Questa recensione fa parte di Cordelia di novembre 24
Lucia (Zoe Solferino), detta anche “Miss Ufo”, vive isolata nel centro della Sardegna, è stata una ricercatrice scientifica, una di quei geni che di solito esportiamo all’estero. Ora imbraccia un fucile, ha paura, ed è arrabbiata. «Una pazza» che riceve la visita di una giornalista, Martha (Grazia Capraro), che deve intervistarla a proposito del suo rapimento. In fondo al campo scritto e diretto da Giulia Bartolini è andato in scena la scorsa settimana in prima nazionale al Teatro Torlonia e inserito nella rassegna Flautissimo, che dal ‘91 viene organizzata dall’Accademia Italiana del Flauto. La scena è scarna, molto estesa ai lati e in profondità, e senza quinte; il vuoto tutto intorno e in alto ottunde le battute rendendo le parole a volte distanti e ovattate. La prossemica è quasi bidimensionale, su una linea, le due attrici agiscono in proscenio e occupano il retro solo nel finale per restituire la profondità del campo d’orzo dove è avvenuto quello strappo nella mente e nel corpo di Lucia. Quegli «8 minuti» in cui tutto cambia per non cambiare più, che ci lascia invischiate nello scollamento dal reale e nella fatica quotidiana di uscire fuori dal limbo. Come dirà più volte Lucia – la reiterazione, fino alla non sopportazione, è un elemento distintivo del testo, come un autismo dei personaggi – questo rapimento le ha fatto esplodere il suo cervello da Nobel: «tutto quel cervello, eccolo… materia grigia spiaccicata». La drammaturgia è costruita su queste amnesie e rimossi, ma più che sulla sottrazione si sviluppa sull’accumulazione: gli a parte di Martha – per disequilibrio dei ruoli, conosciamo più l’intervistatrice che l’intervistata – generano un’entropia di senso che si discosta dalla suspense, centellinata, dell’inizio. L’interpretazione è specifica, matura per entrambe, il senso del testo, invece, sfugge a una chiara comprensione e quando si legge nelle note «è un testo al femminile ma non femminista» resta il dubbio che si sia voluto scegliere necessariamente una dicitura per definire un tema sulla carta che in scena tema però non diventa, e non basta a centrare il testo. Le protagoniste sono due donne, certo, ma con questo non è automatico che l’elaborazione dei traumi delle loro vite scelga il punto di vista di genere e tralasci quello politico, o viceversa. I due aspetti possono invece essere interdipendenti ma in questo caso non sono organici, anche se volessimo separarli, e risulta fuorviante indicarli solo perché in scena assistiamo a un testo scritto, interpretato e “che parla di donne”. (Lucia Medri)
Visto al Teatro Torlonia durante Flautissimo rassegna multidisciplinare: di Giulia Bartolini, con Zoe Zolferino e Grazia Capraro, regia e drammaturgia Giulia Bartolini, attrici Grazia Capraro, Zoe Zolferino, musiche Vanja Sturno, scene Compagnia KARL, produzione Flautissimo festival/ Stefano Cioffi e Compagnia KARL, foto di scena Francesca Cassaro. In collaborazione col Teatro di Roma (Lucia Medri)
Mi dispiace ma non concordo assolutamente con quanto scrive Lucia Medri. Lo spettacolo non si occupa di femminismo ma di umana sensibilità esistenziale femminile, obiettivo che credo sia condivisibile da chiunque. Uomini compresi. “La materia oscura è il dolore”: questa la colonna vertebrale dello spettacolo, affidato a due interpreti che lo hanno impreziosito con rara efficienza scenica. La politica non c’entra nulla e sarebbe ora di parlare di “esistenza” e abbandonare la battaglia degli slogan che ha solo immiserito la società e la politica stessa e che ha proseliti solo perché esime dal pensare profondo.
Buongiorno Fabrizio, ben venga che non sia d’accordo. Credo sia importante avere punti di vista diversi. Ribadisco tuttavia quanto già affermato nel pezzo: il valore delle interpreti è acclarato mentre la drammaturgia ritengo non sia molto messa a fuoco; c’è un disequilibrio nella scrittura dei ruoli e il tema, fosse anche quello del dolore – ma non è solo quello – non riesce a emergere con nettezza perché i segni inseriti sono confusi. Quando scrivo “testo al femminile ma non femminista” faccio riferimento agli stessi termini usati nelle note di regia dello spettacolo, rispetto alle quali penso sia una dicitura non necessaria, anzi fuorviante. Solo perché in scena assistiamo a un testo scritto, interpretato e “che parla di donne” dobbiamo leggerlo alla luce dell'”umana sensibilità esistenziale femminile”? Se ci fossero stati degli uomini avremmo parlato di “umana sensibilità esistenziale maschile”? O invece ci saremmo concentrati sulla profondità dei sentimenti scandagliati a prescindere dal genere? Mi piacerebbe che queste mie domande non fossero recepite come giudizi ma come interrogativi circa il bisogno di chiamare “femminile” tutto ciò che riguarda le donne. Grazie ancora per il confronto, saluti.