A Torinodanza la compagnia di Alonzo King, Lines Ballet, ha presentato un lavoro coreografico nato in risposta alla pandemia: un lungo flusso di movimento in costante dialogo con il tempo profondo della natura.
Il coreografo nordamericano Alonzo King è figlio di attivisti per i diritti civili, nato in Georgia ma di base a San Francisco con la sua compagnia Lines Ballet, fu iniziato allo yoga dal padre Slater King che era vicepresidente dell’Albany Movement (gruppo nonviolento nato nel 1961 per combattere tutte le forme di segregazione razziale). In tanti anni di attività e di creazioni, Alonzo King ha spesso messo in relazione le sue teorie sulla forma della danza classica con la continua evoluzione del mondo in cui viviamo, e l’uguaglianza razziale come punto di non ritorno. E lo ha rivendicato nei corpi, realizzando coreografie prevalentemente astratte ma che sono il manifesto di una continua ricerca di un risveglio etico e morale. Attraverso l’emozione dei corpi in movimento, in un generativo rapporto con la musica, e in un sapere delle forme del vocabolario accademico che hanno origine nella natura. Per King una piroetta già esiste nei vortici e nei mulinelli e nel modo in cui il mondo gira sul suo asse intorno al sole. Il ritorno alla attenta osservazione di ciò che esiste già in natura, significa ritrovare le forme di una più vera intenzione compositiva nel tempo profondo della terra, e del paesaggio che ci ospita. La coreografia si fa carico di questo riconoscimento e di questa corrispondenza, e i corpi in scena sono la più diretta estensione di queste relazioni.
La programmazione del Festival Torinodanza ha chiuso ospitando proprio la compagnia di Alonzo King che ha presentato il suo ultimo lavoro dal titolo Deep River, coreografia di ininterrotti 65 minuti per il 40° anniversario della compagnia, e una intensa drammaturgia musicale, con brani di Jason Moran, Lisa Fischer, Pharoah Sanders, Maurice Ravel, e James Weldon Johnson. È un lavoro che nasce in piena pandemia, e contiene e sviluppa molti degli spunti presenti nei tre video coreografici realizzati da remoto in quei mesi, in collaborazione con i danzatori e le danzatrici, e poi pubblicati sul sito della compagnia nell’agosto del 2020, qui a Torino riproposti in una attigua sala di proiezione. I tre video raccolgono danze soliste filmate dagli interpreti nei loro luoghi di isolamento («from their homes throughout the Americas»), sempre all’aperto, poi sapientemente montati con la regia di Robert Rosenwasser, sotto il titolo comprensivo There is no standing still.
Deep River è un fiume di movimento in piena: forme meravigliose, con musica sia della tradizione nera che ebraica, composta da Jason Moran e cantata principalmente da Lisa Fischer, mentre la maggior parte della compagnia è sempre in scena, alternando all’intenso lavoro di ensemble, spesso con gesti angolari e brusche turbolenze, con assoli (sempre sorprendenti), e rari pas de deux (credo solo due), senza soluzione di continuità. Qui tutti sono parte integrante del tutto. In scena non c’è altro: inutile cercare un filo, una storia, un contesto. L’esperienza che segna la visione è quella non lineare del tempo profondo della natura, attraverso la presenza dei corpi, capace di rifare il mondo, di riparare i disastri inflitti al pianeta, e di ritrovare nell’amore la capacità di «to make the lotus bloom in the mud» (far fiorire il loto nel fango: che è un mantra di King). La danza, come è ovvio, è sempre qui in primo piano, ma mai dominata da schemi o da logiche di movimento che la trascendono: sembra invece che ognuno in scena abbia la libertà di scorrere tra stasi e continue ripartenze, in una dinamica mai oppressiva né prevedibile. Questa è una comunità che assomiglia moltissimo alla società americana di oggi: tutte singolarità che provano a stare insieme nella consapevolezza che è la rinuncia, il passo di meno, la voglia di lasciare andare e fare dell’esperienza dell’abbandono non un trauma ma il motore di un cambiamento del mondo, la più vera forza di reclamare un diritto alla libertà.
Nel sapere compositivo di King sempre è evidente una forzatura del codice accademico, un suo completamento o addirittura l’intuizione di una sua nuova necessità, in direzione naturale. Le spirali, le morbide curve, le tensioni leggere, gli sciolti arabeschi, tutte le gerarchie sempre dissolte e il riformularsi delle presenze negli assoli e nei passi a due attraverso la spontaneità di forme mai costrette né obbliganti, al contrario spiazzanti nella immediata complessità della loro qualità. Dopo un trio tutto femminile, vi è il tempo di un generale assenso con la testa seguito subito da un diniego, poi a scena libera una pietà che scorre da quinta a quinta: corpo morto nella difficile magrezza delle sue articolazioni. Sono immagini di raccordo, situazioni fortemente espressive che segnano un umore. Poi, quasi a metà, una coppia che ride sguaiata, improvvisa, fra mille citazioni gestuali non solo classiche (Balanchine e Forsythe fra tutti) ma anche moderniste (Taylor e Morris, per esempio). Un mondo intero cerca di tenersi insieme, nel segno coreografico di Alonzo King, senza uniformare, senza normalizzare né adattare le differenze, dopo la fine (della pandemia). È la libertà dell’improbabile.
Dalla critica è stato considerato anche come un vano esercizio di ipotesi oziose, o una fonte di incertezza soprattutto da parte di chi preferisce il prevedibile e la certezza del conosciuto. Eppure, l’esercizio dell’improbabile in Deep River è fonte di libertà da cui possono scaturire idee coreografiche, soluzioni cinetiche o eventi performativi nuovi e inaspettati, alle frontiere del possibile e dell’impossibile. Con Cristina Kristal Rizzo (che dopo il suo debutto al festival è rimasta apposta a Torino per vedere questo lavoro), in taxi sulla via del ritorno, abbagliati e anche rinfrancati da tanta ricchezza, a tratti enigmatica e forse in più parti imprendibile, ma nei corpi che abbiamo visto sempre attualissima, abbiamo parlato di questa dimensione ‘naturale’ del movimento, della percezione di una vera libertà, pur nel codice, di questi incredibili interpreti che sembravano perfettamente sincronizzati e complici. In un modo che si ritrova spesso in quel tipo di danza che lavora sulla composizione istantanea, al di là del logos coreografico. È stato come riconoscere, in questo inedito e generativo corpo a corpo con il codice, la stessa libertà di movimento e la stessa autodeterminazione dell’interprete che numerose comunità di performer prefigurano oggi attraverso differenti pratiche di generazione del movimento.
Stefano Tomassini
Ottobre 2024 Torinodanza Festival
DEEP RIVER
coreografia Alonzo King
musica Jason Moran, Lisa Fischer, Pharoah Sanders, Maurice Ravel, James Weldon Johnson
interpreti Maël Amatoul, Adji Cissoko, Theo Duff-Grant, Lloris Eichinger, Shuaib Elhassan, Joshua Francique, Mikal Gilbert, Ilaria Guerra, Babatunje Johnson,
Marusya Madubuko, Tatum Quiñónez, Amanda Smith
direttore aggiunto Robert Rosenwasser
maître de Ballet Jenny Sandler
direzione tecnica Adam Cook
regia luci Seah Johnson
direttore di scena Byron Roman
general manager Brandi Williams
voce Lisa Fischer
design luci Jim French
design costumi Robert Rosenwasser
fotografia e video RJ Muna
Lines Ballet
con il supporto di Bank of the West, Fondation BNP Paribas
e National Endowment for the Art
durata 65 minuti senza intervallo