| Cordelia | febbraio 2025
Tra le tre figlie di Re Lear, Cordelia, è quella sincera. Cordelia ama al di là del tornaconto personale. Gli occhi di Cordelia appaiono meno riverenti di altri, ma sono giusti. Cordelia dice la verità, sempre.
Cordelia è la rubrica delle recensioni di Teatro e Critica. Articoli da diverse città, teatri, festival, eventi e progetti. Ogni recensione è anche autonoma, con una propria pagina e un link nel titolo. Cordelia di febbraio 2025 è online da oggi, seguila anche nei prossimi giorni, troverai altre recensioni.
#MILANO
TOTENTANZ, MORGEN IST DIE FRAGE (di Marcos Morau)
È incredibile come Marcos Morau sia riuscito a rendere noiosa la morte (e senza nemmeno riuscire a esorcizzarla). Tutta la retorica possibile del e sul caro estinto non è mancata nel suo Totentanz, Morgen ist die Frage (stage version) per La Veronal al Festival Fog della Triennale di Milano. Tra il solito dispendio di fumo e tanto buio, il neon effetto obitorio da far altalenare nell’aria (o a effetto croce per terra per rituali sempre un po’ così-così), e con sul palco tanto di barelle per dissezioni anatomiche e cadaveri/manichini/spettri da agitare per aria che però impressionano pochissimo. E poi suoni d’organo che montano e minacciano, pure le campane che toccano a morto, la solita bandiera nera sventolata a li mortacci tua, e i noiosi cluster continui tutti orchestrati sui movimenti inesausti, prevalentemente a scatti, dei quattro performer (bell* & brav*), come in un insopportabile videogioco. Quel che ne risulta insomma è un clima più da risibile fumetto che da carnevale «di una disperata vitalità». Quali segreti sulla fine qui si svelano? Nessuno, tranquilli. Davvero non ho mai avuto la percezione di sapere dove la performance volesse o potesse andare a parare. Nel mezzo, un video mix degli orrori e degli squartamenti di ogni tipo e tempo, coi volti dei cattivi della nostra storia, in una temporalità talmente veloce da non creare mai un vero caso. L’orrore esposto come in vetrine viste in corsa. Poteva già bastare. E poi il finale, in una sorta di rave poco credibile, molto fuori luogo. Morau è artista dal forte immaginario visivo, molto organizzato in termini espressivi ma pochissimo coreografico, per cui io credo abbia bisogno di drammaturgie forti e chiare, solide e vorrei anche scrivere necessarie. A questo giro tutto è sembrato senza idee, sforzato in una soluzione produttiva impropria e soffocante, un poco acchiappacitrulli. Morau dovrebbe fermarsi, e riflettere, su cosa è più necessario per lui, come poter chiarire la sua ricerca, se ne ha una, e come impedire che la sua identità diventi merce di pronta cassa pei mercanti nel tempio, ossessionati dall’iperproduttività d’oggidì. (Stefano Tomassini)
Visto alla Triennale Idea e direzione artistica: Marcos Morau Direzione di produzione: Juanma G. Galindo Coreografie: Marcos Morau in collaborazione con gli interpreti Con: Ignacio Fizona Camargo, Valentin Goniot, Fabio Calvisi, Lorena Nogal Drammaturgia: Roberto Fratini Direzione tecnica e gestione del palcoscenico: David Pascual Progetto sonoro e musiche originali: Clara Aguilar Video design: Marcos Morau, Marc Salicrú, Marina Rodríguez, Albert Pons Design dei costumi e degli spazi: Marcos Morau
#ROMA - Equilibrio Festival
CATHEDRAL (Marcos Morau / Ballet Junior de Genève)
Il balletto cosiddetto Junior di Ginevra è una sorta di incubatore di talenti per la danza, ed è stato un piacere assistere alle performance di questo giovane ensemble che si è esibito sul palcoscenico della Sala Petrassi dell’auditorium romano intitolato a Ennio Morricone. Il cartellone ovviamente è quello di Equilibrio, occasione unica per la danza a Roma che ora si intreccia anche con le ospitalità di Orbita. Nel doppio programma, che prevedeva due lavori coreografici, i giovani interpreti hanno dovuto attraversare due mondi lontanissimi tra loro, due esempi dell’arte coreica di oggi, pensati da Marcos Morau e Alessandro Sciarroni. Il catalano è autore di una spettacolarità totale incentrata sul dato visivo, teatrale e ama lavorare su un piano di subconscio in cui i personaggi umani si mischiano con i pupazzi, le maschere e gli oggetti di scena in grado di narrare frammenti di realtà. Cathedral, il primo dei due pezzi (di mezz'ora ciascuno), sfoggia tutte le caratteristiche mostrate in questi anni da Morau, che però qui rischiano di trasformarsi in un certo manierismo (si guardi a tal proposito alle parole di Tomassini da Milano proprio su Morau). È bellissimo e suggestivo l’incipit: tutto l’ensemble è in fila, alla destra degli spettatori, lentamente si avvicina alla sinistra del palco dove parallelamente alla fila di interpreti c’è un lungo tavolo alle cui estremità due performer sussurrano in francese al microfono. Il tavolo verrà spostato al centro e la musica percussiva (di Arvo Pärt) lentamente si aprirà a note più ariose e armoniche, qui l’ensemble alternerà i tipici movimenti scattosi dei singoli (il linguaggio denominato Kova dall'autore) alle partiture collettive con i soliti effetti ottici dati degli unisoni sfasati che creano delle onde con i corpi dei danzatori e delle danzatrici, anche questa modalità l'abbiamo vista nelle coreografie del recente Notte Morricone. Sul finale compaiono due pupazzi che però non colpiscono per le fattezze troppo neutre rispetto alla ricchezza espressiva usata solitamente dall’artista della Veronal. Lo spettacolo sembra essere un estratto dal più complesso lavoro in scena in questi giorni a Rotterdam e basta dare un'occhiata alle immagini per misurare la distanza dallo show completo.
Visto all’Auditorium Parco della Musica / Equilibrio 2025: Coreografia Marcos Morau, rimontata da Valentin Goniot/Assistente Alma Munteanu Musica Arvo Pärt Luci Mårten K. Axelsson Scene e costumi Silvia Delaugnea Marionette Christopher Kiss danzatori Maxim Detouillon Dandreu, Blandine Janthial, Bailey Kager, Carolina Lopes, Saraï Martens, Aris Papaioannou, Anastasia Pavliuk, Anton Pontet, Marie-Lou Pivoteau, Zoé Raoul, Ivo Santos, Mafalda Soares Costa, Nina Vanhout, Spyros Zikos
TURNING (Alessandro Sciarroni / Ballet Junior de Genève)
Il secondo autore della serata, che ha prestato le proprie coreografie al Ballet Junior de Genève è Alessandro Sciarroni: un artista che ha creato il proprio segno coreografico attorno alla ripetizione, alla dilatazione del tempo, tentando sempre di inserire un elemento di umanità purissima, di comunicazione empatica nella precisa geometria delle sue partiture. Qui il coreografo marchigiano, ormai riconosciuto internazionalmente, riprende un suo lavoro di qualche anno fa dispiegandolo sui corpi dei giovani interpreti dell’ensemble svizzero. Sono schierati sul palco occupando tutto lo spazio: camicie azzurre a varie fantasie, pantaloncini blu o marroni, calzettoni e una fascia rossa o blu, immobili guardano verso il pubblico. Una di loro lentamente comincia ad animarsi, prima con la testa e poi con il corpo, in un atto di rotazione che in pochi minuti diverrà atto di adorazione totale per il movimento; ruotano e guardano il pubblico, il quale restituisce sguardo ed energia, perché altro non si può fare di fronte a questi sortilegi di Sciarroni, vero e proprio stregone del tempo e dello spazio. Qualcuno accenna un sorriso, altri non lasciano trapelare nulla, quasi a cercare uno svuotamento in questa piroetta totalizzante; ognuno interpreta a proprio modo il percorso dentro il movimento, ce n’è uno ad esempio che non nasconde la gioia, la felicità di potersi esprimere in quel contesto, un altro è invece serissimo, un metronomo, non sembra subire la fatica. Qualcuno ha bisogno di rallentare per poi riprendere: il corpo gira su se stesso e allo stesso tempo disegna una traiettoria circolare, non si può non pensare alle traiettorie dei pianeti e degli astri. Piccoli cambiamenti si innestano nella ripetizione: un braccio si alza, un altro va dietro la testa, fino a vere e proprie rotazioni sulle mezze punte. La musica come sempre puntella emotivamente la prova atletica e umana dell’ensemble e l’effetto, come spesso accade con Sciarroni, è quello di scoprire una commozione che improvvisamente, e forse inaspettatamente, ci sorprende.
Visto all’Auditorium Parco della Musica / Equilibrio 2025: TURNING_MOTION SICKNESS REMIX – PRIMA ITALIANA NUOVA VERSIONE 31 MAGGIO 2024 PER JUNIOR BALLET DE GENÈVE DURATA: 30 MINUTI Coreografia Alessandro Sciarroni Styling Ettore Lombardi Luci Sébastien Lefèvre Consulente alla drammaturgia e preparazione fisica Elena Giannotti. Danzatori Maxim Detouillon Dandreu, Bailey Kager, Carolina Lopes, Saraï Martens, Aris Papaioannou, Anton Pontet, Zoé Raoul, Ivo Santos, Mafalda Soares Costa, Nina Vanhout, Spyros Zikos
DANCER OF THE YEAR (di Trajal Harrell)
In che modo agiscono i riconoscimenti sulle personalità artistiche? Un premio è solo un premio o diventa scintilla di indagine, esercizio di consapevolezza? È un gesto di cuore, muscoli e animo la risposta a queste domande che Trajal Harrell - Leone d’argento della Biennale di Venezia 2024 – ci dona, letteralmente come un regalo, nel solo Dancer of the year, presentato in prima nazionale durante il festival Equilibrio 2025. La coreografia suddivisa in 5 parti per la drammaturgia di Sara Jansen ha commosso il pubblico in un’unione armonica di emozioni. Dopo essere stato definito dancer of the year dalla rivista tedesca Tanz nel 2018, Harrell ha deciso di venire a patti con questa definizione creando una performance lirica e autobiografica che ci offre in tutta la sua luccicante spontaneità. Come dichiarato nell’incontro post spettacolo condotto dal direttore di Equilibrio Emanuele Masi «è un lavoro artigianale con cui ho voluto mostrare l'interno di me, tirando fuori quello che ho dentro, tutto quello che posso fare, anche le cose più brutte». A sostenere la semplicità strutturale dei movimenti, è una danza emotiva che si sviluppa bidimensionalmente, lungo un tappeto rosso poggiato su una grande stuoia quadrata, ed è accompagnata da altrettanti movimenti sonori. Questi, musicalmente parlando, possiedono una qualità sentimentale che aderisce alle partiture, all’incedere e evolversi di questo Pierrot che incendia, vivificandolo, il gesto coreografico, come nelle dirompenti sequenze di Twenty Looks or Paris is Burning at The Judson Church. Se la danza è sempre stata esaltazione della forza, Harrell vuole invece esprimere della danza le sue fragilità; un linguaggio che - erede del voguing newyorkese, della postmodern dance e del butoh giapponese – vuole innazitutto tenerci insieme, regalarci il calore che sta dietro un abbraccio, l’energia di un bacio. «I’ve tried to bring you together», dirà alla fine Harrel con gentile e composta onestà.
#ROMA
AHMEN (Collettivo Cromo)
Le migrazioni sono uno dei temi centrali di questa nostra epoca, ma la questione viene sempre discussa nel fuoco di un dibattito securitario, numerico (quanti sbarchi ogni anno? Quanti rimpatri?). Non si discute mai di accoglienza, dei termini che la regolano, di come vivono o sopravvivono gli extracomunitari che lavorano in Italia, anche quelli in regola. Interessante dunque il lavoro della giovane Collettivo Cromo, per la regia di Tommaso Burbuglini: con un’idea strappata dalla realtà, grazie all’incontro avuto con Asim, racconta la storia di un lavoratore pakistano e della suo odissea quotidiana per riuscire a ottenere il ricongiungimento familiare con la moglie. Ha debuttato a Carrozzerie Not dopo un lungo tempo di gestazione (e i passaggi a Powered by Ref e Forever Young della Corte Ospitale) portando in scena pochissimi ma funzionali oggetti: una vecchia e sporca lavatrice, un appendiabiti che farà da separè e poco altro. La discesa del protagonista negli inferi kafkiani della burocrazia avviene tramite il dialogo, da una parte c’è Valerio Sprecacè - che impersona tutti i ruoli con cui viene rappresentata la nostra società respingente (i clienti del negozio di lavaggio in cui lavora il protagonista, i dipendenti dell’ufficio immigrazione, ecc.) - e dall’altra c’è Andrea Perotti. Il suo più che essere un personaggio è una sorta di avatar muto, una maschera silente in grado - con un lavoro minimale di gesti, sguardi e mimica - di restituire una profondissima partitura emotiva: l’ingenuità, l’incomprensione, il sorriso per il minimo passo in avanti, la disperazione trattenuta di fronte al dipendente pubblico per una mancanza nella documentazione. I contorni della messinscena divengono sempre più surreali, fino a quando nell’epilogo la realtà torna a connettersi con la scena, in video appare il vero Asim e un testo proiettato ci aggiorna sulla situazione presente: la fatica per ricongiungersi con la moglie continua. Ahmen di Collettivo Cromo deve ancora raffinarsi, rendendo più nette certe scelte registiche, però apre un discorso importante, politico, su una realtà che facciamo finta di non vedere.
Visto a Carrozzerie Not:Una produzione Cromo collettivo artistico IDEA E SOGGETTO Cromo collettivo artistico REGIA Tommaso Burbuglini DRAMATURG Eleonora Pace CON Andrea Perotti e Valerio Sprecacè VOCE REGISTRATA Asim Javed TUTOR Romaeuropa Festival Eva-Maria Bertschy Progetto selezionato Powered by REf 2023 spettacolo finalista del bando Forever Young 2024 de La Corte Ospitale con il sostegno di Atcl_circuito regionale del Lazio
AMARA TERRA (di Luca Pastore)
Prima dell’inizio dello spettacolo, nel foyer, il pubblico riceve personalmente delle vecchie cartoline, spedite minimo una cinquantina di anni fa: gli inchiostri sbiaditi, i timbri postali che hanno perso la loro definita ufficialità come la posa che lascia il bicchiere sul mobile; le calligrafie indecifrabili alcune, altre impeccabili tanto da sembrare stampate. Sono messaggi brevi volti a testimoniare quello che rappresentano, dei saluti dall’Italia. Quello che colpisce sono i destinatari, la maggior parte famiglie, mai persone singole, ma gruppi, realtà collettive. Le famiglie sono il materiale dal quale si sviluppa Amara Terra di Luca Pastore una sequenza di quadri che uniscono da Nord a Sud un paese fatto di amenità e amarezze, differenti storie, la maggior parte drammi, tramite le quali a essere portata in scena è la storia orale custodita dai nostri genitori e nonni. Questo racconto dei racconti popolari cucito insieme da Pastore e dal cast compone un corredo antropologico a rischio sparizione se non se ne recupera la memoria. Forse quella dei Millennials, e a ben sperare quella della Gen Z, sono le ultime due generazioni che potranno ancora salvare questo patrimonio, e incorporarlo come fanno Miriam Messina, Martina Caronna, Ludovica Avetrani, Claudio Filardi. In una scena riempita di sedie e stoffe e vestiti come a ricreare una camera di famiglia, le attrici e l’attore - alternando con destrezza il polilinguismo dei dialetti della penisola ma con meno rigore il cambiamento dei molteplici registri che vanno dal comico al tragico al grottesco - interpretano diversi ruoli di passate e diverse storie filiali che però ci riguardano da vicino, anche in virtù di una riconoscibile stereotipia. Sono le tracce che ereditiamo, modelli sociali e tare che, se trasmessi criticandone gli aspetti più crudi come fa il testo di Pastore, possono fungere da bagaglio socioculturale per il futuro. (Lucia Medri)
Visto a Fortezza Est: testo e regia Luca Pastore; con Miriam Messina, Martina Caronna, Ludovica Avetrani, Claudio Filardi; musiche e suoni Mattia Yuri Messina; una produzione I Cani Sciolti. Foto Simona Albani
#PARMA
VAUTOURS (AVVOLTOI) (di Roberto Serpi)
Vautours è il testo di debutto di Roberto Serpi, selezionato dal progetto Mezz'ore d'autore di Teatro Due nel 2022, oggi riproposto con una regia condivisa dallo stesso Serpi e degli altri rinomati interpreti della pièce, Sergio Romano e Ivan Zerbinati. All'avvoltoio, rapace che si nutre per lo più di carogne, Serpi associa il mondo del lavoro e della competizione tra ultimi. Ultimi sono i personaggi, necessariamente tre, che abitano lo sgombro e anonimo scantinato di una qualsiasi e anonima grande azienda. Un rapporto, se non di amicizia, almeno di vaga solidarietà nella condivisione del disagio disoccupazionale, che si trasforma ben presto in una vicenda di inganni, menzogne e prevaricazione, nel tentativo di raggiungere a ogni costo un unico irrinunciabile obbiettivo: un posto in azienda. Il rapporto tra i tre e il palco nudo con le sue tubature e porte di servizio ci suggeriscono atmosfere beckettiane, ovviamente, ma anche quelle dei cortili scimoniani; così come l’idiota onesto interpretato con raffinatezza da Zerbinati non può che suggerirci l’insuperabile Lennie Small di Steinbeck. Mentre il plot talvolta inciampa nell’indecisione tra assurdo e verosimile, l’elegante, ritmato, denso testo vuole rimettere alla prova - a occhi attenti forse ingenuamente - un teatro di situazione che rinuncia all'azione, alle scene e agli orpelli per sorreggersi sulle dinamiche relazionali e sull'abilità attoriale; che non manca, ma che soffre della mancanza di una visione registica unitaria ed esterna che sappia mettere ordine in una dinamica drammaturgica a volte discontinua, e che si prenda cura dei pochi, quindi cruciali, elementi scenici; come l’iconico bigrigio Siemens62, unico oggetto costantemente presente e con un ruolo affatto secondario nello svolgimento della vicenda, che, tuttavia, con la sua patina vintage ci porta irrimediabilmente indietro nel tempo in un'epoca che cozza con l'immaginario, pure astratto, che ci siamo fatti della grande azienda e del grande direttore al piano di sopra, così come con i costumi, semplici e senza tempo, di Elisabetta Zanelli. (Angela Forti)
Visto al Teatro Due: di Roberto Serpi; interpretato e diretto da Sergio Romano, Roberto Serpi, Ivan Zerbinati; luci Luca Bronzo; costumi Elisabetta Zinelli; produzione Teatro Due.
#TORINO
GISELLƏ (coreografia di Nyko Piscopo)
Audace, per niente scontata, pur non senza qualche lentezza (nella parte iniziale), è la versione di Gisellə del giovane coreografo (sempre un po’ rannuvolato ma anche spesso mordace e gioioso e curioso e dio solo sa cos’altro) Nyko Piscopo del gruppo Cornelia. Visto in prima assoluta nella bella stagione di danza del TPE al Teatro Astra di Torino. È tutto un atto bianco, sembra la vendetta di un ex-ballerino di fila che spazientito tira un secchio di vernice su tutto quanto, ma invece è un atto d’amore per ciò che ancora è capace di restanza. Molto semplicemente: ogni forma dell’amore. La scena è frugale ma funzionalissima: essenziali strutture lignee sono le capanne del villaggio (del primo atto) ma nella loro radicale semplicità sembrano segni presi in prestito da dipinti di Klee. Il suono, pieno anche di silenzî, sembra musica concreta ma quella bella anni 70 (composta oggi da Luca Cianciello). Vi sono almeno due intuizioni intriganti e ben pensate: Gisellə quando si scopre tradit* si frizza, letteralmente muore per congelamento (e qui Leopoldo Guadagno dà il suo meglio: è una immobilità rabbiosa epperò sofferta, come una rediviva Straccia-capelli-Fracci); lui, Albrecht, il farabutto traditore (Nicolas Grimaldi Capitello maturato e in grande forma) tenta di riscaldarl* ma invano, il corpo gli si spezza proprio fra le braccia; segue un lutto collettivo che è una grottesca gran cagnara (ma la splendida Eleonora Greco, qui Batilde poi suora/badessa che dirige il funerale, mi rassicura: «a Napoli, quando muore qualcuno, facciamo sempre così») poi, per la parte delle Willi, Mirta è nel primo piano di uno Yul Brinner circondato da casalinghe in forma di spettri che sciabattano in uno spazio video, e che dal video (il filmato è il lago del secondo atto) martorizzano il corpo vivo del farabutto traditore manipolandone i gesti (il virtuale insegue e opprime, come nei sogni, il reale); il maledetto verrà salvato, nuovamente. I bellissimi costumi sono pensati quasi come corpi di uno spettacolo a parte, anch’essi tutti costretti in questo ingegnoso, difficilissimo bianco. (Stefano Tomassini)
Visto al Tpe Teatro Astra Nyko Piscopo sound design e musiche originali Luca Canciello scenografia Paola Castrignanò costume design Daria D’Ambrosio costume design (video) Pina Raiano video artist Andrea de Simone aka Desi danzatori Mimmina Ciccarelli, Nicolas Grimaldi Capitello, Leopoldo Guadagno, Eleonora Greco, Raffaele Guarino, Francesco Russo, Sara Ofelia Sonderegger, Matilde Valente danzatori (video) Marina Iorio, Giuseppe Li Santi, Samantha Marenzena, Rita Pujia, Chiara Saracco foto Serena Nicoletti management Vittorio Stasi produzione Cornelia co-produzione Scenario Pubblico – Centro di Rilevante Interesse Nazionale per la danza supporto ATERBALLETTO – Fondazione Nazionale della Danza; Asti Teatro, Officine San Carlo
#ROMA
SECONDO PIANO (di Andrea Giovalé regia Michele Eburnea)
Non diremmo giovani perché sarebbe fare loro un torto. Ormai la categoria - fiaccata dalla retorica escludente dei bandi, dal finto interesse della politica, dalla delusione degli adulti – merita invece di eclissarsi nel suo stato e goderselo finché dura senza che glielo si ricordi. Andrea Giovalé, Michele Eburnea e Sara Mafodda sono innanzitutto tre professionisti che hanno debuttato lo scorso weekend all’Altrove Teatro Studio con Secondo Piano un testo agile ma rigoroso, scandito da tempi comici matematici che, conservando l’impostazione di un esercizio registico- drammaturgico lo porta alla sua maturità completandolo con una scrittura complessa e a più livelli (ipotizziamo anche a più mani). Dopo i titoli di testa che ricordano molto le sitcom degli anni 80’-90’, sul divano appaiono Mumu (Eburnea) e Muma (Mafodda): si definiscono un duo artistico ma non lo sanno fin quando un funzionario (Giovalé) si inserisce nella loro bolla duale – efficace la scelta dei costumi blu in tinta con il divano – e inizia a fare loro delle domande su cosa sono, cosa pensano, cosa vogliono. Ed è proprio davanti a uno di questi interrogativi che la loro solidità viene scalfita da un “sì” dato al posto di un “no”. Del resto le relazioni è così che finiscono, quando diamo risposte diverse a domande inattese. In una drammaturgia ipertestuale ibridata dal linguaggio televisivo, da riferimenti alla slapstick comedy, tra gag e colpi di scena, i tre raccontano un divorzio consensuale in quattro appuntamenti: dalla separazione, alla stipula, fino alla fine. Senza quel rallentamento del ritmo dato da un superfluo intermezzo metateatrale e forse stemperando lievemente il pathos del finale, Secondo Piano crea empatia - Mafodda e Eburnea sono tanto uguali quanto diversissimi - coinvolge per verosimiglianza al tema riuscendo però a creare degli slittamenti di senso, a guardare da fuori i nostri sentimenti con intelligenza umoristica. È un attento uso del mezzo teatrale che non dimentica le logiche della scena, pur contaminandole proficuamente con riferimenti che spaziano dalla tv al cinema alla musica. (Lucia Medri)
Visto all’Altrove Teatro Studio: di Andrea Giovalè; Sara Mafodda; Michele Eburnea; Con Michele Eburnea; Sara Mafodda; Regia Michele Eburnea; Foto di Grazia Menna
BOCCONI AMARI – SEMIFREDDO (di Eleonora Danco)
Lo chiamano istinto filiale in psicologia, quell’attaccamento che si esplicita nella tessitura dei rapporti e anche, soprattutto, nelle nevrosi. Eleonora Danco - che più passano gli anni e più rende affilata, perturbante, imprevedibile la sua ferocia – eleva questo istinto alla sua degenerazione in Bocconi amari – semifreddo, visto al debutto al Teatro Vascello. Una pièce minimale e animale, grigio bluastra come i costumi di scena, che, nella concitazione di un ritmo scenico impeccabile sin dalle prime battute, mette in scena, divorandolo, il dramma borghese di una famiglia romana. In un salotto che sembra di cemento, livido e asettico, il padre Franco (Danco), la madre Maria (Orietta Notari), la figlia Paola (Beatrice Bartoni), i figli Luca (Lorenzo Ciambrelli) e Pietro (Federico Majorana) si riuniscono per il compleanno della madre e attorno alla tavola iniziano a scannarsi. L’interpretazione attoriale e i suoi movimenti si incastrano alla perfezione in un meccanismo di alzate, sedute, silenzi, rimbrotti, imprecazioni e qualche carezza: la madre è insoddisfatta, il padre la difende, la figlia è autolesiva e i figli frustrati. Due attrici mature – Danco e Notari – incontrano due attori e un’attrice più giovani ma non c’è alcuna differenza o paternalismo attoriale, al contrario il livello di onestà scenica uniforma il cast e livella i vari gradi di esperienza. Il primo atto si conclude con la morte della madre, il secondo si apre con il compleanno del padre; sono passati vent’anni e tutto è peggiorato. La crisi economica ha allargato le ferite, i problemi sono incancreniti, ma è qui che la scrittura di Danco lenisce la violenza inserendo dei soliloqui che rifuggono il cinismo del reale, tramite i quali i personaggi si staccano dalla crudeltà dei loro corpi, invecchiati, piegati, indolenziti, plastificati, per evadere nei ricordi d’infanzia, dove c’è ancora aria per il desiderio, reso scenicamente da una danza sollevata sotto una pioggia di fogli di carta, piani di vita effimeri, mai realizzati. Ingoiamo allora il boccone, ma non sappiamo se riusciremo a mandarlo giù. (Lucia Medri)
Visto al Teatro Vascello: scritto e diretto da Eleonora Danco, con Eleonora Danco, Orietta Notari, Federico Majorana, Beatrice Bartoni, Lorenzo Ciambrelli; Costumi Massimo Cantini Parrini; Assistente costumi Jessica Zambelli; Scenografia Francesca Pupilli e Mario Antonini Luci Eleonora Danco; Musiche scelte da Marco Tecce; aiuto regia Manuel Valeri e Maria Chiara Orti; regia Eleonora Danco; produzione La Fabbrica dell’Attore/Teatro Vascello – Teatro Metastasio di Prato.
#MILANO
LA COLLEZIONISTA (di M. Barile, regia M. Lorenzi)
Un teatro che si fa museo. È questa la scena che attende l’ingresso degli spettatori prima che inizi La Collezionista, testo di Magdalena Barile che Marco Lorenzi dirige sul palco del Teatro Elfo Puccini. Siamo nella casa della Marchesa Doris (Ida Marinelli), la grande collezionista in cui rivivono l’opera-vita di Peggy Guggenheim e al contempo la passione di Luisa Casati Stampa per l’arte. Troviamo la donna nella sua casa-museo di Venezia, alle prese con le proteste degli attivisti e con i costi altissimi della gestione, l’impossibilità burocratica di dedicare più all’arte il lusso del vuoto, lo spreco intellettuale, lo scopo della provocazione; attorno a Doris è Marcel, un assistente/amante (Angelo Tronca) che cerca di mantenere l’equilibrio tra la donna e ciò che rappresenta il suo museo, cercando allo stesso tempo di accogliere l’innovazione di due artisti antitetici tra loro ma, forse, nel bene e nel male complementari: Lux (Barbara Mazzi) e Andy (Yuri D’Agostino), forse entrambi immaginari, ma capaci di interpretare la provocazione portandola oltre un limite apparentemente invalicabile. La scena di Marina Conti e le luci di Giulia Pastore definiscono il bianco vorticoso delle pareti e dell’abito che ingloba, disperde lo sguardo e fa apparire le opere esposte nella loro solitudine, proprio la stessa di Doris; poi, quando il bianco cede luce, lo spazio si ammanta di un’atmosfera più calda, in cui prevalgono il giallo tenue e il rosa, un crescente presagio che penetra ogni angolo al punto da far emergere una domanda: chi vive in una casa-museo finisce poi per farne parte? La Marchesa – una Marinelli che passa tra le opere come anche lei fosse tale – è poi disgiunta dall’arte cui ha dato lustro? Il discorso attorno all’arte è lucido, il testo di Barile denso di stimoli urgenti, tuttavia la regia di Lorenzi manifesta un impeto che sembra poco funzionale perché emerga al meglio, tutta l’energia in eccesso innesca una recitazione a tratti scevra di modulazioni avvolgenti, cadenzate, il cui risultato è raffreddare una riflessione invece vivace con cui l’arte dovrà, presto o tardi, fare i conti. (Simone Nebbia)
Visto al Teatro Elfo Puccini. Crediti: di Magdalena Barile; regia Marco Lorenzi; con Ida Marinelli, Barbara Mazzi, Yuri D'Agostino, Angelo Tronca; scene Marina Conti; costumi Elena Rossi; luci Giulia Pastore; suono e video Gianfranco Turco; effetti scenici Tommaso Serra; assistente alla regia Giorgia Bolognani; assistente alla regia stagista Alessio Boccuni; foto proiettate sulla scena: Guido Harari e Armin Linke (dall'archivio del teatro); foto di scena dello spettacolo Laila Pozzo; produzione Teatro dell’Elfo, Ama Factory