Tra il 31 ottobre e il 30 novembre scorsi la città di Bari ha ospitato in vari spazi gli eventi in cartellone al Bari International Gender Festival. Giunto alla decima edizione, cifrata quest’anno con la dicitura BIG X, il programma ha visto alternarsi proiezioni cinematografiche e progetti espositivi, spettacoli musicali e performance per la scena e la danza contemporanea.
Un festival è una dimensione, corrisponde nella gran parte dei casi a una visione, a un’idea di partecipazione, e così anche a un concetto trino di comunità: quella delle persone che vi lavorano e cooperano alla sua realizzazione, quella degli artisti per cui e da cui è animato, e quella del pubblico che lo attraversa, vi partecipa, sia esso composto da spettatori puri e semplici o da spettatori di professione, operatori e “gente del settore”. A tale concetto si connette allora, per una conseguenza quasi fisiologica, quello di luogo e anche questo sarà termine da intendersi con una valenza binaria se non plurima: quella degli spazi che fanno da dimensione di accoglienza degli eventi, quindi da camera di svolgimento e accadimento del programma, ma prima ancora quella del centro, del territorio in cui la visione si cala come una lama di attraversamento e spartizione di un prima, un dopo e soprattutto di un durante, in cui l’idea si plasma, ove si modella la superficie magnetica di esigenze e istanze che lì siano attratte, calamitate come a un polo da vari altrove, ma che da lì vengano pure rielaborate e metabolizzate secondo delle specifiche precise eppure inaspettate, per essere restituite al mondo in un processo di rifrazione unitaria, quantunque caleidoscopica.
Tale assunto, che pure potrebbe sembrare scontato e che invece spesso si dipana fra maglie che si allargano al punto da dissiparsi completamente, diviene, o sarebbe meglio dire rimane e si offre a volte netto ed evidentissimo, corrispondendo così anche e soprattutto a un’etica della proposta culturale. È il caso del Bari International Gender Festival, festival transfemminista di cinema, performance, musica, danza, arte e dialoghi, per riportarne pedissequamente la dicitura, che rimanda a un programma di eventi che spaziano dalla danza contemporanea al dj setting, dalle proiezioni cinematografiche fino all’arte per contesti espositivi, passando per incontri universitari, focus e dibattiti. Giunto, tra gli scorsi 31 ottobre e 30 novembre, alla decima edizione sotto la direzione artistica di Miki Gorizia e Tita Tumillo De Palo, il Festival si è offerto alla città di Bari, e non solo, con un cartellone di appuntamenti articolato eppure coerentissimo, non privo di prime nazionali e regionali scelte con l’intento di proseguire sulla strada già tracciata negli anni precedenti, “sempre all’insegna della trasversalità dei linguaggi e della ricerca di comunicazione tra le differenti comunità, un cross road in cui esplorarsi e scoprirsi attraverso una pluralità di storie e identità” con l’acronimo BIG X.
All’interno di una simile programmazione il palcoscenico del Teatro Kismet ha ospitato per due sere di seguito i lavori della coreografa ivoriana Nadia Beugré. Attiva dalla metà degli anni Novanta, anche come interprete per altri coreografi (Seydou Boro, Alain Buffard, Bernardo Montet, Dorothée Munyaneza, Boris Charmatz), è fondatrice a Montpellier della compagnia Libr’Arts, per la produzione, formazione e circuitazione tra la Costa d’Avorio e la Francia. La prima serata del focus è per Parts, video installazione performativa che vede la Beugré relazionarsi con lo spazio circostante all’interno di uno sfasciacarrozze, un universo materico fatto di pneumatici, cavi, funi, vetri rotti, lamiere sullo sfondo. Un complesso ambientale con cui l’anatomia e il movimento stabiliscono un rapporto inglobante e respingente, oppositivo allo stesso momento. Sarà lei stessa a spiegare in un dialogo successivo con la docente Mckda Ghebremariam Tesfaù come questo grande garage all’aperto corrisponda a uno spazio interiore, a un luogo di riparazione, una riparazione della memoria. Nel procedere della conversazione specificherà che nella sua concezione è il corpo a diventare lo spazio, a farsi abitare da esso e dalle sue forze, presenti ma invisibili. E se l’invisibile è qualcosa che ha a che vedere con la fusione non pacifica con gli elementi circostanti, tale sensazione di conflitto risulterà solo a uno sguardo, a un’impressione esterna, visto che «il mio corpo non mi appartiene in quel momento». In quest’ottica l’ispirazione non si prepara, è piuttosto una voce che si genera e necessita di studio per essere ascoltata, seguita, sviluppando un istinto che lavora con «immagini che hanno un’eco, che significano più cose». A questo punto definirà «schuft», tutto ciò che è imprevedibile e impossibile da descrivere, «che non si sa come e quando arriva», un’uscita dalla zona di comfort e un amore per il rischio che rappresenta. Preciserà ancora come preferisca parlare del «modo in cui vive le cose» e non del «modo in cui fa le cose», se tutte le materie nello spazio rappresentano in definitiva il concetto di vita visto che «la danza, la creazione va oltre la dimensione razionale, intellettuale, sono le anime che si esprimono».
Tali concetti torneranno alla mente come chiavi di lettura nella serata successiva, quando sullo stesso palco andrà in scena, in anteprima nazionale e in collaborazione con DAB (Danza A Bari, rassegna del Comune di Bari con Puglia Culture, nuova denominazione del Teatro Pubblico Pugliese cui corrisponde un minimo cambio statutario, ma non uno stravolgimento del sistema di funzionamento), Filles Petroles, in cui Beugré si trova a dirigere Anoura Aya Larissa Labarest e Christelle Ehoué. Sedici sedie rosse e nere sono disposte in principio sui lati del palcoscenico mentre le due in abiti quotidiani dai colori accesi sono già in scena a lavorare un ammasso di pasta che nel procedere dell’azione verrà lanciato, diviso, plasmato, abbracciato, adoperato per appesantire e ingabbiare i passi, per velare e rivelare il sesso, a scolpire un’identità basilare eppure modellabile, anche in un contesto socio-culturale non sempre preparato ad accogliere le sue possibilità proteiformi qual è quello di provenienza di Aya e Christelle. La performance, la cui genesi getta le proprie radici in una volontà di sostegno alle giovani performer del territorio della Costa d’Avorio, segna anche il ritorno della coreografa alla sua città d’origine Abidjan, raccontata in un passaggio generazionale che le due sottolineano con corporeità differenti, di primo acchito quasi antitetiche, eppure pariteticamente energetiche, consonanti, non solo nella capacità acrobatica, ma anche in quella espressiva, che senza essere narrativa o didascalica non manca il bersaglio della semantica, collimando nella restituzione di un’idea non canonica e non canonizzata della femminilità “tradizionale”. Un dialogo tra corpi, tra identità che si affermano, non senza un discreto equilibrio di ironia e lirismo secondario, un dialogo che bisogna impegnarsi a far crescere, per “tirarlo su”, anche sporcandosi le mani (da qui il petrolio del titolo) e che non cerca una forma estetica temperante, necessariamente armonica e piana, ma anzi si preoccupa «non sia troppo carina», come afferma la stessa Nadia.
Allo Spazio Murat, invece, l’allestimento della mostra intitolata Enjoy the Collapse, del collettivo spagnolo Democracia (fondato da Iván Lopez e Pablo España), curato da Pamela Diamante, responsabile del Focus sull’Arte Contemporanea. Il lavoro del collettivo spagnolo viene proposto in una delle due sale dello spazio al confine tra la parte più commerciale del centro città e Bari Vecchia. All’estremità profonda Welfare State, video installazione ove quattro schermi di grandi dimensioni riproducono una superfice di proiezione trilaterale collegata a una piccola platea metallica ad arena, a scandire un preciso ritmo di circuitazione delle immagini di demolizione di una bidonville che attraverso l’induzione di un meccanismo di osservazione e filmazione si trasforma in una performance assistita dai suoi abitanti, prime vittime e primi spettatori di quello smantellamento, i cui volti si alternano nel montaggio al ferro giallo degli escavatori e delle ruspe. Esposto sotto teca il volume Contra la Democracia, scritto con lo pseudonimo Grupos Anarquistas Coordinados a delineare una democrazia analizzata e presentata come principale strumento dei meccanismi di dominio e oppressione, attenzionato dalla Audiencia Nacional come indicatore di inclinazione terroristica. Un container di trasporto mercantile è disposto in continuità con una delle uscite, per cui lo spazio si allarga verso la piazza antistante e si trasforma in camera separata di proiezione per Order, opera video in tre atti, portati a compimento in fasi successive e a distanza di tempo: Eat the Rich/Kill the poor, Konsumentenchor, Dinner at the Dorchester. Un processo di cortocircuitazione inversa dell’agit prop parte dall’attraversamento di una limousine per le strade texane di Huston e finisce nella sala da pranzo di un elegante albergo londinese, passando per il canto di un coro di voci bianche irlandesi in un centro commerciale definendo un percorso scalare di riflessione e messa in forma. Già nel 2023 l’opera veniva ospitata dalla Prometeo Gallery Ida Pisani di Milano, in quell’occasione, nel testo critico di accompagnamento, Marco Scotini operava un parallelo con L’opera da tre soldi di Brecht per sottolineare la cruda capacità di rimandare ai meccanismi fagocitanti del consumo e le spietate sperequazioni del sistema capitalistico. Gli fa da contraltare un piccolo televisore sul fianco destro interno della sala che manda in onda De Putas. Un ensayo sobre la masculinidad, progetto di Núria Güel in cui l’artista dialoga con un gruppo di donne che restituiscono la propria esperienza di prostitute a Léon e Girona.
Coincidono con la conclusione del nostro attraversamento i Dialoghi sul Big X Edizione, tenuti all’Università degli Studi di Bari “Aldo Moro” e curati da Claudia Attimonelli. Vi emerge come oggi i termini espressivi del contemporaneo interessino la decostruzione del suprematismo non solo e non tanto per ciò che concerne le questioni di genere o la decolonizzazione culturale intese come compartimenti stagni, operazioni di riconsiderazione intellettuale di superficie, ma come una vera e propria, profonda ri-coniugazione dei termini dell’umano. È così che la scelta decennale di portare avanti il progetto a Bari, importante centro urbano di un Sud investito da una riqualificazione territoriale e una rivalutazione turistica non sempre corrispondente all’estinzione di certe dinamiche provinciali, e di focalizzare la propria attenzione e intenzione di programmazione su questi termini ben prima che conquistassero la centralità odierna nelle riflessioni, nella cronaca negli studi e sulla scena, acquisisce un valore di resistenza più ampio ed equivale a una pervicacia e a una fede culturale prospettica e immaginativa.
Marianna Masselli
Bari, novembre 2024
PARTS
Video-installazione performativa con Nadia Beugré
Filming and editing by Rubén Pioline
FILLES PETROLES
Direzione artistica Nadia Beugré
Assistente Christian Romain Kossa
Performance Anoura Aya Larissa Labarest, Christelle Ehoué
Luci Beatriz Kaysel
Colonna sonora originale Yoan Richard
Altre musiche Fally Ipupa Seul amour, Roma Chiyaya Sur le beat
Produzione Libr’Arts/Virginie Dupray
Coproduzione La Briqueterie CDCN-du-Val-de-Marne, Le Théâtre de Rungis, Théâtre Molière Sète Scène nationale Archipel de Thau, CCN2 Grenoble, ICI CNN de Montpellier Occitaine
Direzione Christian Rizzo
Con il supporto di Goethe-Institut Abidjan/A(RT)VENIR fund e DRAC Occitaine / Ministero francese di Cultura e Comunicazione