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Fabrizio Sinisi. Parola agli attori

Fabrizio Sinisi è uno dei maggiori drammaturghi italiani (il suo Orlando da Virginia Woolf ha appena debuttato con la regia di Andrea De Rosa a Torino). Eppure questo mestiere, il drammaturgo, è spesso compresso nell’equivoco, incarnando quella figura di scrittore di testi non conclusi con la pagina stampata. Attorno a una tazza di caffè nel chiostro del Piccolo Teatro di Milano, mentre l’inverno via via scalzava l’autunno dal centro città, siamo entrati nel suo laboratorio di scrittura.

Fabrizio Sinisi fotografato da Luca Fiore

Che cosa significa drammaturgia? Diciamolo in maniera ferma per una volta, perché ultimamente mi sembra che la parola, o l’aggettivo drammaturgico, siano stati usati un po’ a caso e allora forse è necessario fissare di nuovo dei punti cardinali.

Io penso che sia un compito politico trattare il teatro come fosse un laboratorio, perché ogni epoca ha bisogno che la sua esperienza venga convertita attraverso il linguaggio. Il teatro è rimasto, o dovrebbe rimanere un luogo dove ogni epoca elabora le sue parole, i suoi temi e il modo di trattarli. La drammaturgia è dunque proprio l’elaborazione dei processi del linguaggio nel contesto teatrale, la ricerca di parole adeguate a processare i problemi. Quando mi metto a scrivere non so cosa succederà, né a livello di sviluppo del processo, né a livello di lingua, perché è un processo di scoperta. Davanti alla pagina so il punto da cui parto, ma non so dove arrivo, perché l’autore è solo un fattore, tra altri fattori, che stimola una comunità intorno a un processo linguistico, con il fine di indagare la realtà.

Ti racconto e ti dono una frase che mi ha detto un’alunna giorni fa. Abbiamo fatto il tema in classe e lei ha scelto una traccia un po’ intima. Di solito non è molto espansiva, invece stavolta alla fine era allegra. Ho detto: Come è andata? Mi ha risposto: Prof, l’ho riletto e sono felice perché io non pensavo di sapere queste cose.

Ha detto tutto. Bellissimo. Che poi non è una cosa che riguarda solo gli scrittori, tutti usiamo il linguaggio. E una debolezza del linguaggio è anche una debolezza dell’esperienza, della consapevolezza; quindi l’espansione ne intensifica il godimento, ti libera e ti permette di fare un percorso che altrimenti non faresti.

Black Star di Fabrizio Sinisi regia Fabrizio Arcuri

Mi viene sempre in mente un’intervista a Fellini in cui un giornalista chiede, forse ingenuamente: Maestro, ma è contento del film che ha fatto? È così che ce l’aveva in mente? E Fellini candidamente risponde: Se io avessi fatto il film che avevo in mente all’inizio, avrei fallito. Io lo faccio proprio per cercare di fare un’altra cosa, sennò che lo faccio a fare.

Infatti c’era quel film che non ha mai fatto, Il viaggio di Mastorna. E lui a un certo punto dice: Probabilmente questo film non lo farò mai, però è il film che mi serve per fare gli altri film perché pensando a come fare quello, sperimento le direzioni per fare gli altri.

Appunto restando sull’idea, come ti accorgi che una cosa la vuoi proprio raccontare? Cioè, che effetto ha su di te? Perché scegli proprio quella?

Secondo me sono le stesse cose di quando ti innamori, di quando ti scoppia una passione. Spesso c’è all’inizio un ragionamento, un tema, qualcosa che sembra astratta e che però si incastra nel cervello e rimane lì. Da lì parte allora quel processo che dicevamo prima, cercando poi tutte le cose che potrebbero essere utili a svilupparlo. Sto lavorando così anche per i prossimi lavori; uno è su Casanova, ma è un’idea partita da Fabio Condemi, l’altro invece è proprio un progetto personale: un lavoro sulle Brigate Rosse a partire da una cosa detta da Mario Moretti, ex capo delle BR, nell’intervista con Rossana Rossanda uscita con Mondadori in un libro pazzesco, una miniera di riflessioni. Lui diceva che nella storia delle BR ci sono molte cose terribili, molte cose anche tragiche, ma non c’è niente di sporco, niente di fetido o di putrido. Cose terribili, anche tragiche, ma non fetide e non sporche. A me questa distinzione è rimasta incastrata nel cervello. In un anno non ho praticamente letto, studiato e indagato altro che quello; il processo mi sembra sempre quello di tirare un filo: vedi una cosa, strattoni, capisci che dietro c’è altro e inizi a tirare svolgendo la matassa.

Ph Marcello Norbert e Luca Manfrini. Medea per strada, drammaturgia Fabrizio Sinisi ed Elena Cutugno ideazione e regia: Gianpiero Borgia

Bene, questo appartiene agli inizi, invece quando finisce, se finisce, il lavoro del drammaturgo?

Arriva a un certo punto il momento in cui diventa il lavoro del regista e degli attori. Io non sono geloso delle cose che scrivo e a me questo passaggio dà anche sollievo, perché, essendo un insicuro cronico, un solitario, il fatto che esista un altro che lavora su quanto ho fatto mi rassicura, il teatro ti costringe a lavorare con gli altri e quindi non l’avverto con ostilità; e forse questo è anche uno dei motivi per cui non ho mai fatto regia, perché la presenza del regista mi conforta e mi aiuta. Il momento del distacco in realtà è molto indefinito, perché dopo la consegna il regista chiede di rivedere certe cose e per un periodo resta tuo, ma quando entrano in gioco gli attori con cui provare le scene, la stessa scenografia, allora vuol dire che il testo è passato di mano.

E quando lo vedi poi in scena quel tradimento, lo chiamiamo così non a caso, quando diventi pubblico del tuo stesso testo, come ti fa sentire?

Le prime due o tre volte mi sento in imbarazzo, perché è come se quello che è nato sul foglio te lo senti gridato dentro un megafono ed è terrificante perché senti amplificati tutti quelli che consideri i tuoi errori; Testori diceva che dallo scrivere teatro non si torna mai indietro perché il teatro ingigantisce i particolari, crea dei vortici di avvicinamento alle cose per cui una singola parola sulla pagina non sarà mai come quando è interpretata da un attore, c’è quell’effetto di potenziamento della parola. Non ho mai quella superbia di disprezzare un attore che lo recita, anzi mi sento iper responsabilizzato dal fatto che un attore debba recitare le mie parole e magari sono brutte, quindi all’inizio mi sento in colpa, poi scopro delle cose in più, come se l’opera venisse continuata, non da me ma da altri. Peraltro in Italia i testi di un drammaturgo contemporaneo non è che vengano fatti da altri artisti, quindi mi viene facile identificare il mio testo con il lavoro della compagnia che lo porta in scena, come se la fase di scrittura in realtà finisse solo con la messa in scena. In genere si crede che l’autore abbia ordito delle trame o qualcosa del genere, ma io l’opera a volte non so neanche perché l’ho scritta, non esiste la volontà dell’autore perché le corrispondenze, tutte le intenzioni, a volte corrispondono a quel movimento autonomo della lingua che sta in un testo almeno alla pari rispetto all’idea di un autore.

Foto Antonio Ficai. La gloria, di Fabrizio Sinisi, regia Mario Scandale

I drammaturghi storicamente si dividono tra quelli che lasciano fare e quelli che invece riempiono di indicazioni il regista e gli attori: che rapporto hai tu con quella che viene in genere definita didascalia?

Nei miei testi non ci sono didascalie, non le uso perché credo nel lavoro del regista e degli attori e penso che la messa in scena di un testo non sia la replica in verticale della pagina scritta: il testo è solo una partitura ma l’azione è un’altra; poi scrivo testi che raramente hanno una dimensione situazionale con azioni concrete, io prevedo delle partiture di linguaggio e poi sono gli attori e il regista che provando capiscono quale sia il tipo di azione, anche perché la parola è un’azione, c’è un preconcetto per cui se un attore parla non sta facendo qualcosa, sta solo parlando, ma il parlare, se è un parlare sensato che muove il senso, è un’azione.

C’è una cosa che mi incuriosisce in merito proprio alla trasformazione delle cose in parola, in linguaggio. Antonio Tabucchi, quando gli chiedevano dei personaggi, raccontava che era come stare in una stanza d’albergo a Singapore e a un certo punto, nella stanza d’albergo a Singapore, arriva lo zio di Lucca morto da tanti anni a cui dare necessariamente ascolto. Tu che relazione hai o senti con i personaggi che via via prendono vita grazie a te? Anche se, come dicevi, non sei un miniaturista del presepe, è chiaro, ma delle umanità escono dalle tue idee. Ti rimane qualche rapporto con i personaggi creati?

Un personaggio funziona in Eschilo come in Shakespeare se ha un meccanismo interno che lo fa muovere e crea la voce, che sviluppa una matassa e poi pian piano un vero e proprio personaggio, come con la palla di neve quando siamo piccoli, che via via scendendo diventa sempre più grande perché accumula materiale, un personaggio cresce fino a camminare da solo, finché non si incarna nell’attore che lo farà vivere del tutto, al punto che poi faccio fatica a scindere gli attori e le attrici dai personaggi dei miei testi che portano sulla scena, queste creature quasi magiche che ti fanno fare dei percorsi di verità attraverso il loro corpo, tragitti di conoscenza che nessuna virtualità potrà mai sostituire.

Orlando, dal romanzo di Virginia Woolf, drammaturgia Fabrizio Sinisi regia Andrea De Rosa

Se il pubblico di un autore di narrativa è un pubblico diretto, il pubblico di un drammaturgo passa attraverso la mediazione di un altro mezzo espressivo. Che rapporto hai con il pubblico che è tuo ma non tuo?

Il pubblico è sempre la riproduzione di una specie di piazza casuale, spesso chi va a teatro non viene a vedere te, perlomeno raramente, va a teatro e basta, riconosce un’autorevolezza in quel luogo borghese quanto vuoi paludata, ma quel rito di andare a teatro è comunque una fiducia nel mezzo a priori: nessuno andrebbe allo stadio a vedere una qualsiasi partita, mentre a teatro un po’ funziona così. C’è dunque una collettività raccolta, un’assemblea che accoglie e giudica quella liturgia laica in cui viene proposto un conflitto di idee e su cui il pubblico si schiera sempre, spetta poi a noi fornire un diagramma politico anche ideologico, concettuale, una questione fuori dal piano psicologico o sentimentale.

In Italia principalmente, la drammaturgia non sembra avere la stessa dignità di una scrittura narrativa o poetica (nonostante per esempio un Nobel come Jon Fosse). A cosa è dovuta questa differenza e come si può intervenire?

Io penso che la responsabilità principale venga dalle direzioni dei teatri: in Italia non c’è una proposta di drammaturgia contemporanea adeguata all’importanza che ha la scrittura teatrale. Potremmo prenderci i cartelloni di alcuni teatri pubblici e contare quali siano i titoli di drammaturghi vivi e italiani: la bassa percentuale ci sbalordirebbe. Se poi facessimo il confronto con un qualsiasi teatro di Berlino o di Londra sarebbe mortificante. Nella drammaturgia contemporanea e in particolare quella italiana neanche i direttori dei teatri credono, continuando a proporre un titolo conosciuto e a produrre un pubblico che va a teatro già sapendo per sommi capi quello che va a vedere. Si tratta quindi di un teatro di interpretazione del già conosciuto, invece che di scoperta dell’ignoto, quando è proprio la scoperta dell’ignoto che ci appassiona. Quindi in sintesi: se tu gli autori non li metti in scena non possono neanche nascerne di nuovi e per questo serve un cambio di rotta da un punto di vista di politica culturale, perché non bastano le rassegne, i festival, serve che i grandi registi e attori mettano il proprio nome e la propria fama al servizio della nostra nuova drammaturgia.

Processo Galileo, di Angela Dematté, Fabrizio Sinisi, dramaturg Simona Gonella, regia Andrea De Rosa, Carmelo Ridici.

Credo sia una cosa fondamentale per evitare la museificazione del teatro, per cui esiste il repertorio da una parte e poi esiste la riserva indiana del contemporaneo, che certo non è indice di benessere. Cosa stai leggendo?

Sto leggendo per piacere due libri: uno è di Günter Grass, Il tamburo di latta, e poi questo libro che ha scritto Jonathan Littell, l’autore de Le Benevole, con il fotografo Antoine D’Agata, Un luogo scomodo su Babij Yar, la cava vicino Kiev dove i nazisti hanno messo in atto un eccidio spaventoso durante la seconda guerra mondiale. E poi sto studiando sempre le Brigate Rosse in vista di un debutto prossimo, accettando da Andrea De Rosa un lavoro sui vampiri, sui quali sto lavorando in senso filosofico, pensando alla figura del non morto che, in quanto tale, attraversa le epoche della storia.

Simone Nebbia

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Simone Nebbia
Simone Nebbia
Professore di scuola media e scrittore. Animatore di Teatro e Critica fin dai primi mesi, collabora con Radio Onda Rossa e ha fatto parte parte della redazione de "I Quaderni del Teatro di Roma", periodico mensile diretto da Attilio Scarpellini. Nel 2013 è co-autore del volume "Il declino del teatro di regia" (Editoria & Spettacolo, di Franco Cordelli, a cura di Andrea Cortellessa); ha collaborato con il programma di "Rai Scuola Terza Pagina". Uscito a dicembre 2013 per l'editore Titivillus il volume "Teatro Studio Krypton. Trent'anni di solitudine". Suoi testi sono apparsi su numerosi periodici e raccolte saggistiche. È, quando può, un cantautore. Nel 2021 ha pubblicato il romanzo Rosso Antico (Giulio Perrone Editore)

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