Questa recensione fa parte di Cordelia di dicembre 24
Due sorelle, una madre, una pecora. Un pickup, un padre defunto, l’intuizione di un cielo enorme sul vuoto pneumatico di una prateria tra le cose e le persone. Il fantasma di una nonna vaga nell’immensa distesa, dove si perse tanti anni prima in una tormenta. Sarah (Federica Carruba Toscano) e Hannah (Arianna Cremona), due sorelle, sognano di lasciare una casa troppo piccola in quella landa troppo grande, di allontanarsi da una madre imperscrutabile e inafferrabile, sempre oltre una spessa coltre di nostalgia. L’angosciante attesa di una catastrofe è la cifra de Il nostro martello è in mano a mia figlia, testo del drammaturgo e sceneggiatore statunitense Brian Watkins: una catastrofe che sembra conseguire all’entropia innescata da un’altra catastrofe, più antica. La storia si ripete, e ripetendosi si sovrascrive, come cancellando le sue onnipresenti tracce, incrementando un senso di oppressione e di impotenza che filtra nei non-dialoghi tra le sorelle, nei tic nervosi e nelle coazioni a ripetere gesti fisici. Prima di morire (o fuggire?), il padre lascia alle tre donne un sontuoso pick up che le sorelle bramano per la fuga, ma anche una pecora, Vicky, bestia troppo stupida per essere addestrata a stare in casa e che continua a sporcare e a urtare cose che non dovrebbe. Eppure la madre ama la bestia inebetita. Il silenzio dell’animale diventa simbolo insopportabile di quel tutto doloroso e muto. Fa venire in mentre la capra di una famosa poesia di Umberto Saba, fa venire in mente ogni capro espiatorio e il male di cui si fa carico. Mentre Hannah e Sarah preparano di malavoglia una cena a sorpresa per il compleanno della mamma, Vicky commette l’errore di entrare in cucina e rovesciare una pentola di sugo proprio mentre le due sorelle vivono l’unico momento di empatia e leggerezza nel dramma. L’imprevisto porta a un’esplosione di violenza contro l’animale, che stravolge il ritmo e il linguaggio della piece, verso un finale pànico, straziante, disturbante. Carruba Toscano e Cremona ci portano dentro un testo raffinato e potente, la cui scelta è felicissima e suscita curiosità verso una scrittura al contempo giovane, ma consapevole di una tradizione americana di paesaggi e caratteri marginali. Vite lontanissime dalla nostra quotidianità urbana, ma proprio per questo specchio di un’area fata di violenza e desiderio, remota ma radicata in ciascun* di noi.
Visto al Teatro Tor Bella Monaca, di Brian Watkins; traduzione Enrico Luttmann; con Federica Carruba Toscano e Arianna Cremona; regia Martina Glenda; scene Sara Palmieri; disegno luci Sebastiano Cautiero; realizzazione costumi Nunzia Russo; produzione La Contrada Teatro Stabile di Trieste