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HomeArticoliThe Making of BERLIN. La scomparsa della realtà

The Making of BERLIN. La scomparsa della realtà

In prima nazionale a Romaeuropa Festival 2024 The Making of Berlin della compagnia BERLIN, che riflette sulla storia contemporanea e i sensi di colpa che porta con sé, proponendo un ragionamento sul limite tra veridicità e finzione. Recensione.

Foto Koen Bros

In Teoria generale del montaggio Sergej Ejzenstejn definiva alcuni criteri fondamentali tra cui scegliere per scomporre e poi ricomporre il continuum delle immagini filmate in segmenti in grado, nel proprio giustapporsi, di creare effetti di coinvolgimento, spaesamento, epifania nel fruitore: il cosiddetto «montaggio delle attrazioni». Tra questi, il più complesso è quello della «associatività», vale a dire l’accostamento di immagini, suoni o azioni che, pur non essendo direttamente collegati, si completano attraverso un’associazione logica o emotiva. Perché si verifichi questo effetto, allora, è necessario l’ingresso in campo di un ragionamento da parte di chi guarda, di una presa in carico di responsabilità che arrivi a completare un ragionamento che resta, programmaticamente, suggerito.

Foto Koen Broos

Qualcosa di simile a un’assunzione di responsabilità è la richiesta sommessa che sembra serpeggiare, in maniera via via più nitida, sotto alla tessitura drammaturgica di The Making of Berlin, giunto in prima nazionale a La Pelanda per il 39esimo Romaeuropa Festival. Berlin non è solo la città, ma anche il nome del collettivo belga fondato nel 2003 da Yves Degryse, Bart Baele e Caroline Rochlitz: una ricerca artistica posizionata al confine tra cinema documentario e creazione teatrale e radicalmente ancorata al trattamento del fatto contemporaneo, sul quale viene puntata una lente spietata, in grado di farne emergere le contraddizioni.

Foto Koen Broos

L’arcoscenico sigillato da uno schermo per videoproiezioni, assistiamo a quel che pare essere un documentario: in un ottimo montaggio guardiamo il making of dell’ultimo capito della serie Holocene, un sorvolare tra città come Gerusalemme, Iqaluit, Bonanza, Mosca, a metà tra storia e immaginario, in grado di svelarne l’identità radicata nelle storie individuali. Il capolinea è, appunto, Berlino, e Yves Degryse accetta, proprio malgrado, di accogliere una telecamera che riprenderà il loro ultimo progetto sulle benjaminiane «immagini di città». Il gruppo ha individuato la vicenda che farà da epifania: un anzianissimo ex direttore di scena della Berliner Philarmoniker Orchestra desidera narrare l’evento speciale accaduto alla soglia dell’assedio del Terzo Reich, la Götterdämmerung di Wagner eseguita dall’organico di stato ripartito negli angusti angoli di una rete di bunker sotterrranei, per sfuggire ai bombardamenti russi. Friedrich Mohr è un vecchio tedesco tale e quale alle decine che si potrebbero incontrare in sosta alle panchine del Tiergarten: barba bianca orgogliosamente guadagnata e mai tolta, cardigan e camicia su pantaloni di stoffa pesante, andatura incerta ma misurata, lineamenti che custodiscono la massima tristezza di chi, pur essendo sopravvissuto, non riesce a percepire di aver fatto la differenza. E che, forse, desidera un riscatto.

Foto Koen Broos

Sullo schermo seguiamo le complesse architetture produttive di una compagnia di successo del nord Europa (attualmente Degryse, con Raes e con Melih Gençboyacı, sono direttori artistici del celebre NTGent) alle prese con un progetto complesso che conserva in sé il germe dell’operazione politica: la microstoria degli individui incontra il senso di colpa dei governi e delle masse, volgendo in vena poetica l’urlo colpevole della Germania nazista e dei suoi, pur silenziati, oppositori. In programma c’è il re-enactment del concerto dai bunker, alle prese con il rifiuto della stessa orchestra berlinese e con la ricerca del collettivo disposto a farsi pubblicità positiva e, insieme, determinato a non perdere la faccia. Il ritmo letargico del parlato di Mohr, la ripetizione di certe sequenze già ascoltate e viste, l’indugiare su musiche d’effetto e tempi dilatati sta per lasciare spazio alla noia o all’impressione che BERLIN ci stia consegnando una calligrafica lezione etica, quando lo schermo magicamente si alza e ci rivela, in presenza viva, alcuni protagonisti del video con cui ormai avevamo imparato a familiarizzare, noi tranquilli sulle nostre poltrone. No, invece, c’è di più. C’è il movimento in carne ed ossa di chi ha attraversato il processo, protetto da un complicato intreccio di schermi, consolle e tagli di luce, un fondale che si scomporrà con grazia in sette schermi, uno per ciascun bunker, una violoncellista che mostra l’arco in movimento e il lavorio dei corpi a prendersi cura della nostra visione. Si tratta di una visione frammentata, una drammaturgia multimediale accuratamente montata sul procedere del documentario che, adesso, ha attraversato una profonda svolta drammaturgica: la messa in crisi totale del dato di realtà della vicenda che avrebbe dovuto giustificare l’intervento sul documento.

Foto Koen Broos

Quando il teatro, regno della rappresentazione, si occupa della realtà, il discorso si sposta su chi osserva. Ed è qui che il pubblico può sentire la responsabilità totale della presa di parola. La vicenda che abbiamo fruito come semplici spettatori e spettatrici viene trascinata alla sbarra in un processo alla veridicità: tutto ciò che è stato raccontato potrebbe di fatto essere la fantasia di un vecchio alle prese con la propria mania di protagonismo; o, per sineddoche, quella di un popolo che ancora, dopo ottant’anni, ha bisogno di emancipare la propria coscienza dalle catene di una condanna morale che non avrebbe fine. La Berliner Philarmoniker dichiara di appoggiare solo progetti «di finzione», i due reduci di quell’esperienza ci regalano un’emblematica conversazione sull’esigenza di «alzarsi» e sulla potente, invece, gravità che ci fa restare «seduti» di fronte alle ingiustizie del mondo che osserviamo. Un attimo prima che il sipario filmico si alzasse rivelando altro, facendo eco alla deriva di una missione documentaria che vuole credere prima ancora che verificare, avevamo infatti pensato che il protagonista della storia apparisse troppo giovane per esser stato presente ai bombardamenti del 1945. Ma ora non c’è modo (o necessità) di capire se quel volto di vecchio appassito di tristezza sia quello di un testimone oculare, di un custode di memorie, oppure quello di un attore scritturato apposta per interpretare quel difficile (oppure facilissimo!) ruolo.

Foto Koen Broos

Nel racconto che continuiamo a seguire, il collettivo BERLIN, affogato nel dubbio che la storia sia solo una splendida menzogna, resterà comunque ancorato al progetto (perché si dice, le penali di produzione sono insostenibili), piuttosto lo modificherà: non sarà più quello di costruire un ultimo spettacolo sulla memoria sopita di una città che gli dà il nome, né la vicenda privata di un testimone; diventerà un affresco tra vero-verosimile-desiderato-falso, affondo crudele sulla nostra capacità di distinguere, sepolte dalla polvere della Storia e del nostro stesso senso di colpa di occidentali, la traccia che separa una commovente realtà da una sua ben più prosaica rappresentazione.
Se raccontiamo del passato una versione forzata, se nelle tracce della memoria individuiamo delle trappole di attendibilità, come dobbiamo comportarci? Come possiamo renderci – al contempo – garanti e giudici di una vicenda orribile come la follia nazista e – al contempo – dello strenuo sforzo di chi c’era di confermarsene estraneo? Ci serve un impegno di responsabilità che riesca a farsi partecipe del processo di costruzione narrativa. Questo, in definitiva, è ciò che BERLIN ci chiede. In questa fabula divorata dall’intreccio, detta alla maniera di Propp, in cui la disposizione degli eventi ha la meglio sulla loro possibilità d’essere ricostruiti, aprendo lo sguardo alla compartecipazione etica possiamo essere testimoni di un vulnus che ci rende tutti colpevoli: riconosciamo reale e attendibile ciò che ci viene raccontato nella maniera più convincente. E tutto «il resto – dice il Poeta – è silenzio».

In un libro del 2009 intitolato L’angelo rovesciato. Quattro saggi sull’11 settembre e la scomparsa della realtà, Attilio Scarpellini descrive quel «momento in cui il soggetto e l’oggetto della visione si scambiano di posto e ciò che è guardato esce dalla sua passività per guardarci a sua volta, come nell’aura benjaminiana che può essere avvertita nell’istante in cui anche le cose si dotano di una capacità di guardare». Ecco. BERLIN fa in modo che ciò che è guardato ci guardi, a propria volta. E noi ne siamo usciti stregati, catturati da una presenza dell’oggetto-documento che nella composizione logica ed emotiva, tra film e azione scenica, fa trasalire la nostra assenza al momento del giudizio, asfalta il nostro tempo rassicurante, la nostra storia, così lontana prima e, ora, così vicina.

Sergio Lo Gatto

La Pelanda, Roma, Settembre 2024 per Romaeuropa Festival

THE MAIKNG OF BERLIN
regia: Yves Degryse
Performer in scena: Yves Degryse, Fien Leysen, Sam Loncke (alternato), Geert De Vleesschauwer, Bregt Janssens, Koen Goossens, Marjolein Demey (alternato) Rozanne Descheemaeker, Matea Majic, Diechje Minne, Jonathan Van der Beek (alternato)
In video: Friedrich Mohr, Martin Wuttke, Stefan Lennert, Werner Buchholz, Alisa Tomina, Krijn Thijs, Chantal Pattyn, Symfonisch Orchestra Opera Ballet Vlaanderen, Alejo Pérez, Caroline Große, Michael Becker, Claire Hoofwijk, Alejandro Urrutia, Marek Burák, Marvyn Pettina, Farnaz Emamverdi, Il team di BERLIN: Jane Seynaeve, Eveline Martens, Yves Degryse, Jessica Ridderhof, Geert De Vleesschauwer, Sam Loncke, Manu Siebens, Kurt Lannoye, Il team dell’ Opera Ballet Vlaanderen: Jan Vandenhouwe, Lise Thomas, Eva Knapen, Christophe De Tremerie
Video ed editing video: Geert De Vleesschauwer, Fien Leysen, Yves Degryse
Montaggio Video: Maria Feenstra
Riprese con drone: Yorick Leusink e Solon Lutz
Riprese Backstage: Fien Leysen
Scenografia: Manu Siebens
Costruzione della scena: Manu Siebens, Ina Peeters, Rex Tee, Joris Festjens
Costruzione e progettazione del set cinematografico: Jessica Ridderhof, Klaartje Vermeulen, Ruth Lodder, Ina Peeters
Composizione musicale e missaggio: Peter Van Laerhoven
Musica live: Rozanne Descheemaeker, Diechje Minne, Matea Majic, Jonathan Van der Beek
Musica nel film: Peter Van Laerhoven, Tim Coenen, Symfonisch Orchestra Opera Ballet Vlaanderen diretta da Alejo Pérez
Missaggio orchestra: Maarten Buyl
Design dei suoni dal vivo e missaggio: Arnold Bastiaanse
Registrazioni suono: Bas De Caluwé, Maarten Moesen, Bart Vandebril
Traduzione e sottotitolaggio: Dorien Beckers, Maria Feenstra, Annika Serong, Nadine Malfait, Isabelle Grynberg
Coordinamento tecnico: Manu Siebens, Geert De Vleesschauwer, Marjolein Demey
Tecnici:: Bregt Janssens, Jurgen Fonteijn, Hans De Prins, Koen Goossens
Direzione di Produzione: Jessica Ridderhof
Assistenza tedesca alla produzione: Daniela Schwabe, Gordon Schirmer
Ricerca su Wagner: Clem Robyns
Aiuto alla ricerca: Annika Serong
Fotografia: Koen Broos, Gordon Schirmer
Business management: Tine Verhaert
Business management [fino al 2021]: Kurt Lannoye
Coordinamento e produzione giornaliera: Jane Seynaeve, Maya Van der Brempt
Distribuzione: Eveline Martens, David Bauwens
Comunicazione: Sam Loncke
Coproduzione: DE SINGEL [Antwerp, BE], le CENTQUATRE-PARIS [FR], Opera Ballet Vlaanderen [BE], VIERNULVIER [Ghent, BE], C-TAKT [Limburg, BE], Theaterfestival Boulevard [Den Bosch, NL], Berliner Festspiele [DE] Con il supporto di: the Flemish Government, Sabam for Culture, Tax Shelter of the Belgian federal government via Flanders Tax Shelter
BERLIN è artista associato a DE SINGEL [Antwerp, BE] e artista associato al CENTQUATRE-PARIS [FR]

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Sergio Lo Gatto
Sergio Lo Gatto
Sergio Lo Gatto è giornalista, critico teatrale e ricercatore. È stato consulente alla direzione artistica per Emilia Romagna Teatro ERT Teatro Nazionale dal 2019 al 2022. Attualmente è ricercatore presso l'Università degli Studi Link di Roma. Insegna anche all'Alma Mater Studiorum Università di Bologna, alla Sapienza Università di Roma e al Master di Critica giornalistica dell'Accademia Nazionale d'Arte Drammatica "Silvio d'Amico" di Roma. Collabora alle attività culturali del Teatro di Roma Teatro Nazionale. Si occupa di arti performative su Teatro e Critica e collabora con La Falena. Ha fatto parte della redazione del mensile Quaderni del Teatro di Roma, ha scritto per Il Fatto Quotidiano e Pubblico Giornale, ha collaborato con Hystrio (IT), Critical Stages (Internazionale), Tanz (DE), collabora con il settimanale Left, con Plays International & Europe (UK) e Exeunt Magazine (UK). Ha collaborato nelle attività culturali e di formazione del Teatro di Roma, partecipato a diversi progetti europei di networking e mobilità sulla critica delle arti performative, è co-fondatore del progetto transnazionale di scrittura collettiva WritingShop. Ha partecipato al progetto triennale Conflict Zones promosso dall'Union des Théâtres de l'Europe, dove cura la rivista online Conflict Zones Reviews. Insieme a Debora Pietrobono, è curatore della collana LINEA per Luca Sossella Editore e ERT. Tra le pubblicazioni, ha firmato Abitare la battaglia. Critica teatrale e comunità virtuali (Bulzoni Editore, 2022); con Matteo Antonaci ha curato il volume Iperscene 3 (Editoria&Spettacolo, 2018), con Graziano Graziani La scena contemporanea a Roma (Provincia di Roma, 2013). [photo credit: Jennifer Ressel]

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