Recensione. Come trattenere il respiro è un test di Zinnie Harris – drammaturga e sceneggiatrice britannica – diretto da Marco Plini e prodotto dal Teatro Nazionale di Genova. VIsto alla Sala Mercato.
Un salotto vissuto, affollato, il cui arredamento sconfina tra l’antiquato e il kitsch. Sulla sinistra torreggia un letto dall’intelaiatura di ferro battuto al di sopra del quale è adagiato un plaid. Un appendiabiti colmo di vestiti stravaganti svetta contro la carta da parati damascata e scrostata in alcuni punti. Un sofà è disposto al centro, e sotto di esso un tappeto dall’aspetto polveroso. Nell’angolo a destra, alcuni libri sono appoggiati sul bordo di una scrivania che fronteggia il muro. Una bicicletta a testa in giù, una carrozzina per bambini, una vasca da bagno. Una lampada getta luci soffuse su una scena già abitata da un nutrito gruppo di attori, ognuno intento a sonnecchiare pigramente in quello che sembrerebbe l’attico di una soffitta. Pare non aspettino altro che la giusta occasione per venire “rispolverati”, e non tarda ad arrivare: irrompe sulla scena il regista/narratore (Luca Cattani) che, prontamente, distribuisce i copioni, svegliando la compagnia dal suo torpore.
Il testo in questione è Come trattenere il respiro di Zinnie Harris, inedito in Italia e premiato al Royal Court Theatre nel febbraio 2015. Tradotto da Monica Capuani, ha debuttato in prima nazionale martedì 7 gennaio, alla Sala Mercato di Genova, coprodotto dal centro teatrale MaMiMò e dal Teatro Nazionale di Genova, per la regia di Marco Plini.
Prima sdraiata sul divano, Alice Giroldini, una testata di ricci biondi in un pigiama di flanella, si tira su e, incuriosita, comincia a leggere distrattamente, in un botta e risposta che vede partecipe un altrettanto svogliato Marco Maccieri, scocciato per essere stato interrotto dal suo pisolino nella vasca da bagno. Man mano che la lettura prosegue, gli attori si calano nei personaggi e Alice assume su di sé i tratti della protagonista, Dana, una donna tra i venticinque e trent’anni, che si risveglia da una notte di passione con Jarron, il quale sostiene di essere un delegato delle Nazioni Unite. L’uomo insiste per pagare la prestazione, la donna si rifiuta ed è a quel punto che Jarron le fa una rivelazione: in realtà è il diavolo in persona, che ha appena contratto un debito con lei dal momento che si ostina a non mettere il suo amore in vendita. La conversazione evoca una vicinanza tra i due personaggi, che non corrisponde alla disposizione sul palcoscenico dei due attori coinvolti, fermi nelle loro posizioni iniziali, come a voler sottolineare la distanza emotiva effettiva tra i due amanti.
Marchiata dal diavolo come punizione per non essere stata ai patti, il problema viene posposto di fronte all’imminente colloquio che potrebbe decidere del suo futuro. Di fronte a una commissione esterna di voci incorporee, Dana, al centro del palcoscenico, espone la sua tesi. La recitazione diventa gradualmente sempre più realistica, come gli attori si calano nei loro ruoli, e i copioni vengono abbandonati.
Per quanto Dana viva in una società che non crede più agli dèi, al ritorno dall’incontro si sente spinta a varcare le porte di una biblioteca per cercare maggiori informazioni riguardo ai demoni. Si scontra con la figura dell’apprensivo bibliotecario (Fabio Banfo), che da quel momento in poi diventerà la sua ombra, un angelo custode con una pila di libri sempre tra le braccia, pronto a distribuire manuali in grado di fornire la risposta ad ogni domanda, incarnando la pervasività dei motori di ricerca e la nostra dipendenza da essi per reagire alle circostanze della vita.
Circostanze che si fanno presto tragiche per Dana. Passato il colloquio, la protagonista viene invitata a discutere la sua tesi all’università di Alessandria d’Egitto, con la speranza di ottenere una cattedra. Si mette così in viaggio attraverso l’Europa in compagnia della sorella Jasmine (Cecilia di Donato), la quale ha scoperto da poco di essere incinta. Sulla scena, gli spostamenti sono minimali, le due attrici si limitano a sedersi sul sofà, emulando così l’atto di aver preso posto sui sedili della carrozza di un treno. Il potere evocativo delle parole, in una trama così fitta, sopperisce alla mancanza di concretizzazione del racconto nello spazio, sostituendo con dense proiezioni mentali la realizzazione materiale di quanto viene descritto e creando così un ponte tra la pura attività della fantasia, con le sue immagini generate dalle suggestioni verbali, e l’essenzialità della scena.
Costrette a scendere alla fermata successiva, dopo aver scoperto che i loro biglietti non sono più validi e che le carte di credito non funzionano, le due donne vengono a conoscenza del fatto che tutte le banche europee sono al collasso e non è rimasto più niente a loro nome.
Durante la notte, passata in un motel sgangherato, Jasmine accusa delle perdite di sangue. Viene chiamata un’ambulanza, ma senza soldi nessuno si appresta a soccorrere le due donne, nonostante le grida disperate di Dana. In questa nuova Europa post-tracollo finanziario la sanità è garantita solo a chi può permettersela, e la facciata di civiltà a cui Dana si ostina ad appellarsi, quei buoni sentimenti che dovrebbero scaturire dal contatto empatico con un altro essere umano e le sue sofferenze, poco contano contro la necessità di sopravvivenza. Il linguaggio si fa crudo, anatomico, in relazione ad una scenografia che non cambia: come nel teatro greco, si allude alla tragedia, anche apertamente e con toni caustici, ma questa non viene mai messa in scena in maniera concreta.
La speranza di una rinascita svanisce con l’interruzione della gravidanza di Jasmine come il miraggio di un’oasi irraggiungibile nel deserto si infrange nella lucidità dello sguardo, pur permanendo all’orizzonte, nella sua vanità, illusione nefasta.
Dana, che ha ormai toccato il fondo, vedendo come unica possibilità di riscatto la promessa di un lavoro una volta arrivata ad Alessandria, pur di proseguire nel suo intento, arriva a prostituirsi. È con un monologo lacerante che viene descritta questa scena di una violenza inaudita, dalla contrattazione con un cliente che la deride e la costringe ad abbassare il prezzo della prestazione, fino all’intercorso sessuale che assume i tratti di un vero e proprio stupro. La voce di Alice Giroldini trema, i suoi occhi si gonfiano di lacrime di fronte a un pubblico attonito. Il discorso è talmente esplicito e denso di dolore che non tutti gli spettatori riescono a reggere la tensione: una signora nelle prime file si alza ed esce silenziosamente dalla sala, seguita dallo sguardo provato di Alice.
Con i soldi ottenuti, Dana e la sorella si imbarcano su una chiatta che, attraversando il Mediterraneo, dovrebbe finalmente farle arrivare a destinazione, in Africa. Con loro, descritti a parole, molti altri europei accatastati in ogni interstizio disponibile, in condizioni disumane. Poco dopo, la barca si scontra con uno scoglio e naufraga. «Trattenga il respiro, signorina Dana. Dovrà trattenere il respiro per moltissimo tempo» le suggerisce il bibliotecario, che veglia impotente sul viaggio delle due sorelle. Dana prende fiato. Diventa paonazza, e alla fine cede, inglobando quanta più aria possibile, mentre una brocca di acqua fredda le viene versata addosso, infradiciandole i capelli e il pigiama, come il liquido ipotetico penetra nei suoi polmoni, facendola andare sotto.
Si accascia, e il suo corpo privo di sensi viene recuperato da un delegato dell’ONU, da quello stesso Jarron che ha segnato l’inizio della rovina. Viene dichiarata morta, un volto anonimo tra migliaia di altri cadaveri indistinti di migranti che non sono sopravvissuti alla traversata, ma sarà lo stesso diavolo, contrapponendosi alla volontà del bibliotecario, a decidere di riportarla in vita.
Vestita di tutto punto, Dana è di nuovo di fronte alla commissione di esaminatori e, come se niente fosse, è pronta a procedere con la sua presentazione, portando avanti la convinzione che, superato questo ultimo ostacolo, e nonostante la morte della sorella, tutto tornerà alla normalità.
Affascinato dalla «contraddizione che c’è dentro il nostro mondo, in cui da un lato ci lamentiamo sempre e dall’altro siamo convinti che in qualche modo il capitalismo, il nostro sistema di vita e la presunta democrazia nella quale viviamo ci proteggano da ogni genere di male», per usare le parole dello stesso regista, il testo è stato selezionato per essere portato in scena come racconto agli occhi di spettatori che hanno già vissuto la catastrofe, perché «il fallimento dell’Occidente, in fondo, è già avvenuto», ma noi siamo sempre stati pronti a dimenticarci di tutto, sforzandoci di riprendere il tracciato della vita di prima.
Dana, dunque, di fronte al collasso della società europea, si fa portatrice della vana speranza di una restaurazione della condizione precedente che è frutto di una provvidenza squisitamente laica, una fede cieca nella civiltà dell’uomo come essere dotato di sentimenti profondi ed empatia verso i propri simili. È sulla base dello stesso credo che è portata a provare curiosità e interrogarsi sulla natura del diavolo che ha incontrato, figura emblematica a metà tra l’essere un vero e proprio demonio da una parte e la proiezione della mente instabile di Dana, in particolare della sua visione dell’amore, dall’altra. Tanto centrale da diventare l’ossessione della ragazza in un perverso gioco di potere, quanto marginale per la sua quasi totale assenza di intervento nell’intera vicenda, il diavolo, come Dio, non può immischiarsi nelle vicende umane, di cui gli unici responsabili siamo noi stessi, ma solo vegliare dall’alto, pronto a prendersi colpe di cui non si è macchiato.
La figura di Jarron, in sé, parrebbe incarnare lo spirito della borghesia o del capitalismo, di quei sistemi da cui siamo soggiogati e che pure proviamo ripetutamente a sottomettere al nostro volere nella parvenza di un rapporto reciproco, di protezione. Ma di fronte al crollo di una civiltà, emerge inevitabilmente la natura più fragile e meschina dell’uomo, che porta a distinguere “noi” da “loro”, dai poveri, dai bisognosi, dai migranti che giungono via mare in cerca di una nuova vita, come se con le loro disgrazie potessero diffondere un contagio.
Come trattenere il respiro delinea la tragedia personale di coloro che hanno perso tutto e non temono di raschiare il fondo pur di risalire, e con il sapore della terra in bocca, andare avanti, spinti dal desiderio di normalità e dal sogno di un’umanità civile e comprensiva, in virtù del quale sono disposti, però, a sacrificare anche i propri simili. Uno spettacolo che fa riflettere su cosa significa trovarsi dall’altro lato della barricata con una crudezza verbale che sfiora l’atto pornografico, ma necessaria per scuotere le menti dal torpore dato dall’assuefazione alle immagini di violenza che vediamo proiettate ogni giorno ai telegiornali.
Harris fa del linguaggio un atto rivoluzionario di sensibilizzazione, nella speranza che si aprano gli occhi sulla fragilità delle costruzioni umane.
Letizia Chiarlone
Gennaio 2025, Genova, Sala Mercato
COME TRATTENERE IL RESPIRO
Produzione Teatro Nazionale di Genova, Centro Teatrale MaMiMò
Traduzione Monica Capuani
Regia Marco Plini
Interpreti Fabio Banfo, Luca Cattani, Cecilia Di Donato, Alice Giroldini, Marco Maccieri
Disegno luci Fabio Bozzetta
Musiche originali Alessandro Deflorio
Assistente alla regia Elena C. Patacchini