HomeArticoliOrecchie che vedono: la danza che si ascolta a Gender Bender

Orecchie che vedono: la danza che si ascolta a Gender Bender

Al festival bolognese Gender Bender molte sono state le proposte di danza, tra le quali sono emerse con forza il corpo resistente di Claudia Caldarano, le visioni acustiche di Gaetano Palermo, i resti e le reliquie della viseità del collettivo francese Les Idoles.

Foto Margherita Caprilli

Allo storico festival bolognese Gender Bender, quest’anno alla sua 22° edizione, la danza in tutte le sue forme performative è sempre presenza nodale. Perché è soprattutto il corpo vivente al centro della più parte delle riflessioni sulle differenze di genere e gli orientamenti sessuali, nonché del riconoscimento come atto materiale del differenziare, proprio come una possibilità di creare nuovi legami, e più necessarie responsabilità.

Foto Margherita Caprilli

A Palazzo Bentivoglio ho visto Corpo a Corpo, durational performance di Claudia Caldarano. Nuda, adagiata fra mille inquietudini su di un poliedro a sei facce di cui quattro rettangolari, nero riflettente e cosparso, nella zona d’azione della performer, da controllati getti d’acqua. Colpisce di questa intimità violata di Caldarano, l’inesausta continuità di movimento sul monolite, due lunghe ore, che è a lei indifferente dunque ostile, mentre il corpo invece vi si offre generoso, in difficili e tesi equilibri e in una temporalità distesa, in tutta la sua vulnerabilità, tra ricerche di prese per restare sulla superficie, anche se sempre futili e transitorie, e dolorosi (ma ricercati) appoggi del costato, della schiena, delle gambe e delle braccia, che forzano sugli spigoli e che procurano anche ferite sulla pelle, imprimono i segni di questa sordità della materia. Sono le tracce di un martirio anonimo (quindi di tutt*): potente metafora della vanità, inutilità, durezza e limitatezza del nostro penetrare, conoscere e ordinare il mondo. La «condizione umana» esposta, ma non inerte anzi resistente, di fronte all’indifferenza del male. Io credo sia anche un’austera dottrina (come una sorta di aconfessionale guida spirituale) questa di Caldarano, che invita a pratiche forti e vigorose per riconoscere ciò che è conforme e ciò che è al bene contrario.

Sono invece inutilmente troppi i cinquanta minuti di Lounge, spettacolo della portoghese Marga Alfeirão, qui all’Atelier Sì in prima nazionale, e agito in scena con Mariana Benengue. La condizione dei due corpi è quella del riposo. Ok. Il loro agire è quindi estremamente contenuto, rallentato, modesto ed esiguo. E va bene. Ma la consegna però di un amoreggiamento fluente e continuo, anche bizzarro nello scorrere di tante posizioni come prese da un omeopatico kamasutra, non è mai seduttivo, mai esplorativo, mai davvero erotico. Certamente vince la «dolcezza e la irriverenza dei loro corpi», come da loro progettato, ma in una transizione continuativa accasciante e senza riprese, senza tregua rivelatrice né intervallo trasformativo. La pretesa è semmai di varcare, in tale (soporifera) ipnosi, i confini «tra performer che agisce e pubblico che osserva». Odierno tormentone.

Foto Margherita Caprilli

Anche Shortcuts to familiar places, spettacolo dell’australiano James Batchelor, visto al DamsLab, avanza forse troppo poche richieste a tanta spesa. Un duo, nella prima parte sempre solo sbracciante e sur place, prova a rifare e a tradurre «con un linguaggio contemporaneo, la tecnica espressionista della sua insegnante Ruth Osborne, ereditata a sua volta dalla coreografa austriaca Gertrud Bodenwieser, artista pioniera di una danza considerata al tempo degenerata e fuori norma». L’Ausdrucktanz tedesca, per intenderci: è un lavoro sulla memoria che si fa archivio vivente nei corpi di oggi, la ricerca trascina e appassiona (con tanto di video sulle difficoltà della memoria di una testimone centenaria ripresa nei tentennamenti dei suoi port de bras). Ma lo stile non si contamina, la sovrapposizione non decolla, l’incontro tra generazioni resta esile, aproblematico e nella prigione dell’omaggio e del tributo. Svetta davvero solo Morgan Hickinbotham, il compositore in presenza con chitarra e mille pedali, che dirige e orchestra il tutto con ritmi e paesaggi sonori di più vera forza e necessità.

L’ambientazione doveva essere a tutti i costi quella di un teatro all’italiana, con palco in pendenza, palchetti su più ordini con velluti, stucchi e decorazioni d’antan, dunque per The Garden di Gaetano Palermo ci siamo spostati al Comunale di San Giovanni in Persiceto. Venti minuti di treno da Bologna, trenta minuti di performance: numeri che sono «un mistero di festa nella foresta» (come ha scritto Adriano Spatola). Qui un corpo femminile immobile (Sara Bertolucci), disteso a terra faccia in giù, con una cascata di riccioli biondi, e le braccia distese sui fianchi, sulla linea lontana del palcoscenico, niente più. Ma per davvero. Certo, è «corpo immerso in un flusso di immaginari sonori capaci di ridefinirne ogni volta i contorni»: e qui Palermo e Bertolucci hanno giocato in ricchezza e d’astuzia, tra musiche, colonne sonore, audio rubati e spericolate citazioni. E ogni spettatore costruirà la propria drammaturgia da sé, facendosi così «soggetto attivo» (che è un po’ il solito mantra). Ma l’effetto davvero ingenioso e mirabile non cambia, qui sono le orecchie che vedono («erano occhi che ascoltavano», scriveva Anna Magdalena a proposito di Bach), mentre il nostro sguardo si spegne su questo corpo (certo «abbandonato, caduto, sognante, morente») per noi, in termini performativi, dormiente. È il sonno dello spettacolo, il punto cieco della visione, l’essere assenti a se stessi, la campana a morte della rappresentazione, il presagio di una liberazione dalle ombre e dagli incubi del tempo, dell’insonnia: siamo finalmente in fuga senza sogni per un irriducibile giardino, spazio dell’ozio in cui «vedere che non si vede niente e che non c’è niente da vedere», ossia: «senza pretendere di scorgere l’invisibile» (sì Gaetano è Nancy).

Foto Margherita Caprilli

Per la prima volta nella sua storia recente, il festival ha ospitato una performance nella sala maggiore Leo de Berardinis dell’Arena del Sole. Il pubblico numerosissimo ha visto, in prima nazionale, Terminal Beach del coreografo tedesco Moritz Ostruschnjak. Sei danzatori, molto diseguali, combinano «un mix visivo e musicale di periodi, generi, stili e tecniche differenti: surfano uno intorno all’altro, corrono su pattini a rotelle, diventano cowboy, si intrattengono in duelli corazzati e sventolano bandiere come giovani rivoluzionari». Tanta cornucopia in pochissima originalità, senza astuzie di alcun tipo oltre l’assemblaggio, perché si basa sull’idea del prendere, trafugare, centrifugare dall’esistente e poi restituire come se tutto dovesse dunque funzionare da sé: ma non è quasi mai così. L’insalata che ne esce è senza condimento, perché i limiti di questa drammaturgia terminale è l’essere costruita solo per numeri successivi, senza quasi pensiero né vita di natura coreografica. Tra gli interpreti svetta però Daniel Conant che ritroviamo quasi sùbito in uno splendido assolo dal titolo Tanzanweisungen (It Won’t Be Like This Forever), sempre di Ostruschnjak, presso l’ex chiesa di San Mattia. La procedura compositiva è qui fatta della stessa burocrazia (4-5 secondi di sequenze di movimento o danza rubate dal web o dai social, da Sciarroni alla boxe a Anne Teresa de Keersmaeker, che non potrà infuriarsi e chiedere diritti visto l’esigua durata del furto). Ma ora è soprattutto la forza, l’energia e la presenza del giovane interprete a fare la grandissima differenza, a sovrastare il modesto impianto progettuale, a compensare la monotonia compositiva, la noia mortale sempre incombente di una lista della spesa (Tanzanweisungen letteralmente sta per istruzioni di danza).

Foto Margherita Caprilli

Ma forse il lavoro più emblematico per i temi che informano il festival, è stato quello bellissimo del collettivo francese Les Idoles, dal titolo Reface, visto al DAS, in prima nazionale. I volti e i corpi di due performer perfettamente tra loro sincronizzati (le straordinarie Chandra Grangean e Lise Messina) mutano e trasformano i propri lineamenti, «sotto i nostri occhi grazie a scotch, parrucche e trucco», in un perfetto accordo cinetico e musicale, che però produce continuamente degli scarti e dei resti, dalla cosmesi del trucco, e che lentamente cadono a terra come in una biblica pioggia di reliquie. Ciò che resta a terra al termine della performance è una sorta di requiem alle identità. Ed è l’apoteosi del perturbante e del grottesco, una magnificazione della funzione dell’ambiguità, della continua vitalità dell’apertura all’improbabile.

Stefano Tomassini

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Stefano Tomassini
Stefano Tomassini
Insegna studi di danza e coreografici presso l’Università Iuav di Venezia. Nel 2008-2009 è stato Fulbright-Schuman Research Scholar (NYC); nel 2010 Scholar-in-Residence presso l’Archivio del Jacob’s Pillow Dance Festival (Lee, Mass.) e nel 2011, Associate Research Scholar presso l’Italian Academy for Advanced Studies in America, Columbia University (NYC). Dal 2021 è membro onorario dell’Associazione Danzare Cecchetti ANCEC Italia. Nel 2018 ha pubblicato la monografia Tempo fermo. Danza e performance alla prova dell’impossibile (Scalpendi) e, più di recente, con lo stesso editore, Tempo perso. Danza e coreografia dello stare fermi.

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