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La Sardegna Fuorimargine, innovativa e trasformativa

Abbiamo incontrato Momi Falchi e Giulia Muroni, direttrici artistiche di Fuorimargine, il Centro di Produzione della Danza che in Sardegna punta alla ricerca e allo sviluppo dele pratiche performative del contemporaneo. Con loro abbiamo indagato le idee e le difficoltà che si incontrano quotidianamente occupandosi di arti dal vivo in Sardegna. Giulia Muroni inoltre arriva al ruolo di curatrice dopo un trascorso anche da critica teatrale (su teatroecritica abbiamo ospitato numerosi suoi articoli ), con lei ci siamo interrogati su questo passaggio, sulla ricchezza dello sguardo critico ma anche sulla la necessità di superare il giudizio.

Vi chiederei di iniziare facendo il punto sul concetto di Centro di Produzione della danza. Che cos’è e quali sono i tratti peculiari del centro Fuorimargine?

Momi Falchi e Giulia Muroni. Foto Laura Farneti

Momi Falchi: Fin dalla prima progettazione abbiamo interpretato l’ idea del centro di produzione come qualcosa di totalmente nuovo, che non fosse l’emanazione di una compagnia o di un autore capace di rappresentare un’unica traiettoria artistica. Abbiamo intercettato la possibilità di creare in Sardegna qualcosa mai realizzato prima, un’opportunità di sostegno soprattutto alla creatività degli autori giovani, che molto spesso sono costretti a andare fuori dalla regione per trovare occasioni di crescita e quindi  generare uno spazio di incontro, ricerca e  condivisione. Contemporaneamente abbiamo continuato il lavoro intrapreso già da decenni sull’ospitalità per mostrare la danza internazionale e nazionale di più  alto livello; abbiamo lavorato per divenire quindi sia un punto di riferimento per il pubblico che per l’ambiente creativo delle arti performative. È stata nostra intenzione incentivare fortemente la produzione, perché negli anni passati in Sardegna ci sono state molte ottime opportunità di programmare grandi compagnie e artisti protagonisti della scena della danza contemporanea ma invece la creazione originale  ha incontrato notevoli difficoltà e i numerosi tentativi dei nostri autori spesso si sono scontrati con i molteplici ostacoli legati alla marginalità

Foto Laura Farneti

Giulia Muroni: Che cos’è un centro di produzione dunque? Intanto dobbiamo andare indietro di tre anni, quando la riforma del ministero ha aperto alla nascita di nuovi centri di produzione, con una serie di obblighi, sia di ospitalità che ovviamente di produzione. Sono quattro quelli nati tre anni fa in tutta Italia: Fuorimargine in Sardegna, Res Extensa  in Puglia, Körper in Campania, Orbita | Spellbound nel Lazio..

Fuorimargine è nato a partire da una ricognizione del territorio, con una felice corrispondenza della possibilità aperta dal Ministero e dalla consapevolezza di tanti talenti legati alla danza presenti sul territorio. Negli ultimi anni in cui eravamo festival sempre più sovente è accaduto che autori e autrici della danza ci venissero a cercare, con il desiderio di tornare in Sardegna e trovare un riferimento, incontrare un ascolto, un’interlocuzione attiva.

La nascita di Fuorimargine si è dunque accompagnata alla responsabilità di creare un contesto generativo, che potesse assomigliare sempre più a un crocevia di possibilità e di concrete possibilità professionali, non soltanto dunque per chi in Sardegna è nato, vi risiede, ma anche vi transita e decide di investirci competenze e orizzonti, come per esempio Cristina Kristal Rizzo, in nome del desiderio di un tipo di cura che la nostra marginalità concede. Perché abitare una marginalità, – e noi lo facciamo in modo indisciplinato, fin dal nome – è anche una postura, una prospettiva sulle cose. Significa ridisegnare i confini, ridiscutere le possibilità di abitare i luoghi, di comporre gli spazi e provare altre forme di relazioni. Come dice bell hooks:”Lo spazio di apertura radicale è il margine, il bordo, là dove la profondità è assoluta. Trovare casa in questo spazio è difficile, ma necessario. Non è un luogo sicuro, si è costantemente in pericolo. Si ha bisogno di una comunità capace di fare resistenza”.

Foto Foto Lepomme- Piccolo Studio Mobile di Fotografia Commerciale

Qual è attualmente e com’è cambiata negli ultimi anni, anche grazie al vostro lavoro e quello di un’altra istituzione come Sardegna Teatro negli ultimi anni, la relazione tra l’isola, l’Italia e il resto d’Europa? Quali sono dunque ancora le difficoltà? 

M.F.: Credo che un  esempio interessante della nostra azione e intenzione sia da riportare alla collaborazione dell’inizio di quest’anno con Meg Stuart e Francisco Camacho, che con noi hanno trovato la possibilità di indagare nel territorio,  andare in giro per la Sardegna a cercare di capire,  vedere e percepire la peculiarità dei luoghi.  Siamo stati per loro i referenti che hanno creato le condizioni per studiare, ricercare e mettere in scena, in tre settimane di lavoro intenso, uno spettacolo che ha avuto qui il suo debutto internazionale. Contemporaneamente abbiamo prodotto e sostenuto nuove opere sia di artisti allo stato nascente che autori e autrici affermati, spesso  con performer sardi,  che in questi mesi stanno girando molto sia in Italia che all’estero. Tra questi ricorderei in particolare Matteo Sedda che abbiamo riconosciuto e accompagnato fino a oggi in tutte le sue proposte o la giovane danzatrice Giulia Cannas che sempre più è avviata a un percorso artistico di rilievo.

G.M.: A volte in Sardegna si sta in bilico tra un vittimismo molto forte – “siamo distanti, nessuno si interessa di noi” – e dall’altra parte un’auto-esaltazione un po’ egoriferita, che racconta di una Atlantide mitica, una terra in cui ogni cosa è migliore. Entrambe queste posizioni raccolgono delle prospettive condivisibili: siamo la terra con il più alto numero di insediamenti militari d’Europa, spesso vittime di politiche prone; altresì si tratta di un territorio di grande pregio storico-archeologico, con dei tratti di unicità. Dobbiamo tuttavia capire in che misura si possano ridefinire i concetti di identità, in che misura si possa essere presenti radicalmente nei territori, a produrre delle contro-narrative.

Come metodo, contro lo stigma del pocos, locos y mal unidos (con cui gli Spagnoli avevano appellato i sardi) crediamo sia necessaria una pratica plurale e contrastiamo la fragilità e le divisioni interne con delle alleanze solide: Sardegna Teatro, Insulae Lab (Centro di produzione della musica diretto da Paolo Fresu), il festival di Letteratura Tuttestorie, l’associazione Carovana S.M.I., ma ci sono anche state esperienze concluse come la candidatura di Cagliari Capitale della Cultura, con l’allora direzione dei Musei Civici e il profondo sostegno negli anni del management di Nevina Satta alla Fondazione Sardegna Film Commission.

Foto Laura Farneti

M.F. C’è anche una questione relativa alla nostra identità culturale vista dall’esterno, cioè non relativa a come noi ci percepiamo intimamente, ma come gli altri pensano alla Sardegna. Questo è sempre stato un problema e un vincolo, perché ci restituisce una visione stereotipata che cozza contro un’intenzione di ricerca nel campo del contemporaneo. Non rifiutiamo la tradizione – noi operiamo anche a Nuoro, un posto fortemente identitario-  ma viviamo con consapevolezza il presente e immaginiamo il futuro. Vorremmo quindi che questo sguardo sulle nostre tradizioni arrivasse dagli artisti che qui sono nati, in questa terra si riconoscono ma abbiano anche una capacità trasformativa e innovativa su tutti gli aspetti della cultura. Fuorimargine nasce  dal  festival  Autunno Danza e ancora prima da una compagnia di produzione che già aveva avuto le sue esperienze internazionali. Questi contesti spesso ci hanno reso evidente che all’estero siamo percepiti semplicemente come italiani e non sardi, come se la questione identitaria fosse più complessa con il resto d’Italia che con il resto del mondo.

G.M: Una nota critica una volta ci disse: “perché vi occupate tanto di danza contemporanea, voi che avete i Mamuthones?”.

Foto Laura Farneti

Appunto, la critica. Giulia, tra le tue esperienze c’è anche quello della scrittura critica. Come ha influenzato il tuo percorso e il tuo sguardo?

La scrittura critica è una pratica di sguardo in profondità rispetto ai processi artistici che si traduce in un tentativo non solo narrativo-descrittivo ma anche vitale, di conferire – grazie alla scrittura – un’ulteriore vita a quello che accade sulla scena.

Per me è stata sicuramente un’esperienza importante, formativa rispetto allo sguardo, ma anche alle strategia di restituzione, nonché al lavoro di una redazione collettiva. Una ricchezza dunque che fa parte di quello che sono, ma sento ora di non voler essere più nella condizione di dare un giudizio rispetto a ciò che vedo, sento di dover fare un passo indietro e osservare i processi, anche provando a immaginare che cosa possa accadere in futuro con quell’opera. Mi interrogo su come sia possibile aiutare a creare le condizioni affinché i processi crescano, anche ponendo delle domande. Credo che il lavoro critico mi abbia aiutata a costruire un vocabolario anche ricco, complesso e adesso anche grazie a questo vocabolario mi sembra che io debba non più scrivere dei giudizi, degli statement, ma formulare delle domande: di che cosa questa creazione ha bisogno per raggiungere una efficacia? E io di che cosa ho sentito la mancanza, rispetto a quello che sto osservando? Devo segnalare l’importante lavoro in questa direzione di Lavanderia a Vapore e Workspace Ricerca X.

Giulia Muroni

Io poi personalmente mi porto dietro delle esperienze di visioni importanti iniziate dall’infanzia, grazie a Autunno Danza, dentro la quale sono effettivamente nata, e che mi ha dato la possibilità di vedere la danza molto presto e di conoscerla da vari angoli prospettici.

A distanza di anni, intraprendere una fase di produzione significa chiaramente spostarsi un po’, –  e questo è un aspetto che rivendico -, perché chi guarda gli spettacoli spesso ne osserva soltanto gli esiti, valutandone la maggiore e minore efficacia. Invece non si può prescindere da un’osservazione più calata nei contesti delle condizioni materiali di produzione. Quali sono le possibilità di visione di un territorio? Quali le comunità che lo abitano e a quali di loro si rivolgono i lavori creativi? Un* artist* quanti giorni ha potuto provare, in quali spazi, chi ha potuto incontrare, con quali tempi? 

Sento che avremmo bisogno di uno sguardo critico capace di andare in profondità nei processi, capace di comprendere che, se un lavoro creativo nasce, cresce in un contesto che ha una certa penuria di fondi, spazi, competenze, è come i funghi matsutake di Anna Tsing. Qualcosa di meraviglioso e unico che cresce nei paesaggi post-atomici, dentro un paesaggio post-apocalittico. Tutto questo ha un peso, ma è molto difficile metterlo a fuoco e raccontarlo. 

Momi Falchi

M.F.: Trasformare lo sguardo, modificare l’impegno e l’attività, seguire i processi, sono questioni che devono essere affrontate anche dal punto di vista curatoriale, in maniera molto forte, per superare  i vecchi modelli relazionali. Nutriamo costantemente questo senso della mutazione e cerchiamo di attivarlo sul territorio, anche rispetto al tema del ricambio generazionale. E poi sottolineo la necessità di cambiamento anche nel modo in cui si gestiscono le associazioni e i contributi pubblici, perché è importante assumere una differente postura politica nell’ utilizzo dei fondi pubblici, con un forte senso di  responsabilità  che ci invita a uscire da ottiche di potere, di gerarchia, di sguardo giudicante,  verticistico  e egoriferito.

G.M.: La curatela – che ogni tanto sembra essere additata come parola à la page – in realtà è una postura che va nettamente al di là de la programmazione – diciamo pure coloniale – dei palinsesti, che sappia applicare uno sguardo plurale nei confronti delle scelte artistiche e creare delle condizioni di possibilità, dei tratti di connessione tra artist* e istituzioni, artist* e comunità, artist* e immaginari.

Foto pagina Facebook Fuorimargine

Vi occupate di linguaggi che tentano di ibridare la danza con la performance, con il multimediale, al centro rimane il corpo, nelle sue possibilità di espressione multiple. Qual è attualmente, secondo voi, lo stato di salute di queste espressioni artistiche principalmente legate alla creatività dei giovani?

G.M.:  Le giovan* artist* vivono una condizione di indigenza, in cui spesso non hanno gli strumenti per migliorare,  trascorrono la vita dietro ai bandi, a rincorrere delle possibilità, quindi spesso è frustrata anche la loro capacità immaginifica. Questo è un tema politico e sociale con dirette ripercussioni artistiche: non possiamo interrogarci sul perché lavorino da sol*, senza imporci una domanda sulle condizioni materiali in cui versano. Perché nel resto d’Europa continuiamo a vedere gli ensemble e i gruppi di lavoro? 

M.F.:  Riteniamo obsoleta una categorizzazione netta che separi gli approcci e i linguaggi della contemporaneità. Siamo lontane dall’idea che l’artista nasca con un talento compiuto, già definito in sé nella sua essenza a prescindere dalle condizioni di vita e produzione in cui è immerso. Questa visione rimanda a un concetto romantico dell’artista eroico, dotato per natura di un’aura speciale e compiuta che magari è arricchita dalla sofferenza e dalle difficoltà. Al contrario ci sembra che i talenti si sviluppino, debbano essere accompagnati e sostenuti in un contesto di dialogo fra i tre elementi che compongono l’atto performativo: l’artista, il pubblico, il curatore in una relazione capace di cogliere e rispettare, in maniera fertile, le istanze differenti che sgorgano da questo confronto. In sintesi direi che Il nostro obiettivo è proprio quello di cogliere l’impulso alla creazione anche allo stato ancora grezzo e offrire le condizioni perché questa potenzialità si realizzi e arricchisca in un ambiente di relazioni e competenze.

Foto Foto Lepomme- Piccolo Studio Mobile di Fotografia Commerciale

G.M.: Sicuramente  una cosa che ci interessa sono i deragliamenti imprevisti. Ovviamente mettendone in conto il fallimento o anche l’errore, anzi l’errore talvolta è vitale.

Come scegliete gli artisti e le artiste? Cosa vi attira?

G.M.: Ogni volta è diverso ma mi sembra che la creatività sia un barlume, che spesso incontriamo nell’imprevisto. In qualcosa che ci stupisce.

M.F.: Avrei detto la sorpresa. La capacità di muoversi oltre lo stereotipo, oltre la banalità.

Andrea Pocosgnich

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Andrea Pocosgnich
Andrea Pocosgnichhttp://www.poxmediacult.com
Andrea Pocosgnich è laureato in Storia del Teatro presso l’Università Tor Vergata di Roma con una tesi su Tadeusz Kantor. Ha frequentato il master dell’Accademia Silvio D’Amico dedicato alla critica giornalistica. Nel 2009 fonda Teatro e Critica, punto di riferimento nazionale per l’informazione e la critica teatrale, di cui attualmente è il direttore e uno degli animatori. Come critico teatrale e redattore culturale ha collaborato anche con Quaderni del Teatro di Roma, Doppiozero, Metromorfosi, To be, Hystrio, Il Garantista. Da alcuni anni insieme agli altri componenti della redazione di Teatro e Critica organizza una serie di attività formative rivolte al pubblico del teatro: workshop di visione, incontri, lezioni all’interno di festival, scuole, accademie, università e stagioni teatrali.   È docente di storia del teatro, drammaturgia, educazione alla visione e critica presso accademie e scuole.

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