Durante la prima edizione delle Giornate d’autore, Incontri, presentazioni e riflessioni sulla drammaturgia internazionale (qui l’articolo sul convegno) promosse da Regio Parma Festival e dal Teatro Due di Parma, abbiamo preso parte al focus su Rafael Spregelburd. Recensione dei tre spettacoli in programma
In un presente disintermediato serve un teatro disintegrato. Alla fruizione digitale, multipiattaforma, parcellizzata, disseminata e dispersiva, il teatro risponde con compresenza e artigianalità, chiamando in causa non l’individuo ma il suo essere insieme, quindi la collettività convocata a un appuntamento. Il teatro si rivolge alla moltitudine perché parla ai corpi che stanno in una relazione biunivoca, in un determinato tempo e spazio. Sono presupposti sui quali, da sempre, trovano fondamento le estetiche ma i cui paradigmi vengono però ora interrogati e messi alla prova al presente. L’arte è ancora per la massa? Esistono le masse? La massa si è, altresì, segmentata nelle bolle social? Ogni qualvolta ci domandiamo quale teatro vediamo, a chi si rivolge, se in futuro potrà competere con le intelligenze generative, se la soglia di attenzione e di ascolto che esso richiede potrà resistere alla volatilità della visione sulle piattaforme streaming e sui social network; la risposta che dobbiamo darci è affermativa. L’occasione per ribadirlo, è stata la prima edizione delle Giornate d’Autore ideate da Fondazione Teatro Due all’interno del percorso Arcipelaghi di Reggio Parma Festival con la collaborazione di Florian Borchmeyer, direttore del FIND Festival alla Schaubühne di Berlino (leggi l’approfondimento sui talk). L’edizione 2024 è stata dedicata a Rafael Spregelburd, regista, autore traduttore e attore per teatro e cinema che, nel testo Sul mio teatro: contagio e DISintegrazione. Scritti su maiali, tacchini, supereroi e altre creature bizzarre (edito da Cue Press, 2024) spiega cosa voglia dire oggi la disintegrazione, ovvero «il tema, la trama, i personaggi stabili e il principio causale non sono altro che i grandi minuscoli atomi che, nel disintegrarsi, rendono visibile l’invisibile, l’energia vagante fra le parti, liberata dalla frizione di quelle parti».
Il focus dedicato all’autore e regista, oltre a un incontro, è stato composto di tre spettacoli diretti da Spregelburd: la prima nazionale di Pundonor di e con l’amata e acclamata attrice e autrice argentina Andrea Garrote; la prima assoluta di Diciassette cavallini, interpretato dall’Ensemble Stabile di Attrici e Attori del Teatro Due di Parma e, sempre in prima nazionale, Inferno. Anche l’ordine nel quale i tre spettacoli sono stati programmati in cartellone sembra trovare una corrispondenza di senso, cioè una sorta di trilogia di opere (che non è stata pensata ovviamente come una trilogia) all’interno della quale sono condensate, come una parabola, tutte le ossessioni del regista: il potere, il caos, il peccato.
Nei tre lavori è centrale la reductio ad unum e ad absurdum dell’essere umano, della sua volontà di controllo e di azione, della scelta che deve ineluttabilmente fare i conti con un potere più grande. Nel monologo Pundonor, l’interpretazione di Garrote è mirabile nel suo sfaldarsi con cura, intelligenza e tensione filiale per il caos. Nei panni della professoressa universitaria in sociologia Claudia Pérez Espinosa, la voce, il corpo e lo sguardo di Garrote fanno i conti con la perdita delle sue consapevolezze; assistiamo e proviamo rispetto e tenerezza e pure inquietudine al disfacimento di una postura che, pur esprimendo grande tenacia, prima inciampa e traballa e poi “cade”, metaforicamente e letteralmente, da una rettitudine alla quale l’insegnante, stanca e fragile, non è più in grado di conformarsi. Alla regia di Spregelburd si aggiunge per complementarietà la regia di attrice di Garrote che riempie, come unica interprete, una scena “da camera” in cui l’azione si svolge in una classe, con tanto di lavagna, gessetto e cattedra. La protagonista Espinosa/Garrote, mentre cerca di portare avanti la sua lezione su Foucault, fa una lezione di vita agli astanti sulla centralizzazione del potere da parte dello Stato e dei media e su come la follia può tramutarsi in uno strumento di ribellione. In alcuni passaggi del testo non risulta difficile pensare a un’opera come il racconto El licenciado Vidriera di Miguel de Cervantes, in cui uno studioso “grazie” alla sua pazzia può finalmente dire quello che pensa della società.
La verosimiglianza è dunque ribaltata, e il rapporto interdipendente tra la regola e l’assenza di regole, la consequenzialità degli avvenimenti, la logica causa-effetto raggiunge il parossismo, sino a precipitare in un’entropia di linguaggio, nel progetto commissionato dal Teatro Due di Parma dal titolo Diciassette cavallini, in cui il mito di Cassandra è suddiviso in un Primo atto: Apollineo – L’oracolo invertito Protosceneggiatura per un film di supereroi e poi ribaltato nel Secondo atto: Dionisiaco – I diciassette cavallini. In una scena in cui l’accumulazione, l’opulenza, la varietà di oggetti scenici appare al pubblico come un’ingordigia barocca, si alternano gli attori e le attrici dell’Ensemble Stabile del Teatro Due di Parma: Alberto Astorri, Valentina Banci, Laura Cleri, Davide Gagliardini, Luca Nucera, Massimiliano Sbarsi, Pavel Zelinskiy. Il lungo lavoro è iniziato un anno e mezzo fa e al primo atto apollineo, che era già stato scritto dal regista, si è accostato il secondo dionisiaco, creato dal regista insieme all’ensemble su moduli di improvvisazione e parti invertite. «Quando si capovolge il tempo, accade quanto di più affascinante per la mente razionale: la catastrofe […] nei sistemi complessi, che a volte chiamiamo catastrofici, le cose viaggiano in tutte le direzioni. La ragione le ordina verso il finale. Ma ci sono resti di frizioni, viaggi a marcia indietro, collisioni con sistemi circostanti». Il compito è arduo e la resa non convince fino in fondo. Se nel primo atto è un divertissement in cui Cassadra è sul lettino dello psicanalista e l’azione sembra già essersi ripetuta ancora prima di iniziare, nel secondo invece assistiamo proprio alla totale assenza di unità spazio temporale in cui gli attori e le attrici sono stati messi duramente alla prova in uno sforzo interpretativo che rasenta l’alienazione. Zoraide, madre malata in fin di vita, il figlio scansafatiche Eleno e il notaio che deve redigere il testamento della moribonda da un lato; dall’altro l’agente Merenda con il quale Imene cornifica il marito Ugo e l’idraulico, il notaio e la voce off di Cassandra e Robert Graves. Attori e attrici iniziano a riavvolgere su loro stessi battute e movimenti costruendo ben 17 moduli di azioni che vengono poi montati e alternati tra di loro senza un ordine precipuo ma nel pieno rispetto di un caos che tutto crea, poi distrugge e trasforma e così via all’infinito. Nonostante la dedizione attoriale, la drammaturgia, oltrepassate le oltre due ore di messinscena, sembra implodere in un vuoto pneumatico di elucubrazione filosofica in cui lo spettatore ha ormai perso tutti i riferimenti, non comprende quello che vede e ascolta e cede a una stanchezza dell’attenzione.
Il tempo può essere plagiato e diventare un’enorme menzogna? Accade se «l’inferno è diventato parola» e se il linguaggio, in quanto parola, controlla l’uomo costringendolo in uno scacco di senso. In Inferno, l’ultimo quadro – termine non casuale visto che lo spettacolo è stato commissionato a Spregelburd per celebrare il 500° anniversario di Hieronymus Bosch – un minuto di agonia dura più di due ore e il risveglio del giornalista di rubriche turistiche Felipe (interpretato dallo stesso Spregelburd) si tramuta in un incubo. Due donne (Andrea Garrote e Violeta Urtizberea), sono state mandate in sogno per comunicargli che il Vaticano ha abolito l’inferno perché l’inferno è ovunque, è nel linguaggio. In questo stravagante, chiassoso e festoso circo degli errori e orrori umani – la musica è suonata dal vivo da Nicolás Varchausky – Felipe dovrà trovare ben sette chiavi di redenzione che corrispondono alle sette virtù teologali di fede, speranza, carità, temperanza, giustizia, prudenza, fortezza. La scena è un’enorme stanza, dai tessuti rossastri e damascati, pesanti e viscosi; una dimensione sensuale e tentatrice fa da sfondo ai sette episodi costruiti drammaturgicamente come uno concatenato all’altro, in cui si canta, balla e ci si difende digrignando i denti (tra gli e le instancabili e eclettici interpreti anche Guido Losantos) sul crinale tra sacro e profano, santità e immoralità, presenza e sparizione. Anche, e soprattutto, grazie ai toni umoristici e sarcastici, non passa inosservato il riferimento alla causa dei desaparecidos, ferita sempre viva e che, in un testo simile, assume un ulteriore valore nella dialettica tra verità e menzogna, salvezza e condanna. Inferno sembra suggerirci che in questa vita abbiamo tutti un’unica opportunità di espiazione dei peccati, dobbiamo solo capire dove abbiamo sbagliato e perché.
La contemporaneità è sfidante, chiede di disintegrare, per integrare, ciò che è già stato disintegrato. Lo abbiamo visto con la frammentazione dell’io nelle avanguardie, e poi il sé catapultato nell’orizzonte post drammatico e ora nell’autofiction. Spregelburd, quando parla del tempo, scrive che «una misura esatta è quella che non si può prendere» e potremmo estendere la sua riflessione all’io e alla sua inafferrabilità misteriosa che non si può misurare e quindi non si può comprendere. È la catastrofe. Ed è a questa che crediamo se la realtà circostante è quella del crollo delle democrazie liberali – Spregelburd è argentino e, come il resto del mondo, ha assistito alla vittoria dell’anarcocapitalista Milei, del “Trump di Buenos Aires” prima che il vero Trump fosse rieletto – della ridefinizione delle sfere di influenza, della pandemia e delle infodemie, della guerra di deterrenza…L’io esploso cerca, nelle varie epoche, di rimanere attaccato inesorabilmente ai suoi pezzi che, prima riproducibili tecnicamente, ora vengono invece generati intelligentemente.
Lucia Medri
Leggi anche Scrivere il teatro oggi. Riflessioni dal convegno internazionale Giornate d’Autore. Di Andrea Pocosgnich
PUNDONOR
di e con Andrea Garrote
scenografia e luci Santiago Badillo
costumi Lara Sol Gaudini
musiche originali Federico Marquestó
illustrazione Lupe Marín
produzione artistica Carolina Stegmayer
regia Rafael Spregelburd e Andrea Garrote
produzione Centro Cultural Recoleta, Instituto Nacional del Teatro, SAGAI
DICIASSETTE CAVALLINI
di Rafael Spregelburd
traduzione di Manuela Cherubini
con Alberto Astorri, Valentina Banci, Laura Cleri, Davide Gagliardini, Luca Nucera, Massimiliano Sbarsi, Pavel Zelinskiy
musiche Alessandro Nidi
scene Alberto Favretto
costumi Giada Masi
luci Luca Bronzo
assistente alla regia Francesco Lanfranchi
regia Rafael Spregelburd
Nuova produzione Fondazione Teatro Due
INFERNO
scritto e diretto da Rafael Spregelburd
con Andrea Garrote, Guido Losantos, Rafael Spregelburd, Violeta Urtizberea
e Nicolás Varchausky (esecuzione musicale)
scenografia e luci Santiago Badillo
costumi Lara Sol Gaudini
musiche originali Nicolás Varchausky
illustrazione Marcos López
produzione artistica Carolina Stegmayer
produzione esecutiva Andrea Stivel e Claudio Gelemur
assistente alla regia Pablo Cusenza
Bello e preciso questo resoconto. Grazie.
Marinella Manicardi