Bassano del Grappa, di qua e di là dal famoso ponte. E i progetti di OperaEstate sembrano proprio muoversi lungo quel ponte, di qua e di là da forme artistiche diverse, ibridazioni e commistioni creative che cercano di spostare il confine della ricerca e dell’innovazione del linguaggio. Abbiamo conversato con Michele Mele, che cura i progetti di danza, su molte questioni riguardanti le produttività residenziale, le riforme, la capacità di un festival di generare e mantenere nuovi pubblici. Intervista
Michele Mele, sei il programmatore e il curatore dei progetti che riguardano la danza per OperaEstate di Bassano del Grappa, anche se c’è da dire che il vostro lavoro, soprattutto per quanto riguarda B Motion, è fortemente d’equipe. Come si svolge la ricerca delle proposte artistiche? Si viaggia, si valuta da remoto, come si conoscono gli artisti?
È bello poter segnalare il lavoro di squadra, con la direttrice artistica Rosa Scapin, con Sofia Girardi, che si occupa della parte musicale e in dialogo con tutto il team abbiamo dato vita alle varie attività che compongono il programma. Per la ricerca, inizialmente c’è un lavoro di scouting che va avanti in modo permanente durante tutto l’anno, attraverso i viaggi, sia nazionali che internazionali, in contesti gemelli o di riferimento dove si va a incontrare artisti e progetti nuovi, come per esempio Live Works di Centrale Fies con cui abbiamo attivato anche una collaborazione, ospitando un loro progetto in residenza e un progetto in programmazione. Anche all’estero ci sono dei contesti di riferimento, tipo Objectifs Danse, che è la piattaforma della danza belga, con cui abbiamo un legame, o Danse Elargie a Parigi, un’iniziativa del Théatre de la Ville con cui c’è un progetto di scambio. Abbiamo attivato anche un form rivolto a compagnie o singoli artisti per proporre progetti di residenza o di spettacolo. Ma di certo il lavoro più importante è quello in rete, sia nei progetti internazionali come per esempio Aerowaves, sia nei progetti nazionali come Anticorpi XL, DNA, o locali come il bando Venere che abbiamo attivato con il Teatro Comunale di Vicenza e con il Teatro del Lemming di Rovigo. Poi c’è sempre la magia dell’incontro con artiste e artisti, io credo molto negli open studios, come quelli della NID Platform, dove puoi vedere dei processi intermedi e così fornire strumenti per portarli avanti.
A proposito dunque delle molte reti in cui siete coinvolti: una volta che la rete è attiva, produce dei ragionamenti come viene strutturato il lavoro? Ci sono degli appuntamenti stabiliti, una cadenza?
A Bassano ho insistito sul discorso di rete, dedicandogli delle giornate professionali all’interno del festival principalmente perché è un terreno sul quale so di dover crescere e credo che condividere ciò che non conosco, sia una postura valida per far capire al pubblico quali siano i miei interessi e i miei limiti. Ad esempio l’anno scorso abbiamo lavorato sui repertori della danza, proprio perché non li conoscevo e volevo fare un percorso di studio insieme al pubblico, chiamando gli artisti che mi avrebbero aiutato a compierlo. La rete è un modello, ma molto permeabile, può essere costituita anche da tre soggetti solamente e si caratterizza in funzione dell’obiettivo specifico che ogni rete ha, quindi ogni rete cambia e cambia anche l’apporto del singolo; però ci sono delle direttrici simili e c’è soprattutto l’approccio orizzontale, si fanno scelte insieme e si ha la possibilità di condividere con altri soggetti dei feedback sulla singola proposta, da prospettive diverse, pur tenendo presente che in una rete l’apporto personale è definito anche dal profilo dell’istituzione che si rappresenta, più che dal proprio metodo di lavoro. Questo è peraltro un tema importante perché poi a stare in rete si sviluppa un vocabolario comune.
Mi piace l’idea di un vocabolario comune, che spesso è più facile costruire con chi parla la propria lingua: ma cambia qualcosa lavorare con un contesto internazionale rispetto al contesto nazionale?
Assolutamente sì. C’è un livello base, nel contesto nazionale, che riguarda gli effetti normativi perché è comune a tutti i soggetti che sanno quali obiettivi devono produrre sia in termini numerici che qualitativi, c’è corrispondenza prima di tutto per simili esigenze e ciò crea un territorio, anche se poi già da nord a sud c’è differenza. Immagina allora quanto questa differenza possa crescere in un contesto internazionale, dove le esigenze sono estese e variano al punto che non si possono paragonare per esempio riflessioni sul budget o tempi di lavoro in luoghi tra loro così diversi. Questo, se da un lato è una difficoltà, dall’altro ti apre molto ad avere una permeabilità che ti spinge a rimodellare le prospettive di collaborazione, così che nello specifico, se Aerowaves era un solido legame già in precedenza, io ho cercato di tenere presente questa diversità costruendo delle cooperazioni bilaterali, come ad esempio l’accordo che stiamo siglando con un’istituzione belga, Le Grand Studio, che prevede residenze incrociate per gli artisti e le artiste.
A proposito di residenze, in questi anni è una pratica cresciuta in maniera esponenziale, al punto che sembrava, per artisti e istituzioni, una sorta di paese dei balocchi. Poi nel tempo, con la regolamentazione, sono sorte delle criticità: quali sono gli aspetti positivi e o negativi della produttività residenziale?
Allora ecco, condivido con te qual è la mia insoddisfazione più grande: l’ incapacità di seguire veramente quello che succede durante le residenze, perché il mio resta un tempo tempo ordinario rispetto a quello dell’artista in studio, riuscire a farli coesistere è davvero difficile. Per risolvere il problema sarebbe opportuno avere non solo gli spazi o i fondi per quella ricerca, ma anche dotarsi di competenze trasversali a livello organizzativo, curatoriale e anche drammaturgico. Ma questo pensiero va di pari passo con le disponibilità economiche che spesso non permettono, come invece all’estero, di corrispondere sempre agli artisti un compenso adeguato. A Bassano siamo fortunati, perché grazie all’esperienza maturata abbiamo spazi concepiti e soprattutto equipaggiati in funzione di tali esigenze, anche abbastanza diversi tra di loro e quindi pronti a poter raccogliere progetti che hanno esigenze diverse (danza, musica, teatro, drammaturgia) quindi negli anni abbiamo potuto diversificare gli spazi, riuscendo così anche a fare più residenze contemporaneamente e permettendo agli artisti di condividere momenti di ricerca comune e creare legami.
Però certo, ne parlavamo prima, la burocrazia ha dei binari stretti di carte sopra altre carte, come si fa a conservare una visione poetica in questo marasma?
A volte non le devi leggere le carte, devi coprirti gli occhi e poi capire alla fine se quello che hai sognato può coesistere con quello ti viene chiesto. È difficile, anche perché in termini di criteri qualitativi e quantitativi, l’attività dei teatri nazionali, aveva bisogno di essere rivista soprattutto nel merito delle coproduzioni, degli scambi, ma se quei parametri vengono per osmosi applicati poi a tutta la filiera, e in particolare ai festival, significa che è molto difficile mantenere lo specifico della propria missione. Se un festival deve fare solo numeri e riempire gli spazi, come dedicarsi all’innovazione e alla ricerca?
In merito proprio alle riforme, c’è stata tanta polemica attorno alla questione manageriale di una direzione: da un lato il manager permette un equilibrio aziendale maggiore, ma dall’altro molti dicono che un teatro deve essere diretto da un artista. Cosa cambia secondo te quando a dirigere è un artista o un manager?
Non tutti gli artisti sono in grado di avere dei ruoli direttivi, così come non tutti i manager e gli organizzatori hanno una visione artistica. Non è una questione di ruolo, è una questione di merito. Gli artisti che dirigono un teatro e che producono e dirigono le proprie regie, in che modo lavorano in quel teatro per dargli un profilo pubblico e nazionale? Io non credo che al momento siano molti in Italia gli artisti che possano svolgere un tale ruolo, mi vengono in mente Pippo Delbono, Emma Dante, Antonio Latella, Romeo Castellucci, i Motus se parliamo della generazione dei miei maestri. Nessuno dirige un teatro.
Ma c’è poi il problema, e qui torniamo al punto precedente, che si trovano di fronte appunto ai gangli stretti di questa burocrazia, quindi poi si torna a pensare di suddividere le competenze e parlare di consulenza artistica da un lato, direzione artistica e consulenza o direzione amministrativa, con la conseguente duplicazione degli stipendi: sembrano proprio due luoghi completamente diversi che a volte confluiscono in una persona sola, a seconda di chi viene coinvolto. Come la risolviamo?
Semplicemente servono organizzatori e curatori che sappiano lavorare con gli artisti e le artiste. Una delle persone con cui mi trovo meglio tra colleghi e colleghe è Piersandra Di Matteo, con cui condivido una lunga esperienza a fianco degli artisti anche se in ruoli diversi. Un artista vorrà esprimere il suo linguaggio e la sua arte, rivendicherà per sé attenzioni, risorse, e ci sarà bisogno sempre di qualcuno che invece a fianco gli metta in evidenza aspetti che non sono l’arte in sé ma lo stesso riguardano la creazione. Dunque il modello è virtuoso ma ripeto, l’importante è il merito.
Simone Nebbia