A Vicenza, tra spazi teatrali, teatri storici e Basilica Palladiana, con una macchina tecnica e organizzativa perfetta, è stata ospitata la selezione della New Italian Dance Platform 2024 promossa dal MiC e organizzata dalla Fondazione Teatro Comunale Città di Vicenza, con successo di partecipazione e, quest’anno, anche di pubblico.
È stata forse la NID migliore di sempre, certamente con il titolo più brutto di sempre: Get Back to Dance. Grazie al cielo la ottima commissione dell’annuale piattaforma della nuova danza italiana, ospitata a Vicenza, non solo sembra averne tenuto conto (dell’ingiunzione imposta, nel titolo imposto) pochissimo, ma anzi sembra aver fatto di tutto per rendere questo poco il più esplicito possibile. La programmazione si è aperta con lo straordinario lavoro di coreografia espansa di Jacopo Jenna, Danse Macabre!, mentre tra le attese proposte degli Open Studios (ottimamente selezionate, seguite e sostenute) molte erano di area post-dance (con un’unica retroincursione nel teatrodanza).
La presenza di gruppi e artisti borderline rispetto a una idea regressiva di cosa è (e può essere) danza, come per esempio i bellissimi Le Sacre di Dewey Dell e Sport di Salvo Lombardo, hanno perfettamente completato il quadro. Ma più in generale, proposte di ricerca e progetti più di codice (attinenti alle tecniche o ai vocabolari di movimento consueti) si sono alternati con felice necessità. Certo, la danza non è mancata, ma qui finalmente la complessità dei processi compositivi è stata messa al centro, insieme a una squadra di incredibili interpreti che dovrebbero trovare maggiori riconoscimenti nel panorama dei premi teatrali. Ne risulta che la danza italiana di oggi è un mondo complesso, richiede saperi aggiornati e inclusivi e visioni per il futuro non piegati alle inconsistenze del mercato. Ma anche necessita di un sistema di pensieri solidale, capace di tenere insieme le differenze, di comprendere la forza della pluralità, perché il pubblico è fatto soprattutto di comunità anche molto lontane fra loro. C’è allora bisogno del lavoro e del contributo e dell’amicizia di tutt*. Fa un poco sorridere invece l’inefficacia ministeriale, che non intercetta le più vere battaglie: e penso ad altre istituzioni sul territorio (come la Biennale Danza), che ormai da più di otto anni (ma diventeranno presto dieci, e son quasi un paio di nuove generazioni perse…) sono inadatte a mettere in campo programmi artistici capaci di promozione e sostegno del sistema dal quale (e per il quale) sono finanziate.
Ho provato a seguire solo ciò che non avevo ancóra visto: di certo Femina di Antonella Bertoni è una sapiente scrittura coreografica su quattro corpi femminili, anche implacabile nella richiesta continua di un assiduo coordinamento gestuale, ma per descrivere (senza mai puntare il dito) la potente complessità del femminile, e la forza luminosa di tutte le sue possibilità.
Mentre al Teatro Olimpico è andata in scena una delle più belle serate di questa NID, combinando insieme ciò che ai più poteva apparire incombinabile. Stuporosa di Francesco Marilungo, ed Elegia di Enrico Morelli. Ha funzionato: pur nelle misure imposte dallo spazio scenico, o nell’estetica segnata di questo spazio storico, entrambi i coreografi hanno saputo sincronizzarsi felicemente. Il lavoro di Marilungo è raffinatissimo, pieno di equilibri fragili, stilizzazioni piene di pathos, cadute a spirale dei corpi che tolgono il fiato, e a turno un pianto istantaneo e forzato (dunque spietato) al microfono, con un canto degli abissi di Vera Di Lecce, davvero suggestivo e memorabile. E ciò che più importa, lo stesso pubblico che ha applaudito con convinzione la prima performance, ha applaudito allo stesso modo la seconda, Elegia della compagnia di Michele Merola, come una pur occasionale comunità, capace però di comprensione e riconoscenza.
Tra gli Open Studios, ha funzionato Somewhere di Lucia Guarino e Ilenia Romano, un duo sulla pluralità del tempo e le distanze che da esso si creano, in uno spazio nel quale la relazione deve essere di volta in volta negoziata. Ma la sorpresa è stata Se domani di Elisa Sbaragli: un potentissimo duo con Alice Raffaelli (miglior interprete oggi in Italia) e Lorenzo De Simone (perfettamente a suo agio in questo non scontato partnering): corpi lenti, quasi sempre sur place, alla ricerca di un gigantismo gestuale che azzera ogni attesa di prestazione, in una lenta ancora ipotetica ricerca di incontro e di avvicinamento all’altro (in realtà, non si toccano mai né si guardano: ed è veramente emblematico delle paure e delle superstizioni della generazione di oggi; per questo occorre un domani capace di incontro, dunque di futuro…).
Molto ben congegnato e curato mi è anche sembrato amen di Emanuele Rosa e Maria Focaraccio, in una cornice metanarrativa costruita apposta per il tempo e l’occasione di questa piattaforma. Se l’avvio sembra far tesoro delle figure senza volto di El Conde de Torrefiel, azzerando così ogni connotazione di genere, nel proseguo il duo imbastisce una intelligente riflessione sulle ragioni stesse dello stare in scena. Anche Ezio Schiavulli, con Segnali di Risonanza, propone un interessantissimo (e complesso, e costoso) progetto coreografico su The Batterfly Effect, ma confermando soprattutto la sua incredibile qualità di performer e danzatore. Infine, A Human Song di Chiara Frigo ha proposto una compiuta azione collettiva (risultato di un progetto di comunità, che ha felicemente invaso il palco) con l’ausilio di un bellissimo video di Matteo Maffesanti.
Nella programmazione, con Sport di Salvo Lombardo è andata in scena una intelligentissima, pur lenta lenta performance che dissolve, nelle ripetute scene di agonismo proposte, ogni pretesa di competizione: i bravissimi interpreti, in un ambiente freddo e asettico, sono fra loro solidali anche quando se le suonano di santa ragione, pure fra spari improvvisi che piovono dal cielo. In tanta ossessiva orizzontalità, in tanta caparbietà del disinnesco e dell’atletismo fuori dal piedistallo, Lombardo sembra affermare che più conta il ripartire, il riprovare, l’esplorare di nuove le cose del mondo. E pazienza se non azzecca proprio il finale (che, in termini semiotici, potrebbe esigere un poco di verticalità). Se poco comprensibile, per me, è stata la presenza di Sasha Riva e Simone Repele con Sinking, un duo convenzionale e didattico, tutto ancora nelle forme coreografiche del Novecento; è stato invece un piacevole incontro quello con la performance di Elisabetta Lauro e Gennaro Andrea Lauro, Zugzwang: qui la ricerca sul movimento tutto incrinato, fatta di stasi e inerzia, di energia combinata, e di presenze anche alternate, in un ideale gioco nel quale si è obbligati a procedere, cui allude il titolo, sembrano ricomporre in una nuova logica le ragioni di ogni gesto. Il programma si è concluso con Samia di Adriano Bolognino: ben costruito nei movimenti, molto ben curato nelle presenze, nei numeri che si sono alternati, ma forse troppo coperti da una luce e allagati da una musica onnipresenti, spesso fuori controllo. Bolognino e il futuro sono in cerca di misura.
Stefano Tomassini