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Tanti Sordi di Frosini/Timpano. Tra provocazione e insulto

Recensione. Alla Sala Umberto di Roma, in prima nazionale per Romaeuropa Festival, abbiamo visto il nuovo spettacolo di Elvira Frosini e Daniele Timpano, scritto con Lorenzo Pavolini.

Foto Piero Tauro

Cominciamo con una confessione. Io, nato e cresciuto a Roma e molto vicino al mondo della cultura e dello spettacolo, non ho mai visto un film il cui protagonista fosse Alberto Sordi. Non avevo nemmeno idea che egli avesse fatto pure il cantante.
L’ho visto comparire forse in un film di Carlo Verdone, in diverse occasioni televisive quando ancora avevo un apparecchio; di certo l’ho osservato campeggiare sulle stampe in bianco e nero nelle trattorie romane e non solo, preferibilmente alle prese con il proverbiale «maccherone». So bene quanto importante sia stato e sia per la coscienza popolare della Capitale, per quella nazionale e anche internazionale. Eppure io non so nulla di questa persona. O, meglio, di questo personaggio, di questa maschera, di questo eroe che, come vorrebbe Chris Vogler, ha attraversato tutte le «soglie» possibili della popolarità, tra cinema, teatro, musica, varietà, televisione; in una parola: immaginario. Perché sì, è vero, si può parlare di «mitologia». Ed è questo il termine che si legge nella presentazione dello spettacolo Tanti Sordi. Polvere di Alberto, che Elvira Frosini e Daniele Timpano firmano insieme allo scrittore Lorenzo Pavolini, con debutto dentro Romaeuropa Festival, prima di un passaggio al Teatro Studio Melato del Piccolo di Milano e che andrà in giro per altre piazze in questa e – sempre, per tutti, si spera – nelle prossime stagioni.

Foto Piero Tauro

Quella di Sordi è una mitologia fatta di battute iconiche, modi di dire diventati vulgata universale, pose e registri vocali che fanno base nella memoria collettiva di tutte e tutti noi. Anche, e non troppo misteriosamente, di chi non ha mai visto uno dei suoi oltre 160 film o ascoltato una delle sue 30 interpretazioni canore. Perché, anche qui le concise note di accompagnamento sottolineano, Sordi è il «mito dell’uomo medio», quella larva sociologica da cui, potenzialmente, potrebbe sbocciare ogni cangiante specie di farfalla. Se siamo nati in Italia, siamo tutti un po’ “Albertone”, ricorriamo alle sue scalcagnate massime, alle sue sagaci risposte, alla sua mimica, alla sua irresistibile (si dice) comicità innata, alla sua capacità di sciogliere in una risata a tratti amara “il logorio della vita moderna”. Come se non ci fosse modo, parlando di una figura simile, di evitare il rimando ad altre formule che pure ci appartengono e che troviamo già confezionate, trite, retoriche, eppure così tanto parte di noi che se ce le toccano, un po’, ci dà fastidio.

Foto Piero Tauro

Nel DNA di Frosini / Timpano c’è da tempo l’impegno a smascherare le retoriche del Belpaese e non solo, il coraggio di andare a esumare memorie storiche scomode, da Mussolini a Moro, da Ceaușescu alla nostra storia coloniale, fino ai precari-zombie o alla Rivoluzione Francese usati come lenti per osservare un profondo e generalizzato imputridire della coscienza etica e politica.
Il loro teatro è sempre più votato a un decadente ma sfrenato cabaret simil-dadaista, in cui il buongusto è il bersaglio per sberleffi e severi moniti che dardeggiano a suon di lunghe tirate acide, concertati grotteschi, danze dinoccolate, folgoranti botta e risposta, invettive incontrollabili, colorati intermezzi al limite del non-sense, non senza una generosa esplosione di travestimenti sgargianti accostati a brusche sterzate fuori dal codice della rappresentazione, in cui attori e attrici s’interrogano sul senso primario dello stare in scena, sulla necessità di farsi voce per una comunità artistica imbarbarita e sconcia, ridotta alla canna del gas da un sistema produttivo e da un orizzonte intellettuale e sociopolitico inconsapevole e vorace.

Foto Piero Tauro

Tanti Sordi non fa eccezione: l’attore romano, scomparso nel 2003, diviene il «cadavere squisito» al centro di un gioco di immaginazione, reinvenzione e corruzione del mito che sembra non poter trovare il tratto che lo ha originato: in altre parole, siamo tutti Sordi e non ricordiamo più neppure perché e che cosa significhi. Timpano e Frosini, insieme a Marco Cavalcoli e Barbara Chichiarelli, organizzano un crudele gioco al massacro, tra improbabile re-enactment e ruvido j’accuse, quadro dopo quadro il fantoccio Albertone è vittima di un funerale popolare in absentia, a cui partecipano testimoni fittizi o reali (come le celebrità convocate a tributargli l”estremo saluto o un Goffredo Fofi-Tiresia che asfalta l’intero cinema italiano) e su cui si scagliano, a rincarare la dose, i commenti sprezzanti di chi non c’era ma che, magia dell’immaginario condiviso, è come se ci fosse sempre stato, vedendo nascere una Sfinge di fronte al cui enigma, stavolta, si può ridere. E forse è proprio la risata a stare al centro di questa irridente invettiva: l’allegoria compie un affondo filosofico, a tratti un po’ moralista, che non riesce a perdonare l’atto della sdrammatizzazione come arma di difesa efficace a ripulirsi la coscienza.

Foto Piero Tauro

I primi a non voler cadere in questa ipocrisia sono proprio gli artisti, che qui dichiarano – in maniera ironica ma poi neppure tanto – di voler fare «tanti sòrdi» saccheggiando il repertorio del dio della commedia all’italiana. E, nella prima parte dello spettacolo, lo fanno accatastando una sull’altra tutte le possibili sue “entrate clownesche”, evitando però di cadere nella tentazione mimetica, e anzi riproponendole in una chiave ancora più grottesca e irritante, come un gruppo di bambini annoiati e arrabbiati. Grazie a un sorprendente agio in scena da parte di interpreti che non hanno paura di rischiare e all’abile opera di arrangiamento del musicista-teatrante Ivan Talarico, si crea uno straniante meccanismo di slittamento in cui il materiale di partenza scompare in un’esplosione furente: la “realtà” del palcoscenico perde ogni riferimento al modello a cui si rivolgeva, scivolando in una problematica ma programmatica autoreferenzialità.
Il gruppo dei quattro sbatte in faccia al pubblico una parata di luoghi comuni non tanto e non solo su Alberto Sordi e sulla società dello spettacolo che ha (e lo ha) forgiato, quanto – si direbbe – sul modo in cui l’operato di un artista popolare possa abitarci il cervello e al contempo anestetizzarne ogni resistenza al cattivo gusto.

Foto Piero Tauro

A fare le spese di questo circo brutale non è certo l’influenza culturale di un indubbio gigante della commedia, quanto il livello intellettuale di chi pensa che conoscere le di lui gesta e saperle citare a memoria lo salvi dal prendersi le giuste responsabilità per la decadenza del pensiero e del senso estetico di questo nostro paese, che di quell’influenza culturale a volte dimentica di soppesare l’effettiva rilevanza.
Un lungo silenzio – e non è la prima volta, vedi Ottantanove – apre programmaticamente lo spettacolo, come a chiedersi che cosa ci sia poi da dire ancora di questo personaggio o di chi lo evoca e, al contempo, a preparare un processo diretto al concetto di rappresentazione. Se cifre poetiche ricorrenti di questo gruppo artistico sono la profanazione del mito popolare e la rivolta carnascialesca in cui l’artista è chiamato a denudare diverse dinastie di “re”, sul piano compositivo abbiamo spesso riconosciuto un delicato e sempre sagace tentativo di elevare la sciatteria ad arma bianca della retorica: il connubio di certo scopre il fianco al rischio di apparire superbo, a quello di scambiare una provocazione per un’accusa o viceversa. Se pure è una verve dissacrante e talvolta sconclusionata a metterli sul palco, le scelte drammaturgiche e il centro del discorso risultano sempre chiari, in una tesi che si assume il rischio di vedersi sbriciolata da antitesi e sintesi.

In questo caso, quello che poteva essere visto come un omaggio non lo è fin dall’inizio – o è un omaggio così carico di amarezza da ribaltarsi nel suo contrario – e l’operazione si sposta su un ulteriore e periglioso passo avanti, potenzialmente detonante. Se pure questa stagione si dimostra vigorosa e aperta a un rischio culturale, debuttare alla Sala Umberto significa presentarsi a una platea che ha per anni assistito a nomi e titoli di quasi sicura risonanza, aperta qui ad accogliere il pubblico fidelizzato dal REf in quasi quarant’anni di lavoro sul territorio, fatto di grandi promesse di nomi d’artisti o urgenza di tematiche.

Foto Piero Tauro

A una prima affollata, ancora debitrice del ritmo e della fluidità che si acquisiscono con le repliche, abbiamo sentito serpeggiare in platea un generale spaesamento. Di certe scelte di gusto – come i degradanti siparietti televisivi in costume o gli estratti di varietà trascinati dal fiatone e dal rifiuto della tecnica verso un canto sguaiato – il pubblico riesce quasi sempre a trovare ragione, foss’anche quella che porta gli affezionati ad Albertone ad alzarsi indignati lasciando la platea o, più frequente, ricorda a quelli abituati allo sfottò del contemporaneo di accettare l’ennesima presa in giro. A entrambe le fazioni possono però risultare pesanti certe tirate sulla situazione del teatro di oggi, disegnato come quella campagna bellica che miete vittime (anche quando, come qui, lo spettacolo è sostenuto da istituzioni importanti): il pubblico “estraneo” non le coglie del tutto; gli altri si sentono un po’ dei convertiti a cui non si smette di rivolgere la predica. Ci si trova, insomma, di fronte a una macchina mandata (a diverse velocità, non sempre comprensibili) verso un muro di posizioni sulla decadenza intellettuale non tanto troppo nette o granitiche, quando in parte mancanti, ancora, di quello scarto poetico sottile ma insieme umile che servirebbe non a consolarci (nessuno lo vuole) ma a riconoscere il quadro profondo, a non confondere provocazione e insulto; a riconoscerci, noi spettatori, in grado di far di più che assistere a un patibolo. Anche se alla forca finiscono fieramente e innanzitutto gli interpreti stessi.

Foto Piero Tauro

La confessione con cui abbiamo cominciato potrebbe essere anche vista come una provocazione in risposta, la traccia lasciata da chi si è sentito tagliato fuori da quasi tutti i riferimenti, ma al contempo invitato a concentrarsi sulla capacità che un’operazione simile ha di incidere sull’immaginario nazionalpopolare e pure quello radical chic degli artisti squattrinati, dei “guitti educati” che se la devono cavare contro la mediocrità del pensiero magro, disinnescandoli entrambi.

Sergio Lo Gatto

TANTI SORDI. POLVERE DI ALBERTO
un progetto di Frosini / Timpano e Lorenzo Pavolini
testo Elvira Frosini, Daniele Timpano, Lorenzo Pavolini
regia Elvira Frosini e Daniele Timpano
con Marco Cavalcoli, Barbara Chichiarelli, Elvira Frosini, Daniele Timpano
musiche e progetto sonoro Ivan Talarico
disegno luci Omar Scala
scene e costumi Marta Montevecchi
realizzazione scenografie Officina Scenotecnica Gli Scarti
collaborazione alla regia Francesca Blancato
organizzazione e distribuzione Laura Belloni
progetto grafico Valentina Pastorino
foto Piero Tauro
produzione Scarti – Centro di produzione teatrale di innovazione, Viola Produzioni/Sala Umberto, Romaeuropa Festival
residenze Urbino Teatro Urbano e Fondazione Ca’ romanino, Catalyst e Teatro popolare d’arte

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Sergio Lo Gatto
Sergio Lo Gatto
Sergio Lo Gatto è giornalista, critico teatrale e ricercatore. È stato consulente alla direzione artistica per Emilia Romagna Teatro ERT Teatro Nazionale dal 2019 al 2022. Attualmente è ricercatore presso l'Università degli Studi Link di Roma. Insegna anche all'Alma Mater Studiorum Università di Bologna, alla Sapienza Università di Roma e al Master di Critica giornalistica dell'Accademia Nazionale d'Arte Drammatica "Silvio d'Amico" di Roma. Collabora alle attività culturali del Teatro di Roma Teatro Nazionale. Si occupa di arti performative su Teatro e Critica e collabora con La Falena. Ha fatto parte della redazione del mensile Quaderni del Teatro di Roma, ha scritto per Il Fatto Quotidiano e Pubblico Giornale, ha collaborato con Hystrio (IT), Critical Stages (Internazionale), Tanz (DE), collabora con il settimanale Left, con Plays International & Europe (UK) e Exeunt Magazine (UK). Ha collaborato nelle attività culturali e di formazione del Teatro di Roma, partecipato a diversi progetti europei di networking e mobilità sulla critica delle arti performative, è co-fondatore del progetto transnazionale di scrittura collettiva WritingShop. Ha partecipato al progetto triennale Conflict Zones promosso dall'Union des Théâtres de l'Europe, dove cura la rivista online Conflict Zones Reviews. Insieme a Debora Pietrobono, è curatore della collana LINEA per Luca Sossella Editore e ERT. Tra le pubblicazioni, ha firmato Abitare la battaglia. Critica teatrale e comunità virtuali (Bulzoni Editore, 2022); con Matteo Antonaci ha curato il volume Iperscene 3 (Editoria&Spettacolo, 2018), con Graziano Graziani La scena contemporanea a Roma (Provincia di Roma, 2013). [photo credit: Jennifer Ressel]

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