Al Piccolo Teatro Studio Melato di Milano è andata in scena la rilettura del classico shakespeariano Sogno di una notte di mezza estate con i neodiplomati della Scuola di Teatro del Piccolo, nella penna di Riccardo Favaro e con la regia di Carmelo Rifici.
Di fate e incanti, di sconfitte e (dis)amori, di magie e superstizioni. Di ciò che si dice, perché non si può più tacere, di ciò che si nasconde nell’eterna fuga da e per se stessi. Dello smarrimento che si rende necessario, ad un certo punto: uno smarrirsi come ricerca repentina del caos ma anche come forma del ri-trovarsi e del ri-conoscersi, uno smarrirsi per sprofondare e giungere alle estremità di ciò che è noto per fondarsi.
È una tensione continua questo Sogno di una notte di mezza estate di Carmelo Rifici, fatto di perdite e ritrovamenti, una lotta tra l’originale del classico shakespeariano e la scrittura di Riccardo Favaro che lo rilegge in chiave contemporanea puntellando la trama di affondi, personali e caratterizzanti, che sono al tempo stesso voraginosi squarci verso sonorità roboanti. “A Riccardo – spiega il regista nelle note di sala – ho chiesto di ingaggiare una vera e propria guerra con il testo, senza vincitori né vinti, di farne semplicemente un campo di battaglia dove lavorare insieme agli interpreti”. È in quest’arena terrosa di incontri e scontri che si radicano i monologhi di Filostrato e Ippolita, invettive taglienti che narrano delle rovinose derive dell’esercizio autoritario del potere (“Il potere tutto possiede, il potere è spavento” dice lei), della violenza che permea i rapporti e che si insinua come un silenzioso veleno nel testo shakesperiano. Rifici, d’altro canto, esplicita, amplifica e porta ad un livello di “grido” ciò che l’opera originale sottende: la critica ad un sistema in cui vige la “legge del padre” e in cui il femminile incuba i semi della ribellione al maschile. Una ribellione al re, quella di Ippolita – bottino di guerra di Teseo e sua futura moglie – che urla il proprio sgomento e si riappropria della voce che insistentemente le viene negata (un microfono che le viene ripetutamente tolto di mano), ribellione al padre, quella di Ermia che intende fuggire nel bosco con l’amato per non sposare l’uomo prescelto dal genitore, ribellione al marito, quella di Titania che non vuole cedere il giovane paggio oggetto delle gelosie del compagno.
Eppure, nonostante i continui riferimenti all’opposizione tra maschile e femminile, tra norma e sua defezione, tra civiltà e suo abbandono, ogni personaggio sembra vivere più ancora in se stesso – che al di fuori di sé – una particolare scissione oppositiva, una duplicità inconciliabile a cui solo gli spiritelli del bosco sembrano trovare una risoluzione, seppur illusoria, con l’arte della magia. Pozioni di un rosso infuocato, versate sugli occhi di chi il fato – che meglio si descrive in questa circostanza come il capriccio vizioso di altissime entità fiabesche – ha designato d’esser colpito, sono capaci di invertire l’ordine prestabilito delle cose, in un bosco in cui tutto diviene possibile, anche l’amore tra la Regina delle Fate e un giovane asinello, nelle giocose e precise interpretazioni di Silvia Di Cesare e Daniele Di Pietro. Emblematica, in questa cornice, è la scelta registica di sdoppiare internamente il personaggio di Puck, perennemente in lotta tra un sé buono/bianco (goffo e tenero nella performance di Pasquale Montemurro) e uno cattivo/nero (meschino e audace in quella di Joshua Isaiah Maduro), tra la volontà di obbedire e trasgredire, di assumere o invertire la legge della foresta, così dotandolo di una particolarità caratteriale forse prima marginale.
Il luogo di ogni accadimento è una scena fatta interamente di terra, composta e umida, pesante al passaggio degli attori, firmata con estetismo da Paolo Di Benedetto e disegnata dalle luci calde di Manuel Frenda: una terra che ricorda fragranze muschiate e terrose, il tipico odore che esala la natura dopo una tempesta estiva. Sparsi su questo terreno, attorno ad una botola che imprigiona nel sonno i personaggi della commedia shakespeariana, i microfoni attendono chi se ne impossessi e li attivi; anche qui, un gioco di forza, una dinamica di potere, che Rifici è in grado di riproporre come un segno conturbante (nell’accezione di unheimlich) nel corso dello spettacolo senza forzare troppo le trame dell’originale. Sul suono, poi, il regista dimostra una capacità sperimentale che non s’impone come di consueto nei suoi lavori, anzi essa viene resa al servizio delle giovani voci degli interpreti, attori neodiplomati alla Scuola di Teatro Luca Ronconi, che si cimentano sia nelle elaborate risonanze vocali – di caratura sono gli urli squamosi e viscerali di chi ha solitamente la voce negata – che nelle prove musicali live.
Così, anche lo specchio che tutto sovrasta posto a fondo del palco, su cui continuamente si esercita uno sdoppiamento riflettente non solo dei personaggi, ma del pubblico stesso che in esso si rivede, ribaltato, sovverte i principi della visione: chi è visto si vede, chi esercita la forza la subisce (nelle riflessioni, per esempio che vedono corrispondere Titania a Teseo, Oberon a Ippolita).
“Volevo mettere in atto un tentativo non di piegare il testo – dice Carmelo Rifici – ma di far sì che esso rivelasse i propri interstizi più oscuri. Sono abbastanza convinto che il Sogno racconti la crisi di un patriarcato senza più certezze e lo sgomento di una comunità di giovani che non si riconosce più in quell’impostazione, se non percependola come una legge assoluta, cui deve obbedire perché così è dato, perché non è permesso esimersi.”
Nella povertà essenziale della scenografia, questo Sogno insiste sulle note al testo originale, per creare una lente di ingrandimento sui personaggi e sulla carica febbrile dei loro moti, interni ed esterni, su un’energia giovane e palpitante che tutto ricorda dell’opera di Shakespeare e che il team composto dagli attori neodiplomati della Scuola riesce a rendere con nuova freschezza. In questa rivisitazione, è la voce vividissima di una generazione intera che prende il sopravvento, forte perché compatta e organica nello sforzo, una voce che è corpo collettivo e che sembra con impeto prendere da sé la parola, senza chiederla, forse solo perché non teme più lo smarrimento, la dispersione, il vuoto di certezze in cui è stata abituata a crescere e non teme nemmeno più il discorso sulla violenza: è la voce di una generazione che è davvero pronta, ora, ad accogliere e rielaborare quella “messa in crisi del padre, della legge, della nazione, della patria” stessa.
Andrea Gardenghi
Visto a dicembre al Piccolo Teatro Studio Melato di Milano
Sogno di una notte di mezza estate
(commento continuo)
PRIMA ASSOLUTA
di William Shakespeare / Riccardo Favaro
regia Carmelo Rifici
scene Paolo Di Benedetto
costumi Margherita Baldoni
luci Manuel Frenda
cura del movimento Alessio Maria Romano
musiche Federica Furlani
assistente alla regia Ugo Fiore
con Giacomo Antonio Maria Albites Coen, Andrea Bezziccheri, Agnese Sofia Bonato, Clara Bortolotti, Stefano Carenza, Bianca Castanini, Simone Pietro Causa, Giada Francesca Ciabini, Miruna Cuc, Simona De Leo, Silvia Di Cesare, Daniele Di Pietro, Marco Divsic, Ion Donà, Ioana Miruna Drajneanu, Cecilia Fabris, Joshua Isaiah Maduro, Pasquale Montemurro, Sofia Amber Redway, Edoardo Sabato, Caterina Sanvi, Pietro Savoi, Simone Severini, Lorenzo Vio
produzione Piccolo Teatro di Milano – Teatro d’Europa