A Romaeuropa Festival un altro atteso debutto: Giorgina Pi, regista del collettivo romano Bluemotion, si confronta con l’ultima opera di Bernard-Marie Koltès, Roberto Zucco. La parabola di un antieroe di fine secolo s’infrange contro il presente. In scena anche al Teatro Nazionale di Genova fino al 10 novembre, poi Prato e Milano. Recensione
«Sento qualcosa, ma non con le orecchie», dice una delle guardie carcerarie in piantone notturno, immerse nel buio e illuminate solo dallo schermo di sorveglianza che hanno davanti. Un presentimento, una sensazione già annunciata dall’impasto di suoni che fino a poco prima riempivano la sala, in attesa del debutto del Roberto Zucco di Giorgina Pi dentro al Romaeuropa Festival: suoni di città, stralci di discorsi, la voce di Bernard-Marie Koltès che racconta di sé. L’opera testamento di Koltès, la sua più cara, fin dalle prime battute innesca un’atmosfera allucinata e doppia: c’è un piano di cronaca e un piano filosofico, una scena da crime fiction su cui si innesta un dialogo esistenziale. Il presentimento presto si concretizza: l’orrore, il destino, la tragedia avanzano nel buio dal fondo della platea. Riecheggia l’incipit dell’Amleto, ma non è un fantasma quello che appare alle due guardie. O forse si?
La vicenda dell’italiano Roberto Succo, tra i primi casi di cronaca spettacolarmente mediatici che l’Europa ricordi, punge gli occhi di un Koltès vicino alla fine eppure vibrante di vita, in lotta con il proprio ineludibile sguardo privilegiato sul mondo che vuole raccontare: quello dei reietti, degli ultimi, degli emarginati. È il 1988 e siamo all’alba di un hangover, di un lento risveglio della coscienza dall’overdose di benessere universale promessa dal capitalismo. Nell’ombra già serpeggia quella fine, Koltès la respira da sempre.
Roberto Zucco è l’unico dei personaggi ad avere un nome, l’unica identità di questa storia, eppure è una persona qualunque, o nessuno. Di lui non sappiamo che quello che ci dicono le sue azioni violente, il suo incedere insolente, le sue parole rarefatte; maledetto da una madre pentita di non averlo ucciso in fasce e che da lui sarà uccisa, come il padre, gettato dalla finestra «come si getta una sigaretta»: con noncuranza, con gesto casuale, senza calcolo, guidato da un destino spietato. Valentino Mannias nel ruolo del protagonista mantiene il giusto equilibrio mentre scivola tra le insidie del personaggio, animato da quella fredda lucidità mista ad una purezza disarmante. Anche tutte le figure affollate attorno a lui, schegge anonime che Koltès dissemina sulla sua traiettoria, sono fantasmi, ombre lunghe di un’umanità devastata, ai margini, impregnata di morte, trascinata nel baratro da un destino con gli occhi di ghiaccio.
Giorgina Pi immerge la vicenda nel blu, nel rosso e nel fumo di un’estetica tipicamente anni ottanta/novanta di grande bellezza e di forte impatto visivo che, pur coerente con l’ambientazione originale, di fatto è ormai codice ricorrente per la rappresentazione cinematografica (sempre più limitrofa alla cronaca nera) di quello spaccato sociale, di quel contesto umano: luci al neon e tagli lynchiani, il grigio dello spazio urbano, il gelo della cabina telefonica, l’aria graffiata dai suoni tridimensionali del mondo. L’uso chirurgico della luce – cifra distintiva della regista del collettivo Bluemotion e qui firmata da Andrea Gallo – disegna le geometrie degli spazi scenici, assecondando l’andamento ellittico della successione dei quadri del testo. Come su un grande set cinematografico, vediamo in tutta la sua grandezza il palco del Teatro Vascello, inclusi elementi scenografici fuori campo e corpi illuminanti, così come con coerenza cinematografica sono resi costumi e trucco, al punto che le transizioni video proiettate sul fondale ad accompagnare la successione degli atti risultano ridondanti – se non si suppone la dichiarata volontà di amplificare l’effetto del filtro filmico.
In un montaggio serrato il palcoscenico è sezionato dalla luce in ambienti, di modo che ad ogni luogo corrisponda un altrove, uno spazio limitrofo che vive nonostante o proprio grazie a quanto avviene nel fulcro dell’azione. Una tovaglia trasparente, nervosamente rassettata, può farsi nascondiglio, mentre nella stanza accanto un letto matrimoniale racconta la rassegnata tragedia che si nasconde nel focolare domestico. Cinematografica è anche la proposta attoriale del corposo gruppo di interpreti, alcuni dei quali impegnati a rivestire plurimi ruoli ora sullo sfondo, ora in primo piano: accanto a Mannias, spiccano tra gli altri Giampiero Judica nel ruolo dell’anziano sperduto nel metrò e Monica Demuru, l’ostaggio disincantato e borghesemente annoiato della scena del parco. La resa vocale di tutti gli interpreti è filtrata dall’uso di microfoni che, pur agevolando l’intimità di certi passaggi, annullano la spazialità del suono: se in momenti come quello finale l’effetto di quest’unico flusso vocale è funzionale alla scena – corale, onirica, abbacinante – in altri passaggi rischia di confondere lo spettatore circa la provenienza della parola.
L’adattamento di Giorgina Pi, molto fedele al testo originale e al suo ritmo e respiro interno, rivela tutta la devozione della regista verso l’opera e l’autore. Forse in questa devozione è da rintracciare la motivazione di fondo più importante della messa in scena. Tutto l’impianto ha una grandissima resa visiva ed emotiva, eppure si espone ad un rischio di fondo: che la parabola di Zucco s’incagli in un patinato true crime filosofico dal fascino vintage. Quella violenza, irrimediabilmente umana, corre lungo lo spettacolo e come il protagonista spicca il volo finale, per poi infrangersi contro un presente – il nostro di spettatori – che non può più limitarsi a prendere atto dell’esistenza di quella violenza alla luce degli esiti catastrofici di questo tempo. Trent’anni dopo la suggestione di Koltès, quell’hangover non è più una scusa plausibile, il presentimento è ormai certezza. Questa sensazione si fa ancora più concreta quando la compagnia, a fine rappresentazione, porta sul palco la bandiera palestinese. Cosa racconta allora oggi Roberto Zucco? La spinta da sempre coerentemente politica del teatro di Giorgina Pi sembra qui fermarsi su una soglia, dalla quale contemplare una visione che colpisce, affascina eppure lascia smarriti, incapaci di farci illuminare da quel sole erotizzato che, sul finale dell’opera, attrae a sé Zucco e lo consegna insieme all’eternità e alla morte.
Sabrina Fasanella
Visto al Teatro Vascello, Romaeuropa Festival 2024
Calendario date in tournée
30 ottobre 2024 – 10 ottobre 2024 Teatro Gustavo Modena, Genova
21 – 24 novembre 2024 Teatro Fabbricone, Prato
12 – 17 novembre Teatro Elfo Puccini, Milano
ROBERTO ZUCCO
di Bernard-Marie Koltès
Traduzione Francesco Bergamasco
Un progetto Bluemotion
Adattamento, regia, scene e video Giorgina Pi
Interpreti: Valentino Mannias e Andrea Argentieri, Flavia Bakiu, Monica Demuru, Gaia Insenga, Giampiero Judica, Dimitrios Papavasilìu, Aurora Peres, Alessandro Riceci, Kevin Manuel Rubino, Alexia Sarantopoulou
Costumi Sandra Cardini e Gianluca Falaschi
Colonna sonora originale Valerio Vigliar
Ambiente sonoro Collettivo Angelo Mai
Luci Andrea Gallo
Cura del suono: Cristiano De Fabritiis
Assistente alla regia Michael Ferretti
Assistente ai costumi Anna Varaldo
Produzione Teatro Nazionale di Genova, Teatro Metastasio di Prato e RomaEuropa Festival in collaborazione con Angelo Mai, AMAT, Istituto Italiano di Cultura di Parigi, Olinda
Cast tecnico: direttore di scena Salvatore Arena; attrezzista Erika Sambiase; fonico Stefano Gualtieri
Senz’altro lo spettacolo aveva la capacitá di costruire ambienti visivi e acustici capaci di accogliere bene le scene di Zucco, ma, senz’altro lo smarrimento di cui giustamente Lei parla penso sia da attribuirsi ad una mancata interpretazione del testo il cui sintomo credo sia la recitazione. Le battute sfocate, a volte, all’apparenza, mal comprese, spesso esposte male sul piano tecnico, impastate in un similrealismo di superficie non riuscivamo a tracciare direzioni chiare, figlie di una lettura forte del testo in generale. Non comprendo perché gli esiti di una messa in scena debbano essere fatti ricadere sugli aspetti di formalizzazione scenica senza prendere adeguatamente in esame l’aspetto recitativo che resta il vettore principale della lettura di un testo.