I prossimi 22 e 23 novembre sul palcoscenico dei Cantieri Teatrali Koreja andrà in scena X di Xylella. Bibbia e alberi sacri, ultimo lavoro del collettivo salentino Cantieri Teatrali Koreja, realtà artistica e produttiva con quarant’anni di storia, diretta da Salvatore Tramacere e dal 1998 trasferitasi all’interno di uno spazio che corrisponde a una visione. Intervista
Teatro Koreja è una realtà costituitasi ufficialmente, non solo come compagnia, nel 1985. La sua prima sede nel Castello Tre Masserie di Aradeo, in provincia di Lecce, si è proposta sin dal principio come centro di promozione e produzione teatrale all’interno del quale sono passati negli anni nomi come Pina Bausch, César Brie, Eugenio Barba. Del 1998 il trasferimento a Lecce, all’interno di un capannone industriale, una ex fabbrica di mattoni nel quartiere di Borgo Pace, ripensata, ristrutturata e costruita come spazio culturale in grado di accogliere qualsiasi fase del processo creativo: artistica ed estetica, ma anche tecnica e logistica. Una dimensione forse unica nel panorama nazionale per concezione e realizzazione, che corrisponde alla vocazione del collettivo che l’ha immaginata e poi creata, ovvero quella di interpretare la matrice radicale come un paradigma di sviluppo del contatto con il mondo, tanto sul piano espressivo quanto su quello della programmazione, che prevede da anni anche l’organizzazione del festival estivo Teatro dei Luoghi. Dopo il progetto Ripensare Grotowski dello scorso ottobre, il loro ultimo lavoro X di Xylella. Bibbia e alberi sacri andrà in scena i prossimi 22 e 23 novembre con la regia di Gabriele Vacis. Abbiamo sentito Salvatore Tramacere, sin dal principio direttore artistico di Koreja, per ricostruirne alcuni passaggi fondamentali, di lavoro ed evoluzione, e capire come essi interagiscono con l’attività odierna.
Vorrei iniziare da come nasce nel tuo caso la vocazione o l’interesse teatrale e di come si è costruita nel tempo all’interno di un processo di formazione che è poi diventato un processo condiviso.
Io vengo dal nulla. Il teatro non lo conoscevo, sono nato, anzi vissuto in un piccolo paese della provincia di Lecce e lì non ho mai visto teatro fino a ventitre o ventiquattro anni. Studiavo filosofia, avevo conosciuto Nicola Savarese. Ero andato da questo professore, di cui sapevo l’importanza, ma assolutamente non il suo interesse per il teatro, per chiedergli se conoscesse in Messico situazioni interessanti. Volevo andarci perché in quel periodo, un po’ in depressione e un po’ per studi che stavo facendo, ero interessato a ciò che riguardava l’estasi, le droghe; nella Sierra Madre c’erano i Tarahumara, un popolo i cui componenti mangiavano i funghi, il peyote, quindi mi ero rivolto a Savarese per sapere se avesse agganci lì. Lui mi ha fatto un trucco sostanzialmente, facendomi partecipare alla realizzazione di un progetto che stava facendo l’Odin Teatret. Dirlo ora sembra semplice, ma all’epoca non sapevo nemmeno pronunciarlo. Venivano in Salento a realizzare quella che chiamavano la “filmazione”, avevano finito di fare la tournée dello spettacolo e lo filmavano, all’epoca non si facevano riprese con la facilità e la frequenza di oggi: avevano preso un luogo per dieci giorni di riprese. Mi trovai improvvisamente “buttato” in questa cosa, e ho avuto la fortuna di incrociare César Brie, all’epoca appena sposato con Iben Nagel Rasmussen. Nacque un’amicizia istantanea, parliamo del 1983, lui mi disse che con Iben volevano venire in Salento a fare dei giorni di lavoro con il loro gruppo, Farfa. Mi inventai, da incosciente totale, di avere un posto, un castello dove sarebbero potuti venire. Avevo un biglietto già fatto per il Messico, dovevo partire da lì a trenta giorni, invece dopo dieci o dodici giorni dal nostro incontro – io vivevo con i miei genitori – squillò il telefono (all’epoca c’era solo il fisso) e mia madre mi disse che una persona che non parlava italiano mi cercava; era César, mi diceva che avevano deciso di arrivare la settimana successiva. Non sono mai andato in Messico, ho dovuto rimediare alla bugia che avevo detto e trovare un posto dove farli venire, a Gallipoli. Da lì parte tutta la mia storia. Poi con Nicola Savarese ho approfondito il rapporto ed è diventato un po’ un mentore, ci ha aiutato a costruire un teatro, una struttura, ad approfondire che cosa vuol dire essere un gruppo di teatro.
La tua esperienza ti ha portato ad avere contatti con identità culturali e teatrali molto diversificate, così intendendo una doppia connotazione, sia quella meramente geografica, antropologica, sia quella di impostazione del lavoro. In che modo esse sono andate a corrispondere al ritorno a un luogo di origine, divenuto poi un’idea che oggi è Koreja? A maggior ragione in un posto che, quarant’anni fa, a differenza di oggi, penso fosse un deserto o almeno una periferia culturale in cui, come ancora succede in certi altrove, dubito vi fosse un’abitudine a questo genere di progetto e di visione.
Hai detto praticamente tutto. L’incoscienza sicuramente è stata importante e di conseguenza il coraggio, che si può chiamare visione, ognuno trova la parola che vuole. Non ho mai pensato a questo luogo, che è il luogo di casa, dell’identità – una parola che tra l’altro non mi piace –, come un modo di dire al mondo che anche nel Salento c’è qualcosa del genere. Non è un caso che chi viene qui dica che nemmeno a Berlino funziona così il teatro. Quindi, pur stando in una zona, ora non più arcaica – lo si poteva dire ancora forse vent’anni fa -, ho sempre pensato che bisognasse andare oltre: è una cosa che hai dentro ha a che fare con quello che vivi quotidianamente. Quando abbiamo iniziato ad Aradeo ci vedevano davvero come marziani. Da noi sono passati Pina Bausch, Leo De Berardinis, alcuni attori del Living Theatre, il mondo, per cui immagina cosa dicesse all’inizio la gente che veniva a vedere queste cose. Ma avevamo un senso forte, ecco lì è stato importante avere la capacità di apprendere anche da Eugenio Barba, da queste persone: dovevi dimostrare di lavorare anche tu. Eravamo in una masseria circondata all’epoca da campi di tabacco che ora non esistono più. Alle cinque la gente si alzava per raccogliere, abbiamo deciso che anche noi alle cinque o cinque e mezzo del mattino ci saremmo alzati. Correvamo e ci facevamo vedere da chi lavorava il tabacco, a quel punto hanno cominciato a dirsi che anche noi facevamo qualche cosa, non sapevano cosa, ma sapevano che facevamo qualcosa. Gli piaceva, non gli piaceva, lo capivano o non lo capivano, spesso i termini erano quelli, però… Questo ci ha messo in una relazione, durissima, perché era difficile essere accettati, ma è stato fondamentale quando abbiamo cominciato a mettere struttura. Sin dall’inizio ho pensato fosse basilare essere riconosciuti con un nome, con una sede, con delle ore e una giornata lavorativa, questa cosiddetta socialità condivisa è stata la nostra battaglia, che è stata accettata e che oggi, anzi ormai da venticinque anni, portata su Lecce è diventata ancora più forte. Qui abbiamo preso una vecchia fabbrica e l’abbiamo rimessa completamente a nuovo e, ripeto, chi viene ha la sensazione di stare veramente in Europa, non nel Salento, in quella parte di terra antica o dove finisce l’Italia. Questa è stata la strada che abbiamo seguito. Non è però che ci sia stato un gran pensiero all’inizio, non ho mai fatto grandi calcoli. Ho sempre pensato che fosse importante capire quotidianamente e rispondere a quanto succedeva e mi accadeva. Poi tutto è successo invece. Avere un luogo di questo tipo: una capacità che abbiamo costruito man mano.
Come si è evoluta nel vostro caso la concezione di luogo e di spazio? La intendo come luogo di accadimento pratico, ma anche come dimensione di pensiero, all’interno della quale si iscrive e si scrive un progetto culturale e nello stesso tempo un concetto di comunità di lavoro. Penso che anche lo spostamento da Aradeo a Lecce sia stato la filiazione di tutto un processo.
Si è così, di fatto è una sorta di continuità: prima sei naif, poi non puoi più nasconderti e dire “sono selvaggio”. Per anni ci è stato concesso, a un certo punto però devi prendere responsabilità e cominci a creare strategia e a rispondere a senso alle cose. Lecce ci ha portato questa maturità, il senso di responsabilità di essere diventati adulti, di essere diventati grandi, ci ha cambiato. Per adesso posso dirti che è successo in maniera abbastanza organica, fisiologica, poi ci sono sempre delle difficoltà o dei momenti in cui bisogna cambiare il tiro, rivedere la strategia. In una lezione di teatro direi che è fondamentale avere un pensiero ma non schiacciarsi su di esso, essere molto aperti ai venti che possono passare intorno. Penso di aver abbandonato dopo due o tre anni l’idea del teatro di gruppo, però ancora non ho abbandonato l’idea del lavorare in una squadra, in un gruppo di persone con ruoli molto chiari. Penso che il gruppo, come dice il grande mito Julio Velasco, sia un fallimento.
Il concetto di comunità quindi ha nel vostro caso a che fare con la squadra di lavoro, ma, in una sorta di processo osmotico, si trova pure al centro fra la comunità teatrale nazionale e internazionale e quella del luogo in cui siete, quindi quella territoriale e non solo.
Sai anche questo non lo puoi costruire “su carta”. Ci sono ad esempio periodi in cui per noi l’aspetto internazionale è prevalente, è più interessante. E succede perché incontri per strada, lungo il cammino, incontri personalità, situazioni talmente forti che ti metti subito in relazione, vai insieme, costruisci progettualità. Non è una ripartizione matematica in cui si decide di fare tot di una cosa e tot dell’altra per avere successo. Sono momenti della storia in cui si procede in un modo o in un altro.
Sinergie che si costruiscono…
Esatto. Per anni ad esempio abbiamo lavorato con l’Est, io stesso ho passato due o tre anni in Serbia, ho costruito lì un lavoro con dei ragazzi rom vicino Belgrado. Era un progetto dove però ci abbiamo messo tanto di nostro, non pianificato sulla carta, fino al punto che abbiamo portato venti ragazzi rom in Italia, in giro per festival importanti a fare uno spettacolo. Un periodo molto importante. Ancora adesso con l’Albania abbiamo un rapporto quasi quotidiano, infatti spesso dico ai miei colleghi italiani che per noi sarebbe più comodo fare un ponte verso Valona che non sullo Stretto, sarebbe più utile per tanti versi, con la Puglia potrebbe essere di fatto un’unica regione. É davvero relativo ai periodi. Le comunità le costruisci e funzionano quando ci sono intenti e obiettivi comuni, altrimenti le cose sono forzate, come per tutti i legami e le relazioni, se non sono vere durano finché possono e poi si rompono.
Questo vale anche per la densità artistica di ciò che viene fuori da simili progetti forse: se è costruita sulla carta come dici probabilmente ne risente rispetto a come invece accade per quanto “è figlio” di una esigenza reale…
Esatto. Figlio di un’esigenza e figlio di una pratica che metti in campo, come sperimentazione, ma che arriva ad un certo punto ad essere proprio quella lì. Noi facciamo un laboratorio da più di trent’anni che chiamiamo Pratica in cerca di teoria, è il nostro laboratorio per i giovani qui nel Salento. Ecco, continuo a pensare che sia un bel titolo: abbiamo una pratica e su quella costruiamo delle definizioni teoriche, che cambiano anche. É ciò che facciamo a definire le forme, non il disegno, ma quello che mettiamo continuamente in campo.
Come è nato e si è articolato il progetto Ripensare Grotowski?
Abbiamo partecipato ai bandi del Ministero per i progetti speciali. Avremmo potuto fare qualcosa che ancora una volta puntasse sull’innovazione, etc., mentre ci è sembrato importante ripensare le figure storiche che rappresentano anche la ragione per cui siamo qua, per cui chi c’è adesso crede di fare un certo tipo di teatro. Dopo aver ricevuto l’approvazione, quando ho proposto la cosa alle persone che avevano in qualche modo avuto a che fare con Grotowski, c’è stato un entusiasmo incedibile, un desiderio di venire a parlare delle relazioni, dei rapporti, di chiarire questioni, che non mi aspettavo. Ho capito allora di aver toccato un punto incandescente, ancora adesso molto interessante, ci sono ferite ancora aperte. Su questo sono rimasto come molti anni fa: credo che la memoria non sia nostalgia, ma serva per definire, per mettere un punto e ripartire, consentendoti di andare avanti. Se non si ritorna a vedere le figure centrali di questo lavoro come si fa, come si può ad esempio parlare di teatro di ricerca senza parlare di Grotowski, senza studiarlo e vedere cosa ha fatto. Ognuno usa le parole come crede, ma per un minimo senso di quanto sta alla storia queste figure bisogna conoscerle e studiarle ed è quello che abbiamo fatto.
Cosa hai scoperto o cosa ti ha colpito in modo particolare e che non avresti mai immaginato rispetto alla figura di Grotowski o al suo teatro?
Ti sembrerà la cosa più banale, ma la risposta è che era innanzitutto un uomo. Me lo avevano rappresentato come un dio, che viveva sopra alle nuvole, al di sopra di tutto, che guardava tutti dall’alto. Quando invece trovi persone che ti raccontano che ogni giorno ad esempio doveva mangiare cinque uova cominci a pensare che siamo noi a fantasticare, mentre è più semplice di quanto sembra. Mi ha fatto molto piacere, scoprire l’uomo: c’è una semplicità di queste grandi figure straordinaria che personalmente mi intriga molto, sono gli altri ad inventare tutto l’immaginario.
Arriviamo quindi al vostro ultimo lavoro. Il titolo, X di Xylella. Bibbia e alberi sacri, richiama a qualcosa di dolorosamente conosciuto a quanti siano avvezzi alle cronache pugliesi, ma potrebbe suonare non così facilmente riconducibile a una questione familiare per chi da quelle cronache è lontano.
Sia la Bibbia che gli alberi sacri sono identificabili come simboli forti, come la Xylella per il Salento, c’è una piaga, c’è un grande dolore, come per le piaghe d’Egitto. La Xylella è questo grande dolore che prende tutta questa terra, un bacino molto lungo e molto grande e che per la gente del posto ha significato lo sconvolgimento della mappatura geografica, è un panorama diverso, completamente cambiato, ma dentro c’è anche un dolore diverso. C’è una cultura dietro questi alberi, gente che ci ha vissuto, ci ha persino campato, ci sono contadini che si sono legati agli alberi e che al momento di tagliarli sostenevano si dovesse tagliare prima loro, era incredibile. Chiaro che magari un giovane del Nord possa non sapere cosa sia la Xylella, è giusto sia così, ma se pensi al covid e a quello che ci ha portato, a un maledetto virus che ha messo in ginocchio il mondo e milioni di persone ti rendi conto che, volendo, è molto simile. Tecnicamente si chiama Xylella fastidiosa. Per me la metafora è la difficoltà e la necessità della cura: quanto bisogno abbiamo di cura, di attenzione, di tenere forte questo bastone, di capire che poi le cose che contano sono poche. L’idea l’ho data io a Gabriele (Vacis n. d. r.) che come sai fa un lavoro straordinario sugli attori. Ha messo insieme quello che serviva per far parlare sì degli alberi, ma più in fondo le persone, ciò che è dentro ognuno di noi. Siamo estremamente contenti, al di là del risultato, perché si può anche in questo modo far conoscere un problema. Non significa però fare teatro sociale, sono contro queste definizioni. Abbiamo tirato fuori un gruppo di sette interpreti straordinarie e fatto l’operazione di “mischiare” quattro nostre attrici con tre che invece vengono dal gruppo di Vacis.
Come avete costruito il lavoro insieme a Gabriele Vacis e come la vostra collaborazione appunto ha interagito con i vostri gruppi di lavoro?
La storia con Gabriele è lunga, viene da lontano, ci conosciamo da quarant’anni, non è la prima volta che lavoriamo insieme. Non c’è un mettere insieme, anche qui è fisiologico, lui ha ancora la bellissima voglia di lavorare con i giovani e lo sta facendo con i ragazzi usciti dalla scuola di Torino. Ci siamo confrontati per un paio d’anni e alla fine è venuta fuori questa idea che abbiamo portato avanti. Tutto sostanzialmente organico.
Anche la fisiologia stabilisce una propria prassi nella pratica. Quale la vostra?
Qui si lavora, qui si mangia, qui si vive. Per uno come Gabriele – che, per tornare a quanto dicevamo, ha scritto un libro su Grotowski – è l’ideale: qui si fanno queste esperienze totali, succede di tutto, ci si ama, ci si odia, accadono “casini” e cose meravigliose, tutto ciò che c’è da fare e che si fa. Credo che l’esperienza fatta e questo luogo siano la stessa cosa: una dimensione in cui si può lavorare in maniera intensa. Gabriele non cerca altro.
Tutto torna sempre al concetto di organicità mi sembra.
Spero di essere semplice, ma di non sembrarti semplicistico, significherebbe che sto banalizzando e non è così. Penso che quello che facciamo oggi non abbia bisogno di essere rafforzato da formulazioni e motivazioni. Tutto è già nella nostra forma, non siamo così da sempre, nel tempo abbiamo giustamente e necessariamente cambiato moltissime modalità di lavoro. In questo ultimo spettacolo per esempio si ritorna tantissimo a parlare di corpi, della natura, della malattia, della memoria. Tutte parole che ci appartengono e che in questa nostra chiacchierata ho usato tantissimo, in vari modi, perché sono le parole chiave del nostro lavoro. Nel racconto può sembrare tutto molto semplice, ma ovviamente non lo è sempre, è necessaria una grande attenzione, la memoria delle cose da rivedere… Non mi piace parlare della tecnica, non perché non ce ne sia, ma perché credo nel principio “impara l’arte e mettila da parte”. Mi pare più interessante parlare di ciò che uno è, e non di ciò che uno fa o dice di essere. Come tutti siamo qui a lavorare e ci interroghiamo su qualcosa, rispetto alla quale ci chiediamo perché.
Marianna Masselli