Recensione. La vegetariana, dal romanzo della scrittrice Premio Nobel Han Kang, portato in scena da Daria Deflorian. Visto all’Arena del Sole di Bologna, in scena poi al Teatro Vascello di Roma per Romaeuropa Festival.
Yeong-hye non mangia più la carne.
Così inizia il romanzo La vegetariana della scrittrice sud coreana Han Kang da cui Daria Deflorian, insieme alla sceneggiatrice Francesca Marciano, parte per elaborarne una parabola scenica. La vita annoiata e mediocre di Yeong-hye è descritta attraverso le voci dei personaggi che le gravitano intorno in tre parti letterarie, che qui si trasformano in tre atti a cui la regia dà per titolo nomi di colori: rosso, azzurro chiaro, verde. Dal rosso del sangue inizia questo percorso di privazione della protagonista – in scena Monica Piseddu – che ci viene presentata dal marito – interpretato da Gabriele Portoghese – come una donna di nessun interesse, non molto bella, senza grandi passioni.
L’adattamento teatrale dà alla protagonista di Han Kang un volto, una figura, la possibilità di mostrarsi. Lei ci sembra quasi un’apparizione, l’incarnazione dei suoi sogni inquietanti e dei suoi desideri di morte che via via si fanno sempre più potenti, restituendoci delle immagini straordinarie. Nel senso letterale del termine potremmo dire che La vegetariana esce fuori dall’ordinario, è un racconto che si insinua e vaga nell’inconscio, penetra nelle viscere di un corpo, quello di Yeong-hye/Piseddu, esponendole alla luce. La sua storia è, in fondo, una storia di violenza domestica che inizia in età infantile e si ripete per tutto l’arco della sua vita in diverse forme, lasciando una profonda traccia. La rinuncia alla carne è infatti solo l’inizio, il punto di partenza di una astensione più radicale. Quando una mattina Yeong-hye si sveglia in preda a un’allucinazione e getta via tutta la carne conservata nel congelatore la sola spiegazione che dà al marito è che ha fatto un sogno. Né lui – impiegato dalle basse aspirazioni, incastrato in un ruolo sociale ben ordinato – né noi possiamo immaginare che quel gesto sarà rivoluzionario.
A uno sguardo occidentale questa conversione al mondo vegetale non può turbare fino al punto da immaginare la reazione a catena che invece scatenerà nella vita della protagonista e della sua famiglia. La donna diventa un obiettivo, un pupo rotto da riassemblare, ognuno a suo piacimento: il marito, che rinuncia presto a lei, quando i primi segni del suo cedimento mentale si palesano; prima di lui il padre – che mai si vede in scena ma viene evocato come fosse un fantasma – poi il cognato (Paolo Musio) con cui intraprende una relazione intima al limite dell’ossessione, e infine la sorella.
Nello scorrere del tempo cambiano i toni in funzione dello sviluppo della narrazione, affidata ora al marito (nella prima parte), ora agli altri personaggi. Cambiano i suoni, i colori della scena che da anonimo bilocale grigiastro diventa un ambiente sempre più rarefatto. La scelta di una scenografia tanto tradizionale con il fondale sempre presente infatti risulta superflua, incongrua rispetto a questa trasformazione; di fatto è l’illuminotecnica (ideata da Giulia Pastore) a bastare e farsi, insieme alla musica, drammaturgica. Lo spazio (tracciato da Daniele Spanò) è importante in quanto è influenzato dalle azioni dei personaggi che vi si muovono dentro – e non il contrario – è un contenitore dei loro umori. E infatti se nel primo atto dello spettacolo c’è un classico entrare e uscire di scena di tutti i personaggi, nel secondo atto la scena si affolla, tutti restano a vista anche quando non è funzionale alla narrazione la loro presenza. Il limite tra la realtà e il sogno, tra il concreto e l’immaginato è sempre più sottile. Soprattutto la concezione stessa dello spazio dipende dai movimenti di Yeong-hye. Il suo corpo, inizialmente rinchiuso in abiti scuri e conformi, si scopre sempre più spesso man mano che lo stato della sua mente si allontana dal percorso umano e finché smette di essere considerata una persona sana. Quello che lei cerca non è in nessun momento simile a una purificazione etica dalla carne; ma è qualcosa che non ha a che fare con l’umanità, che si avvicina invece al mondo delle piante. Anche nelle scene di passione di cui è protagonista nella seconda parte non sarà mai la carnalità a colpirci; invece la sensualità dell’ombra, del nascosto, di qualcosa che pare esistere solo dentro di lei o fuori: nel sole, nel vento, nelle fronde degli altissimi alberi del bosco, che mai vediamo se non attraverso di lei, nella sua nudità.
All’apice della follia Yeong-hye/Piseddu smette di mangiare, quasi di parlare, di comportarsi come un essere umano, eppure sembra rinsavire, è felice. Cambia anche la qualità del suo gesto che perde il nervosismo iniziale e acquisisce nuove sfumature di vitalità. L’indifferenza delle piante la attrae al punto da sentirsi lei stessa parte della terra. A testa in giù e con i palmi delle mani piantati sul suolo vuole far crescere le sue radici. I suoi sogni sono diventati più chiari, come visioni sul futuro. Il solo contatto con l’umano è la sorella, interpretata dalla stessa regista, che nel terzo e ultimo atto di quest’opera prende il timone della trama. Deflorian ci trasporta in una una nuova atmosfera: verde come il bosco che deve attraversare ogni giorno in autobus nel percorso che dalla città di Seul conduce all’ospedale psichiatrico in cui è in cura la sorella. Nel verde e nella pioggia che accompagnano suggestivamente questa parte possiamo conoscere finalmente l’amore. Se fino a questo momento infatti i rapporti intercorsi tra Yeong-hye e la famiglia sono stati di sottomissione, repressione, ossessione, ora, nell’unica relazione sopravvissuta, c’è la fragilità dell’amore. La sorella smette di provare a convincerla a rientrare nel corso razionale delle cose e si avvicina, invece, sempre di più al suo mondo, lontanissimo dalla realtà. Probabilmente è in quest’ultimo atto che la regia ha saputo meglio portare in scena e legittimare la frattura che, attraverso questo personaggio, Han Kang ha aperto nel principio di realtà. È un varco nel quotidiano, da cui entrano dapprima l’oscurità del mondo sommerso, i fantasmi del passato, la paura dell’ignoto, e poi la luce, la rivelazione che l’esperienza di ascetismo intrapresa da Yeong-hye ha molto più a che fare con la vita che con la morte. L’accettazione che la fine della vita per lei possa rappresentare un inizio va al di là della comprensione di sua sorella, ma è la chiave del suo amarla.
Silvia Maiuri
Ottobre 2024, Bologna, Arena del Sole
LA VEGETARIANA
scene dal romanzo di Han Kang
adattamento del testo Daria Deflorian e Francesca Marciano
co-creazione e interpretazione Daria Deflorian, Paolo Musio, Monica Piseddu, Gabriele Portoghese
regia Daria Deflorian
aiuto regia Andrea Pizzalis
scene Daniele Spanò
luci Giulia Pastore
suono Emanuele Pontecorvo
aiuto regia Andrea Pizzalis
costumi Metella Raboni
consulenza artistica nella realizzazione delle scene Lisetta Buccellato
collaborazione al progetto Attilio Scarpellini
direzione tecnica Lorenzo Martinelli con Micol Giovanelli
stagista assistente Blu Silla
per INDEX Valentina Bertolino, Elena de Pascale, Francesco Di Stefano, Silvia Parlani
comunicazione Francesco Di Stefano
produzione INDEX
in coproduzione con Emilia Romagna Teatro ERT / Teatro Nazionale; La Fabbrica dell’Attore – Teatro Vascello in corealizzazione con Romaeuropa Festival, TPE – Teatro Piemonte Europa, Triennale Milano Teatro, Odéon-Théâtre de l’Europe, Festival d’Automne à Paris, théâtre Garonne | Scène Européenne – Toulouse
con la collaborazione di ATCL / Spazio Rossellini, Istituto Culturale Coreano in Italia
con il supporto di MiC – Ministero della Cultura
l’immagine è di Andrea Pizzalis
copyright © Han Kang 2007
copyright © Adelphi 2016
nell’ambito di Opening – showcase Italia