato e pure incisivo Daniele Fedeli), nella Vienna di fine Settecento, alla morsa stringente che lo porterà alla depravazione del genio, prima, e poi alla morte, del corpo e non dell’arte. Tra gli stucchi della dimora dell’imperatore Giuseppe II (Umberto Petranca che ne interpreta una divertente alterazione), Salieri e Mozart si trovano come rappresentanti di uno spartiacque decisivo: il vecchio compositore di tragedie epiche che esaltano un passato forse ormai tronfio e cadente, il giovane che possiede il tocco dell’arte e sembra giunto per rompere con tutta la musica precedente, guardando al classico e al contemporaneo con occhi nuovi, pronto a raccogliere il testimone per gettarlo in un pozzo; nel sogno musicale di Mozart è il mondo intero che si apre a lui con evidenza vibrante e, infine, schiacciante, le sue opere destano scandalo perché vere, prive di affettazione, definitivamente moderne. Bruni e Frongia, scegliendo una messa in scena classica, raffinata e solo lievemente ampollosa, compongono un labirinto entro cui Salieri – nel film e nell’immaginario erroneamente responsabile della morte del giovane – prepara il proprio particolare veleno, ossia portare Mozart al disfacimento, trascinare il suo genio a specchiarsi in un mortale confronto con la propria ombra. Ma la storia, nel quadro di Klee e in questa vicenda, osservata alle spalle ha il corpo rivolto al futuro, il tempo, ogni giorno, rinnova il mondo, ogni ritmo che batte un cuore vivo glorifica Mozart e dimentica Salieri. (Simone Nebbia)
Visto a Teatro Elfo Puccini. Crediti: di Peter Shaffer; uno spettacolo di Ferdinando Bruni e Francesco Frongia; costumi di Antonio Marras; con Ferdinando Bruni: Antonio Salieri; Daniele Fedeli: Wolfgang Amadeus Mozart; Valeria Andreanò: Costanze Weber, moglie di Mozart; Riccardo Buffonini: Venticello, procuratore di informazioni e pettegolezzi; Matteo de Mojana: Barone Gotrfried Van Swieten, prefetto della Biblioteca Imperiale; Alessandro Lussiana: Venticello, procuratore di informazioni e pettegolezzi; Ginestra Paladino: Contessa Johanna Kilian Von Strack / Katharina Cavalieri, cantante; Umberto Petranca: Giuseppe II, Imperatore d'Austria; Luca Toracca: Conte Franz Orsini-Rosenberg, direttore dell'Opera Imperiale; luci Michele Ceglia; suono Gianfranco Turco.
SCENE DA UN MATRIMONIO (di I. Bergman, regia R. T. Vogel)
Partire da uno dei capolavori di Ingmar Bergman non è mai un compito facile. Il rischio di creare un feticcio è alto, come quello di appiattire l’acutissima l’introspezione psicologica che da sempre ha caratterizzato le opere del noto regista. Partire da Ingmar Bergman con due attori come Sara Lazzaro e Fausto Cabra richiede uno sforzo registico anche maggiore: la capacità di integrare in scena due spiriti camaleontici e dalla forza comunicativa prorompente, di far sì che entrino nei personaggi senza fagocitare bulimicamente la trama di cui sono protagonisti e di far respirare il teatro in un’opera cinematografica di cinquant’anni fa è tutta del regista Raphael Tobia Vogel, che già nei suoi lavori precedenti aveva dimostrato di aver consapevolezza nel gestire l’intricato complesso dei sistemi relazionali, delle dinamiche di coppia. Vogel collabora con Alessandro D’Alatri per l’adattamento teatrale e Nicolas Bovey per la realizzazione della scenografia – che si rivela fredda, nordica per ispirazione nei suoi toni grigi, asfittici e di una linearità disarmante – mostrandosi regista fedele all’originale ma anche generoso nelle scelte attoriali. Sara Lazzaro è Marianna, una donna “pre-impostata”, che non sa definirsi se non in rapporto alla sua funzione o ruolo sociale. Madre, moglie, figlia, il suo disorientamento esistenziale è apatico e la sua tonalità vocale sempre tendente verso l’alto, come se si aprisse costantemente al dubbio. Fausto Cabra è il marito Giovanni, un uomo meschino e spesso ubriaco che le è infedele, e che dimostra così, attraverso il tradimento, l’incapacità a comunicare l’insofferenza per la coppia, logorata dalle abitudini vuote e dalla falsa apparenza. L’illusione di una famiglia felice. Nell’allontanamento dal nucleo famigliare, Giovanni perde se stesso ma pone le basi per il riscatto di entrambi, la separazione non è più solo cesura ma motivo di ricerca interiore, la possibilità ultima di fuoriuscire dal proprio rigido incasellamento. Si ritrovano, alla fine di tutto, e si confessano come chi ha capito d’essere realmente cambiato. “Alla fine – ammettono – siamo riusciti a diventare umani”. (Andrea Gardenghi)
Visto al Teatro Franco Parenti. Crediti: di INGMAR BERGMAN, traduzione italiana Piero Monaci, adattamento teatrale Alessandro D’Alatri, regia Raphael Tobia Vogel, con Fausto Cabra e Sara Lazzaro, scene Nicolas Bovey, luci Oscar Frosio, musiche Matteo Ceccarini, costumi Nicoletta Ceccolini, contenuti e montaggio video Luca Condorelli, produzione Teatro Franco Parenti
#PALERMO
THE ANGRY MAN (Regia Luigi Maria Rausa, Michele Mariniello)
Resuscitare i morti. Un'attività sfiancante, di cui è lecito chiedersi la ragione. Soprattutto se necessita tanto dispendio, tanta rabbia. È proprio questo il sentimento che The Angry Man, di Michele Mariniello, regia di Luigi Maria Rausa e dell'autore, sembra volere rievocare insieme alla vicenda di Jimmy Porter. Look back in Anger, di John Osborne, è infatti il punto di partenza, seguito con relativa fedeltà lungo i primi due atti. Lo squallido appartamento in cui si svolge il dramma è dapprima celato da un grumo di luce pulviscolare nel quale il protagonista, interpretato dallo stesso Rausa, giace dopo essere stato folgorato da uno squarcio luminoso. Gradualmente prende vita l'asfittica routine di Jimmy, Allison (Maria Elena Iozza), Cliff (Giancarlo Latina), Helena (Alessandra Falanga). Un'insofferenza eccedente riempie la scena, alleggerita soltanto dai gradevoli interventi di Cliff; ma il temperamento di Jimmy è brutale, sferzante di un cinismo lucido e allucinato. I dialoghi hanno ritmo, sono puntellati da un'ironia convincente: è soprattutto questa a declinare con intelligenza la rabbia che gli Angry Young Men rivolgevano, negli anni Cinquanta, al ceto medio britannico. Ma adesso, viene da chiedersi, quale dovrebbe esserne il bersaglio? Nell'inevitabile nichilismo di ogni possibile risposta, non rimane che il disvelamento dell'inganno: il personaggio si riduce a sagoma pirandelliana, da cui infine emerge l'attore. Si appella al pubblico, com'è d'uopo, e denuncia la difficoltà di una scrittura realmente nuova. L'escamotage è senz'altro usato, abusato, usurato; ma nella sala dello Spazio Franco, riesce comunque a creare disagio nella sua iterazione. Il dramma si disintegra per scendere "nel performativo": una successione di quadri rarefatti compongono l'atto conclusivo, che è un fatto puramente immaginativo. Nel subconsio lunare in cui il protagonista infine si muove, si dissolve anche la rabbia: quella di una generazione che, parafrasando Umberto Eco, più di tutte avverte la condizione di essere parola già scritta (Tiziana Bonsignore).
Visto allo Spazio Franco. Di Michele Mariniello Con Alessandra Falanga, Maria Elena Iozza, Giancarlo Latina e Luigi Maria Rausa Idea e progetto Luigi Maria Rausa Regia Luigi Maria Rausa e Michele Mariniello Scene Marzia Francolino Assistente alla regia Gabriele Giammancheri Sound designer Giancarlo Latina Luci Michele Ambrose Foto Marzia Francolino Produzione Babel Crew. Foto di Marzia Francolino
#ROMA - speciale Ci-Korea Amara la danza
No (di Annalisa Limardi)
No, il progetto di Annalisa Limardi, parte dalla necessità di elaborare una situazione abusante, come dichiarato nelle note di regia e, per fare i conti con questa esperienza, sceglie il corpo come campo di indagine e comunicazione. La partitura è costituita da gesti minimali, rigidi e morbidi, che alternano concessione e resistenza; raccontando a voce, in una forma monologante e aderente ai movimenti, tutte quelle circostanze a cui vorrebbe, o avrebbe voluto, dire di no. Funzionale a far uscire questo dissenso e a farlo parlare, è l’utilizzo del microfono che si muove attorno e con lei come fosse un simbolo (non a caso fallico) che penetra nella sua intimità più e più volte, disturbandola, insidiandola, soffocandola, pungendola, scalfendola. Quando la voce dal linguaggio in prosa passa a quello musicale della canzone, ricordando quasi una cadenza da beatbox, sembra di ascoltare finalmente l’accentazione giusta di quel testo che sin dall’inizio meriterebbe di essere ritmato. La scrittura è quindi totalmente autobiografica e (ri)centrata su se stessa; per ritrovare quella stabilità interiore deve fisicamente andare oltre i confini che le sono stati imposti, sgusciare all’improvviso, saltare, tendersi, allargarsi. È una riconquista, rivendicata e raggiunta. (Lucia Medri)
Visto a Carrozzerie n.o.t. durante la rassegna Ci-Korea Amara la danza in collaborazione con ATCL
SUPERSTELLA (di Vittorio Pagani)
Un’esplosione energica, accattivante e affascinante tra la vanità di un divismo in bianco nero e il glitch postmoderno. Il solo di Vittorio Pagani, Superstella, che è ancora uno studio, è libero e appassionato: le idee presentate sono tante, forse troppe, potrebbe metterne a fuoco alcune sacrificandone di altre, tuttavia con una predisposizione alla forma ipertestuale riesce a presentare una giocosa e leggera invettiva sull’atto creativo quando questo diventa atto produttivo. Curioso scorgere come il pensiero teorico, sistemico anche, di un artista emergente si fonda, o meno, con quello coreografico. I due aspetti sembrano ancora muoversi in parallelo ma confidiamo che, rimaneggiando alcuni passaggi – come quando legge cosa diventerà in una scansione futura di anni – possano confluire in una partitura più autonoma. Il compito non è però dei più semplici: Pagani sembra voler rispondere alla domanda “cos’è una stella?”, che risposta non ha e lo sa bene. Per farlo cerca allora aiuto nel passato, nel cinema, nell’arte e nella letteratura, interrogando, in un dialogo tra il video e la danza, prima Fellini passando poi per Dante e fino a Oates, citando il cinema muto ma anche il vogueing, con balzi che uniscono secoli in un linguaggio imprevedibile che diverte. Il consiglio: non prendersi troppo sul serio coi quesiti estetico concettuali per brillare ancora di più! (Lucia Medri)
Visto a Carrozzerie n.o.t. durante la rassegna Ci-Korea Amara la danza in collaborazione con ATCL
#ROMA
VACANZE DI GUERRA (di I. G. Barba regia F. Ceriani)
La bulimia di onnipotenza e di opulenza è tale che non ci stupiremmo se le agenzie di viaggio iniziassero a programmare dei viaggi nelle zone di guerra per vivere esperienze uniche nella vita, sconvolgenti, cariche di emozioni. Questo è un ipotetico futuro immaginato in Vacanze di guerra dal drammaturgo Ignasi García Barba – i cui testi posso essere scaricati gratuitamente a questo link – e portato in scena nell’adattamento diretto da Ferdinando Ceriani e interpretato da Valentina Martino Ghiglia. La protagonista Berta si rivolge sin da subito al pubblico presente trattandolo come fosse un gruppo di villeggianti in trepidante attesa di esperire sulla propria pelle cosa si prova a stare in un conflitto. Montata in scena una tenda, ricoperta da un tappeto di foglie per mimetizzarsi, Berta entra ed esce da quello spazio per dare indicazioni utili al soggiorno: distribuisce volantini, impartisce ordini e sciorina raccomandazioni. La sua però è una postura nolente, preoccupata, infastidita; lei per prima è consapevole della boriosità egoistica di un simile viaggio ma è costretta a portare avanti questo lavoro perché a casa la aspettano un figlio piccolo, e un marito nullafacente, e poiché lei è stata licenziata da una casa editrice, non ha altre alternative se non questa. La drammatica semplicità del testo, la sua schiettezza nel dispiegarsi senza eccessiva retorica ma con screziature ciniche e tragiche, potrebbe essere supportata da un’interpretazione più densa e sfaccettata, meno bidimensionale e meno ripiegata sull’aspetto più commiserevole del carattere di Berta. È infatti attraverso di lei che sperimentiamo l’assurdo e l’orrore del viaggio ed è tramite di lei infatti che esprimeremo nel finale il lato peggiore della nostra natura. (Lucia Medri)
Visto all’Altrove Teatro Studio: di Ignasi García Barba, traduzione Valentina Martino Ghiglia, con Valentina Martino Ghiglia, drammaturgia sonora Diana Tejera, elementi scenici e costume Carlo Sala, assistente alla regia Isotta Tomassini, regia Ferdinando Ceriani
ANNA CAPPELLI (di A. Ruccello regia di C. Tolcachir)
Il palcoscenico della sala B del Teatro india è ricoperto di terra, o almeno così sembra all’inizio, prima di scoprire con una certa delusione che si tratta di materiale artificiale - forse gommapiuma - visto che i piedi della protagonista non si sporcheranno mai. A sinistra c’è una lavatrice - dalla quale Anna di tanto in tanto prenderà un termos per bere -, una vecchia cyclette mezza sverniciata; a destra una poltrona anni '50/'60, sul pavimento un lampadario, altri suppellettili e un frigorifero ribaltato con l’apertura verso l’alto, il verde di tre mele risplende nel marrone scuro della terra. Il classico di Annibale Ruccello (il secondo che recensiamo quest’anno dopo quello di Benedetta Buccellato), Anna Cappelli, nella regia di Claudio Tolcachir, è una sorta di luogo postumo, potremmo vederlo come una dimensione altra in cui chi ha commesso il peccato massimo, per contrappasso, deve rivivere gli eventi. L’inferno sono gli altri? No, qui l’inferno è senza gli altri: in una solitudine che è un pantano dell’anima Valentina Picello è straordinaria nella creazione di questo personaggio con cui è impossibile non entrare in empatia. Il racconto di una vita piccola, un lavoro da impiegata, una casa condivisa con un’altra donna per risparmiare, i battibecchi con la coinquilina, le stancanti abitudini quotidiane e poi qualcosa che rompe improvvisamente la solitudine: un amore, nato proprio in quell’ufficio, che porterà con sé prima l’intimità della convivenza e poi la ferita dell’abbandono. Picello brilla di quella felicità sorridente, che vale tutto lo spettacolo, quando arriva l’emozione del primo appuntamento (Tonino è la cosa migliore che le sia capitata negli ultimi due anni, dice). È la volontà di possedere a portare al gesto dal quale non si torna indietro: nel frigorifero i pezzi, “il tuo corpo è mio”. E poi quel canto, di amore religioso, "Tu sei la mia vita, altro io non ho…" prima di tumularsi proprio lì insieme a lui nel vecchio frigorifero. (Andrea Pocosgnich)
Visto al Teatro India. Di Annibale Ruccello regia Claudio Tolcachir con Valentina Picello scene Cosimo Ferrigolo luci Fabio Bozzetta produzione Carnezzeria, Teatro di Roma – Teatro Nazionale, Teatri di Bariin collaborazione con AMAT
#MILANO
FALAISE (Baro d’evel)
La solidità dei corpi scolpiti dai chiaroscuri, l’abbandono di quegli stessi corpi alla gravità. La rincorsa, l’affanno, la caduta. Una narrazione costruita tutta sulla presenza/assenza dei personaggi, che entrano in scena fendendo, o forse meglio ferendo le membra della scenografia - “vita brulicante che invade le pareti” - che tutto distruggono per farsi spazio ed emergere. È da questi che si origina lo spettacolo in bianco e nero per otto umani, un cavallo e dei piccioni, sottotitolo di Falaise, opera della compagnia franco-catalana Baro d’evel ospitata dal Piccolo Teatro di Milano a cavallo del nuovo anno, un lavoro di minuzie sinestetiche davvero unico che si immerge nella magia circense per scavarne meticolosamente volumi scenico-coreografici sensazionali e assumerne le tonalità tragicomiche, offrendo un mondo che “abita in cima alla scogliera” (falaise per l’appunto), ma che imperterrito crolla e si disfa. Un mondo che anche se intrappola, occlude e sembra rivelare una realtà bicolore – o del tutto incolore –, teatro dell’azione umana e animale, si sbriciola come cartongesso nell’accurata scenografia ideata da Lluc Castells, conservando al tempo stesso un principio quasi primordiale di poesia. Camille Decourtye e Blaï Mateu Trias, fondatori e da quasi vent’anni direttori artistici della compagnia, plasmano una drammaturgia che nasce dalla sovrapposizione osmotica di materie diverse, dal lavoro con gli animali alle acrobazie aeree, dallo studio musicale alla concezione plastica dello spazio, alla ricerca di un principio, di un’idea, che forse è solo un sogno, perché “trema di gioia, di tenerezza, di paura e di desiderio - desiderio di andare avanti, di non cedere, di non tornare indietro, di trovare il modo, di tormentarsi, di biasimarsi, di sentirsi in colpa, terribilmente, di essere l'intralcio del mondo, che esita (…). Come qualcosa di vivo.” (Andrea Gardenghi)
Visto al Piccolo Teatro di Milano. Crediti: di Camille Decourtye e Blaï Mateu Trias, con Lucia Bocanegra, Noëmie Bouissou, Camille Decourtye, Blaï Mateu Trias, Oriol Pla, Julian Sicard, Marti Soler, Guillermo Weickert, un cavallo e dei piccioni, collaborazione alla messa in scena Maria Muñoz – Pep Ramis / Mal Pelo, collaborazione drammaturgia Barbara Métais-Chastanier, scenografia Lluc Castells
PARENTI TERRIBILI (di J. Cocteau, regia F. Dini)
Sono dei parenti davvero terribili quelli che Filippo Dini ha portato al Teatro Elfo Puccini, anzi, terribilissimi. È attraverso loro, e senza indugio alcuno, che il regista porta a compimento la sua trilogia sulla famiglia disfunzionale (con Casa di bambola di Ibsen e Agosto a Osage County di Tracy Letts) immergendosi nel testo del 1938 del francese Jean Cocteau, restituito nella traduzione da Monica Capuani. Nevrotici e dalla verve corrosiva, questi parenti non hanno scampo: sono intrappolati dalla curata scenografia, che li chiude in una morsa stretta e dall’alto gradiente tensivo, ora concentrata morbosamente sulla camera da letto, ora sospesa sopra i capi e “incombente” come il destino; sono intrappolati dalle distorte dinamiche relazionali, dall’amore non corrisposto della cognata Leonie (Milvia Marigliano), beffarda e affabile nel muovere i fili della trama, dal complesso edipico tra madre/figlio di Yvonne (Mariangela Granelli) e Michael (Cosimo Grilli), che ha un livello di tossicità davvero mortale, dalla ribellione di un padre (il regista stesso) a quello stesso complesso e dalle ripercussioni di questi moti familiari su una giovane relazione che fatica a reggerne il peso, quella tra il capriccioso figlio e Madeleine (Giulia Briata). Dini orchestra questi rapporti sulla scena con l’abilità dell’esperienza e alterna la strillante tragicità della madre, un pugno di angoscia e ansie, alla comicità di marito e cognata, che si trovano a gestire un tradimento e il suo inevitabile mascheramento. È una comicità che, tuttavia, urla anch’essa: in questa pièce, come anche in altri dei suoi lavori, la regia fa esplodere come una granata ogni personaggio, così dimostrando un’isteria fittizia, tutta nervi e monotono. Ed è forse questo quello che manca al lavoro di Dini, una modulazione più netta della tensione in scena che si articola tra momenti alti e bassi, tra acuti e gravità, che permetta di distillare il dramma per far emergere una comicità più naturale e meno esasperata. (Andrea Gardenghi)
Visto al Teatro Elfo Puccini di Milano. Crediti: di Jean Cocteau, traduzione Monica Capuani, regia Filippo Dini, con Milvia Marigliano, Mariangela Granelli, Filippo Dini, Giulia Briata, Cosimo Grilli, produzione TSV – Teatro Nazionale, Fondazione Teatro Stabile di Torino - Teatro Nazionale, Fondazione Teatro di Napoli – Teatro Bellini, Teatro Stabile Bolzano
#MODENA
VOID (Wim Vandekeybus / Ultima Vez)
Qualcuno sul fondo, in camicia, pantaloni grigi e cravatta; all’improvviso suona una sveglia, poi la suoneria di uno smartphone, il pubblico si tace. Ora la riconosciamo meglio, è una donna; nel centro del palco una scala con una sorta di lampadario sferico, la performer - è l’italiana Paola Taddeo - si avvicina a una batteria ma invece di suonarla si accorge che è il proprio corpo a risuonare. È come se qualcosa le invadesse gli arti, i muscoli e il tentativo allora è quello di fuggire: più volte tornerà in questo Void - creato da Wim Wandekeybus in stretta relazione con i performer - il tema di una sorta di possessione del singolo dentro la comunità di riferimento e la danza allora diventa vera e propria lotta o danza di liberazione da spiriti interni. Nell’incontro post spettacolo il regista e coreografo belga ha spiegato come abbia avuto la necessità di ricominciare dal vuoto del titolo dopo un'opera dalla costruzione imponente come Infamous Offspring, dominata dalla scrittura. In questo caso invece l’idea era di ripartire dall’essenzialità, dai performer: la creazione è nata proprio parlando con l’ensemble e cercando nelle biografie degli interpreti. Uno di questi, Adrian Thömmes, aveva una nonna finlandese poi emigrata a New York, che in seguito è tornata in patria, in scena con un caratteristico vestito blu incarna il ricordo di quella nonna con una grazia superlativa. Poi c’è una giovane che non vuole essere lasciata da sola in casa mentre i genitori escono, Lotta Sandborgh, c’è l’animalità del corpo di Iona Kewney, danzatrice esperta con incredibili doti da contorsionista e una attitudine recitativa di primo piano; il dinamismo e la fisicità di Hakim Abdou Mlanao. Questi fili si intrecciano e poi si sciolgono, tutto si fonde nella danza, nei diversi caratteri coreici: un’altra meraviglia è nell’approccio della hongkonghese Cola Ho Lok Yee, si libra senza gravità con l’ariosità e la precisione di una ninja. Nell’ora e mezzo di spettacolo c’è spazio anche per una sessione ritmica tenuta con dei piatti rotti a martellate, e poi vere e proprie epifanie tra prese acrobatiche e i classici soli in mezzo al cerchio. Rimane in mente il passo a due pieno di ironia e sfida - anche amorosa - tra Kewney e Thömmes. (Andrea Pocosgnich)
Visto al Teatro Storchi regia e coreografia Wim Vandekeybus creato ed eseguito da Iona Kewney, Lotta Sandborgh, Cola Ho Lok Yee, Paola Taddeo, Adrian Thömmes, Hakim Abdou Mlanao assistente artistico e drammaturgia Margherita Scalise musica originale e sound design Arthur Brouns scenografia Wim Vandekeybus realizzato da Pepijn Mesure disegno luci Wim Vandekeybus, Benjamin Verbrugge costumi Isabelle Lhoas assistente ai costumi Juliette Lejeune tecnici Schröder, Pepijn Mesure, Benjamin Verbrugge distribuzione Julia Bouhjar produzione Heleen Schepens, Kenneth Raemaekers.
#Genova
AMLETO² (di Filippo Timi)
A quindici anni dal debutto, Filippo Timi riporta sulla ribalta il suo Amleto², una rivisitazione dell’opera caposaldo del corpus shakesperiano in chiave parodistica e grottesca, senza temere di sfruttare le crepe della quarta parete. Elevato alla seconda potenza, è tutto fuorché un Amleto classico. Scanzonato, irriverente, annoiato, folle, frivolo e melodrammatico: sono tutti aggettivi che appartengono alla figura che si molleggia sul trono di legno al centro del palco. Intorno a sé, alcune balle di fieno, il cui odore intenso si sprigiona nella sala. La corte di Danimarca sembra proprio la stalla di uno zoo, o l’arena di un circo, allestita com’è dietro un’alta rete metallica che fa degli attori le bestie ammaestrate rinchiuse in gabbia e sbranate dagli occhi voraci del pubblico. Messi lì apposta per intrattenere, è quello che si prodigano a fare, sfiorando vette inaudite di trash, tra citazioni pop e finte flatulenze rumorose, mentre frammenti di luce riflessi su una palla da discoteca si proiettano, danzanti, sugli spessi tendaggi. Tutto intorno, tenuti ancorati al suolo da calamite, dei palloncini sospesi, che Amleto fa palleggiare sulla punta del suo spadino, mentre sembra chiedersi, distrattamente, tra uno sbadiglio e l’altro, “essere o non essere?”. È la domanda che si pone lo stesso Timi in merito alla sua natura di artista, incorporata dalla biondissima e svampita Marylin Monroe (Marina Rocco), un Amleto dei giorni nostri con la sua sorte tragica. Amleto, ormai stufo di interpretare un ruolo a cui è vincolato, cerca di impedire a Ofelia (Elena Lietti), l’unica rimasta fedele al copione, di recitare la parte che le è stata cucita addosso, andando così incontro al suo destino. Anche Gertrude (Lucia Mascino), sboccata e scandalosa, rinnega la sua scelta di fare l’attrice. Da strumento che inchioda lo zio al suo misfatto, il teatro si fa macchina i cui ingranaggi non riescono più a incastrarsi nei loro scomparti, consumati dalla crisi del meccanismo teatrale. Manipolato all’interno di una dissacrante opera di svalutazione e ricostruzione, il capolavoro ormai cieco torna a rivedere la luce. (Letizia Chiarlone)
Visto al Teatro Ivo Chiesa prodotto da Teatro Franco Parenti, Fondazione Teatro della Toscana Regia Filippo Timi Interpreti Filippo Timi e con Lucia Mascino, Marina Rocco, Elena Lietti e Gabriele Brunelli Luci Oscar Frosio
L’AVARO (di Molière, con U. Dighero, regia di L. Saravo)
Un interno sontuoso, ma asettico come la fredda luce da sala operatoria che lo illumina, privo di ogni effetto personale che non sia conservato alacremente dietro il vetro spesso di una teca. Quattro entrate, due su ogni lato, e una porta a doppio battente sul fondo che dà su un giardino la cui illusione è creata da proiezioni di alberi dal fogliame autunnale. È la casa di Arpagone (Ugo Dighero), noto per la sua avarizia, così esacerbata da opporsi alla felicità dei suoi stessi figli, Elisa (Elisabetta Mazzullo) e Cleante (Stefano Dilauro), intrappolandoli in matrimoni combinati che hanno il solo obiettivo di riempire ulteriormente le sue tasche. Ma per quanto i figli strepitino e tentino di dissuadere il padre dalla sua decisione, l’unica vera voce che riesce a penetrare il cuore avido di Arpagone è quella suadente dei soldi sonanti che gli si manifesta in forma di un ologramma di un coro di voci bianche, proiettato in corrispondenza della porta sullo sfondo, il quale cantilena minaccioso di tasse e spese imminenti. Alle spalle del coro, il giardino, dove Arpagone custodisce il suo più grande segreto: seppellita lì, vi è infatti una cassetta contenente diecimila scudi in argento di cui nessuno sa dell’esistenza. I fili dell’intreccio si annodano, sempre più stretti tra di loro, con cambi di scena resi possibili dalla prontezza degli attori e dagli spostamenti celeri delle teche, in modo da ampliare lo spazio o creare zone separate per rendere possibile lo svolgimento di scene in simultanea: Anselmo (Cristian Giammarini), l’amico di famiglia a cui Arpagone voleva dare in sposa Elisa, si scopre essere il padre a lungo perduto di Valerio (Fabio Barone) e Marianna (Rebecca Redaelli), rispettivamente gli innamorati di Elisa e Cleante. Con il contributo economico di Anselmo, tanto i desideri di Arpagone quanto quelli dei figli possono essere soddisfatti. La cassetta, sottratta impunemente dal servo di Cleante (Mariangeles Torres), ritorna al suo posto. Tra selfie rubati e un numero canoro finale sulle note di Money dei Pink Floyd, L’Avaro di Luigi Saravo strizza l’occhio alla generazione zeta, pur restando intrinsecamente millenial. (Letizia Chiarlone)
Visto al Teatro Gustavo Modena Produzione Teatro Nazionale di Genova, Artisti Associati Gorizia, Teatro Stabile di Bolzano, CTB Centro Teatrale Bresciano Traduzione e adattamento Letizia Russo Regia Luigi Saravo Personaggi e interpreti Scene Lorenzo Russo Rainaldi Luigi Saravo Costumi Lorenzo Russo Rainaldi Musiche Paolo Silvestri Movimenti coreografici Claudia Monti Luci Aldo Mantovani Assistente alla regia Cristian Giammarini - crediti completi
#ROMA
STRADA MAESTRA (Niccolò Matcovich e Laura Nardinocchi)
Strada maestra è innanzitutto un viaggio che segue latitudini geografiche ed esperienziali restituite da Niccolò Matcovich e Laura Nardinocchi a partire da più di un anno di ricerche sul campo, focalizzate su un’indagine a partire dal rapporto tra uomo e natura, dal titolo iniziale Terramadre. Prima dello spettacolo, la compagnia invita gli spettatori di Carrozzerie n.o.t a sperimentare, attraverso una breve camminata attorno al teatro, il metodo dell’”osservazione oggettiva” da loro scelto come approccio scientifico, nel tentativo di eliminare quanto più possibile la componente di giudizio personale e dare spazio all’oggetto della ricerca. In seguito all’esternazione del percorso, da confermare o rettificare da parte di tutti, si crea una dimensione di dialogo aperto che funge da terreno comune per tutta la performance. Lo scambio avviene col tono del resoconto documentario, sebbene poi, pur partendo da quella pretesa di obiettività, i due autori ne ammettano il “fallimento soggettivo”, trovandosi faccia a faccia con il doversi scontrare con quanto accade. Il taglio è esistenziale, volontariamente scelgono di non affrontare di petto il coté politico ambientalista, ma rimangono in una dimensione contemplativa, di inchiesta dolce, dove l’aspetto ideologico può emergere a posteriori. Così raccontano di situazioni idilliache sulla carta ma raccapriccianti nella realtà o ancora di scelte di vita a volte ai limiti della sopravvivenza e però piene di gioia. Toccando gli estremi e le fasce intermedie di queste posizioni, i due ripercorrono le diverse tappe attraverso la lettura di alcuni stralci dei loro diari, facendo ascoltare voci e montando in scena una sorta di totem-umanoide realizzato con oggetti a loro donati dagli intervistati. Quasi a conclusione, Nardinocchi e Matcovich espongono una serie di affermazioni antitetiche raccolte in viaggio, che pendono a favore dell’uomo o della natura, chiedendo nuovamente al pubblico di scegliere di schierarsi, ma l’aspetto più interessante sta proprio nello scardinamento di questo dualismo, ovvero nell’impossibilità di ridurre a una scelta semplificante, pro o contro, invitando alla complessità. (Viviana Raciti)
Visto a Carrozzerie n.o.t, | di e con Laura Nardinocchi e Niccolò Matcovich | organizzazione Silvia Zicaro |scena Bruno Soriato e Giuseppe Frisino | sound design Dario Costa | luci Chiara Saiella | foto e video Simone Galli |produzione Florian Metateatro | con il supporto di Sementerie Artistiche; Ass. Ippocampo; Ferrara OFF; Laagam-ORA | IntercettAzioni Centro di Residenza della Lombardia; Teatri di Vita/ Elsinor - Teatro Cantiere Florida / TRAC – Centro di Residenza Pugliese nell'ambito del Progetto Cura 2023
DESIDERIO (di Silvia Garbuggino e Gaetano Ventriglia)
Il linguaggio denudato ed ellittico di Silvia Garbuggino e Gaetano Ventriglia non presenta una semplice versione teatrale di Stalker. Desiderio è piuttosto un omaggio alla sintassi, al ritmo e alle temperature dell’operazione poetica di Andrej Tarkovskij. Il Professore (Ventriglia, fisico in cerca del Nobel) e lo Scrittore (Lorenzo Guerrieri, scribacchino in cerca di ispirazione) si affidano a una guida esperta ma misteriosamente reticente (Garbuggino è lo Stalker), per penetrare nella Zona, area sinistra e magica che emette energie in grado di dialogare con i destini e i desideri degli umani. La spedizione si trasforma in un simposio filosofico in cui la crociata spirituale si confonde con verticali capitomboli nel gorgo esistenziale. Lo spazio militante Spintime, fondamentale nel dare ospitalità a chi si trovi in necessità di alloggio creativo e non solo, stavolta non può forse dotare di giusta profondità di campo questo allegorico luogo dell’anima; i mezzi luministici e sonori tendono a chiudere l’azione in una rudimentalità che chiede al pubblico molta attenzione alla parola. Parola complessa e stratificata, che entra in vortici di vincente risonanza (ipnotica, sottilmente surreale) quando il lirismo sofferente e quasi canoro di Garbuggino ritrova lo spaesamento poetico del suo fedele compagno di scena, mentre le pose fisiche e vocali di Guerrieri risultano a volte sopra le righe. Della compressione spaziale fa le spese anche Alessandra Cristiani, presenza fantasmatica che occupa un altro piano narrativo senza trovare l’agio nella lenta danza di cui ben conosciamo la potenza. In questo esperimento scenico, che innesta la parabola messianica e mistica di Tarkovskij nel terreno dell’immagine e del simbolo si smette allora di cercare una nettezza estetica, e se pure una certa sovrabbondanza di testo tradisce la missione di sottrazione tipica di questo duo unico nel suo genere, ci si può abbandonare a una lenta, malinconica e a tratti terrea cavalcata nelle praterie dell’inconcludenza umana. (Sergio Lo Gatto)
Visto a Spintime Labs. da Stalker di Andrej Tarkovskij; con Alessandra Cristiani, Silvia Garbuggino, Lorenzo Guerrieri, Gaetano Ventriglia; regia Garbuggino Ventriglia
INTORNO AL VUOTO (di B. Nicoletti, regia G. Rappa)
Si è soliti identificare la memoria come un’immagine di solidità retroattiva, un magma che via via si condensa e crea ciò di cui l’essere è composto; non stupisce allora come la malattia che la attacca, l’Alzheimer, somigli proprio alla progressione disarticolata di una separazione tra l’essere e i propri ricordi, come se intere parti della vita prendessero via via congedo dalla vita stessa. C’è una famiglia sulla scena di Intorno al vuoto, testo che la giovane drammaturga Benedetta Nicoletti ha consegnato alla regia di Giampiero Rappa, seguendo l’esperienza e la volontà progettuale dell’attrice Paola Giorgi, in scena assieme a Gianluigi Fogacci e Fabiana Pesce allo Spazio Diamante. C’è una famiglia che, alla comparsa dei primi sintomi di Alzheimer nella donna – moglie e madre – che tiene in equilibrio l’intero nucleo, si sfalda ma così trasforma quell’equilibrio in un nuovo ordine, accompagnando a una maturazione i componenti. Carol e Paul sono sposati da molti anni, hanno una vita tranquilla di due professionisti scientifici, in una moderna New York; Liz è una figlia che cerca la sua strada e il teatro sembra parlare la lingua del futuro, si allontana da casa perché vorrebbe la libertà di scegliere che la madre sembra negarle. Ma ecco che la malattia sconvolge una condizione in apparenza stabile, a rivelare quanto tale non fosse. Paul non accetta il cambiamento, cerca nella scienza i lumi di una spiegazione e si indurisce, Liz è spaventata ma forse è la sola che accoglie la nascente condizione, pur nel dolore diventa davvero adulta ora che si trova ad accudire la propria madre; Carol è la sola che comprende subito, sa cosa sta per accadere, cerca di dirlo finché avrà la forza e ne mantiene fino all’ultimo, per consegnare anche quell’ultimo frammento amoroso al tempo che non vedrà. La regia di Rappa, che guida attori ispirati capaci di scavare in una drammaturgia decisa, è anch’essa netta, priva di un’estetica decorativa e dritta all’obiettivo: non si scherza quando si racconta la malattia, sembra dire, ponendo imponenti pannelli con una trasparenza fosca a negare e rivelare la vicenda, così come l’Alzheimer fa con la vita dei protagonisti. (Simone Nebbia)
Visto al Teatro Spazio Diamante di Benedetta Nicoletti scene Laura Benzi costumi Stefania Cempini luci Paolo Vinattieri musiche Massimo Cordovani assistente alla regia Michela Nicolai realizzato con il contributo di Regione Marche – Assessorato alla Cultura patrocinio I.N.R.C.A. Istituto Nazionale Ricovero e Cura a carattere Scientifico Premio Impronta d’Impresa Marche “le donne lasciano il segno” Camera di Commercio delle Marche produzione Bottegateatro Marche – Tf Teatro Teatro Menotti
FESTE (Familie Flöz)
Lo spaccato di una villa, la porticina al piano terra, il piano nobile, lo scantinato, la portineria; sullo sfondo il mare, lampioni, qualche pianta e tanti sacchi della spazzatura. Questa anticamera esterna, spazio di soglia che lascia intravedere squarci di vite vissute, avvenimenti festosi che fungono da parentesi rispetto alla vita quotidiana, è il palco dell’ultima opera della compagnia berlinese Familie Flöz, Feste, programmata in Sala Umberto. Feste in maschera, feste di matrimonio, obbligo al divertimento che viene contrappuntato da una inestinguibile malinconia, da una sensazione di estraneità che non si riesce ad abbandonare. Il carosello di personaggi vive nel frattempo: tra piccoli acciacchi, promesse di matrimonio interrotte, antipatie e riappacificamenti, velleità lavorative e atti di fiducia conquistata, cancelli che devono rimanere chiusi anche se poi c’è sempre qualcuno che bussa alla porta; ciascuna emozione, ciascun intento è, come sempre nel loro teatro, frutto di un lavoro sul corpo meticoloso e vivido, nonostante (o forse proprio in ragione delle) maschere dagli occhi vitrei che indossano i tre magnifici attori, in grado di rendere sfumature di senso, non detti attraverso posture precise e perfettamente comprensibili nonostante l’assenza di battute. A essere un po’ più debole, stavolta, è l’impianto drammaturgico che vede svilupparsi in parallelo le vicende della coppia in procinto di sposarsi, con la piccola squatter la quale trova riparo tra i sacchi della spazzatura della villa. Le due storie si incontrano in più punti ma senza entrare in profondità, o innescare una riflessione che possa andare oltre la comparazione delle due sorti: una in teoria felice in vista del matrimonio eppure sempre malinconica, l’altra invece vitale e sempre generosa nonostante l’indigenza. Ciò che più colpisce è il contrasto e la purezza della giovane senza casa, l’unica che effettivamente dona benessere agli altri in maniera disinteressata, senza ricevere nulla mentre gli altri sono persi nella loro rinnovata serenità, troppo solipsisti per potersi accorgere di colei che gli ha ridato vita. (Viviana Raciti)
Visto al Teatro Sala Umberto | Un ’opera di Andres Angulo, Björn Leese, Johannes Stubenvoll, Thomas van Ouwerkerk, Michael Vogel | Con Andres Angulo, Johannes Stubenvoll, Thomas van Ouwerkerk | Co-Regia Bjoern Leese | Una produzione di Familie Flöz |In coproduzione con Theaterhaus Stoccarda, Teatro Duisburg, Teatro Lessing Wolfenbüttel. con il supporto dell’ Hauptkulturfonds Regia di Micheal Vogel
#VENEZIA
ROMEO E GIULIETTA (coreografia e regia di John Neumeier)
Inossidabile, iconico, immenso: insomma, una leggenda vivente. L’ottantacinquenne John Neumeier torna con l’Hamburg Ballet (oggi affidato a Demis Volpi) al Teatro La Fenice di Venezia. Ed è un evento. Romeo e Giulietta è lavoro addirittura del 1971, ripreso nel 1974 e poi nel 1981, datatissimo eppure attualissimo, e ripreso con cura di repertorio e forza interpretativa e sapienza scenica dal 2023 (e infatti Emma mi dice quanto tutto le sembri un po’ anni 80: e manco era nata...). Qui tutto è affare amoroso fra giovanissimi: Giulietta, strepitosa e tecnicamente perfetta e centratissima in termini espressivi in questa ribelle furiosa e pochissimo piagnona che diventa adulta all’improvviso, è Azul Ardizzone. Mentre Romeo, tonto il giusto e bello il giusto e forte il giusto e impetuoso il giusto è Louis Masin. Le scene perfette sembrano di Frigerio, ma sono invece di Jürgen Rose (pure i costumi). Della musica di Prokof’ev, vabbè, sapete già tutto. L’amore tra i due sboccia nell’immobilità di un prolungato sguardo, pieno poi di pudore e di risolini, e queste mani offerte: amore è questo essere nello sguardo dell’altro, questo darsi nelle mani dell’altro. Mercuzio è Alessandro Frola, ha un sorriso contagioso e ci mette un pomeriggio per morire, trafitto da Tebaldo, lo spigoloso Artem Prokopchuk (che si limona con Donna Capuleti, la scultorea Anna Laudere), ma ne vale la pena perché guardarlo è un vero diletto. L’improbabile Frate Lorenzo è Lennard Giesenberg, un biondone bambolone giovanissimo e bicipitato, che quando Romeo lo aggancia per fermarlo o lo abbraccia per gratitudine sembra subito un’illustrazione pin-up da magazine culturista stile Adonis. Non meraviglierà il suo essere fuori tempo nell’avvisare Romeo. Il Conte Paride di Florian Pohl è addirittura un Big Jim che torreggia la povera Giulietta la quale (giustamente) si rifiuta, punta i piedi sbatte i pugni per aria perché nemmeno vuol toccare sto marcantonio che sembra uscito da un’illustrazione Tom of Finland. La festa è bellissima ma nera e funebre, quella in piazza con tutti, compreso il carretto dei commedianti, piena di colori: ci sta che la vera vita sia fuori, e la morte il contrattempo più giusto per uscire di palazzo. Accorrete tutt* a vederlo: è imperdibile, davvero. (Stefano Tomassini)
Visto al Teatro La Fenice Orchestra del Teatro La Fenice coreografia e regia John Neumeier direttore Markus Lehtinen scene e costumi Jürgen Rose - Crediti completi
#PERUGIA
I RAGAZZI IRRESISTIBILI(di N. Simon, regia M. Popolizio)
Qualche anno fa si nominava spesso – a dimostrazione della capacità “agglutinante” della lingua tedesca di coniare termini per i sentimenti ibridi o inesprimibili – la parola schadenfreude, il sentimento di piacere di fronte alle sfortune altrui. È a una simile gioiosità diabolica (addomesticata dalle convenzioni, ma così irresistibilmente radicata nel cuore di ciascuno) che si rifà la temperie scenica de I ragazzi irresistibili, adattamento della pièce del 1972, The Sunshine Boys, firmata da Neil Simon, che Massimo Popolizio governa con una regia salda e ritmica, capace di aggiornare, rispettandoli, gli schemi e i tempi farseschi del vaudeville, del quale Willy Clark (Franco Branciaroli) e Al Lewis (Umberto Orsini) sono stati, in gioventù, applauditissimi fuoriclasse. A causa di uno screzio, il duo si è infranto, consegnandoli entrambi, per decenni, a una vita lontana dalle scene, ai rispettivi rimpianti. Willy Clark sprizza ancora rancore, Al Lewis possiede un passo più lieve (e forse persino più sarcastico): la proposta di una reunion televisiva fa riaffiorare l’agonismo, le rivalse, le bizze. Sulla scena ospitale, segnata da un tratto fatiscente, di Maurizio Balò, Branciaroli e Orsini signoreggiano con maestria, con monumentale e rodata naturalezza. Il pubblico è conquistato, complice e, al tempo stesso, portato a rivolgere uno sguardo beffardo (ed ecco la schadenfreude) a questo duello in progressione – mai stereotipato – tra vedette cocciute, e ormai inermi. Eppure, il rovescio celato della derisione è la tenerezza. Vale sul palco, mantenendo la relazione tra i due sempre scattante e sempre sentimentale, vale in platea, liberando la consapevolezza di una singolare fraternità, definendo la compartecipazione, quasi consolatoria, di un destino. Freud, ne Il motto di spirito (1905), espone – come uno dei moventi del fatto comico – la “teoria della dominazione”, secondo la quale si ride per esercitare una forma di controllo sull’oggetto del riso, per esorcizzare il turbamento nel quale ci getta. Il gesto al quale siamo chiamati è quello di osservarci reciprocamente, come in uno specchio che, enfatizzando i tratti, ci restituisce il grottesco, la voragine, ma anche la grazia, la leggerezza della nostra umanità. (Ilaria Rossini)
Visto al Teatro Morlacchi. Crediti: di Neil Simon, regia di Massimo Popolizio; con Umberto Orsini e Franco Branciaroli: e con Flavio Francucci, Chiara Stoppa, Eros Pascale, Emanuela Saccardi; scene di Maurizio Balò; costumi di Gianluca Sbicca; luci di Carlo Pediani; suono di Alessandro Saviozzi; traduzione di Masolino D’Amico; una produzione Teatro de Gli Incamminati, Compagnia Orsini, Teatro Biondo Palermo in collaborazione con CTB Centro Teatrale Bresciano e con AMAT Associazione Marchigiana Attività Teatrali e Comune di Fabriano
#RAVENNA
ALTRI LIBERTINI (regia Licia Lanera)
C'è un momento dello spettacolo in cui Danilo Giuva e Giandomenico Cupaiuolo duettano, uno dei pochi botta e risposta dello spettacolo, vera e propria jam session in cui la recitazione si fa musica. Ma potremmo citare anche la malinconia di Roberto Magnani che riesce sempre a farsi rappresentazione credibile dei mondi di Pier Vittorio Tondelli; oppure il bellissimo e potente incipit di Licia Lanera, tutto trattenuto quasi fino all'implosione ,una sorta di prologo che ci porta al 1980, l’anno di pubblicazione del romanzo. Perché è tutto nella prova attoriale questo spettacolo, non c’è colpo di regia che possa fungere da rete di paracadute, i monologhi si stagliano nello spazio, e la scrittura scenica traccia linee immaginarie tra i personaggi dei vari racconti: in questo sta l’atto più autoriale di Lanera, nel cercare un intreccio prima drammaturgico, tra le storie che compongono il romanzo e poi scenico tra le tensioni dei corpi. E dopo quell’abbrivio la regista rimane in scena con gli altri sottraendosi quasi sempre però alla presa di parola in un tentativo quasi kantoriano di abitare lo spazio, da regista interna: segue i suoi con lo sguardo, sorride, talvolta gode con loro per qualche uscita funambolica, oppure il suo volto si fa specchio di un dolore universale. Noi spettatori accecati di tanto in tanto dai fari puntati sulla platea del Teatro Rasi (tornano in mente le luci di certi spettacoli di Antonio Latella di qualche anno fa) seguiamo i racconti di poveri cristi, di amori non ricambiati, di viaggi in cui perdersi, di studenti e spiantati in lotta con l’affitto e il mondo intero. Siamo con Miro - anzi tutti siamo stati Miro - abbandonato sull'autostrada da Andrea, il suo grande e impossibile amore. E allora forse lo comprendiamo quel bisogno di Lanera di trovare un ponte tra dimensioni lontanissime: le vite di quei malandati che negli anni ‘70 agognavano le mille lire per un panino, tra utopie, alcol, buchi e bestemmie e noi in un’epoca sterilizzata, ma in cui il dolore è ancora lo stesso, nelle stesse solitudini, forse ancora più vuote. (Andrea Pocosgnich)
Visto al Teatro Rasi. Di Pier Vittorio Tondelli adattamento e regia Licia Lanera con Giandomenico Cupaiuolo, Danilo Giuva, Licia Lanera, Roberto Magnani luci Martin Palma sound design Francesco Curci costumi Angela Tomasicchio aiuto regia Nina Martorana tecnici di compagnia Massimiliano Tane, Laura Bizzoca “Sono un ribelle mamma” suonata dai Sunday Beens produzione Compagnia Licia Lanera in coproduzione con Albe/Ravenna Teatro si ringrazia Compagnia La Luna nel Letto Il testo “Altri Libertini” è edito da Feltrinelli