Si conclude oggi l’edizione 2024 di Umbria Factory, il festival multidisciplinare curato da Zut! e la Mama Umbria International tra Foligno e Spoleto. Un racconto dal nostro attraversamento folignate, tra i lavori di Claudio Morici, Spime.im, Tostacarusa, Michele Bandini e Maël, Unterwasser.
«Il tema di quest’anno è il rischio. Prendersi una responsabilità rispetto a questo rischio significa stare dentro al percorso dell’artista tanto per noi che lo proponiamo quanto per lo spettatore». Così racconta Emiliano Pergolari, uno dei curatori e direttori artistici di Umbria Factory, il festival multidisciplinare e multicentrico giunto quest’anno alla quarta edizione. Rischio è la parola d’ordine di chi decide di soffermarsi sui processi, sostenendoli in quanto luoghi di tentativo, azzardo, scoperta. E non riguarda soltanto la fragilità che un percorso artistico in gestazione naturalmente possiede quando si spinge verso territori inesplorati o frequenta confini inediti. Il rischio che si assume chi cura riguarda anche la comunità di riferimento di quel processo artistico: si tratta di educare lo spettatore a rischiare, accompagnarlo nella scoperta del nuovo come accade con gli artisti. Emiliano Pergolari insieme a Mariella Nanni, Elisabetta Pergolari e Michele Bandini, uniti nella direzione dello spazio Zut! come del festival (quest’ultimo curato anche insieme a Adriana Garbagnati de La Mama Umbria International di Spoleto), condensano nella rassegna le traiettorie segnate dai vari percorsi laboratoriali e di residenza che ospitano e promuovono tutto l’anno (come già raccontavano Simone Nebbia e Ilaria Rossini), alternando nel cartellone a proposte più audaci o embrionali altre provenienti da esperienze più consolidate. La sfida è far sì che lo spettatore si dichiari disposto a stare scomodo, a non sentirsi al sicuro, a spostarsi dalle proprie zone di comfort andando incontro anche al fallimento.
Un accidentale (o forse no?) filo rosso tematico-emotivo si stende tra le forme eterogenee del penultimo weekend di festival, quello attraversato da chi scrive. La Malattia dell’Ostrica, l’ultimo monologo di Claudio Morici, tiene insieme nel suo flusso brillante le biografie dei grandi scrittori e le paure di un padre, la voglia di dissacrare i miti ridondanti sui grandi geni della letteratura e l’istinto di sopravvivenza che porta a ripudiare ciò che sembra intrinsecamente connesso alla produzione di capolavori: un grande malessere. La malattia dell’ostrica è ciò le permette di produrre la perla, che prende poi la scena lasciando dietro di sé il dolore che l’ha generata. Il sentiero che scava Morici per dissacrare le grandi figure della letteratura mondiale e soprattutto scoraggiare suo figlio, fin dall’infanzia attratto dalla scrittura – un irrazionale e tenero istinto di protezione da parte di un padre a sua volta scrittore – fa il giro e risbuca dall’altro capo della questione: la letteratura può ammalare, ma può anche guarire. Non si può prevenire il dolore che è scritto nel destino di ognuno. Ma ci si può attrezzare per conoscerlo, farselo amico.
Grey line a/v show è il set audio video del collettivo Spime.im, una performance di altissimo impatto visivo e sonoro giocata sulla pervasività dei segni e sulla violenza dell’impianto comunicativo. Nel tragico tempo che viviamo, la linea grigia è quella che separa il lecito e l’illecito, la parte giusta e quella sbagliata della storia, il bene e il male. Spime.im rimescola tutto e lo restituisce in un ritmo altissimo che in verità è forse solo un 2x del nostro quotidiano. Il riverbero potente del suono elettronico abita lo spazio antico e solenne del suggestivo auditorium San Domenico, mentre scorrono frenetiche rappresentazioni del presente che da realistiche virano sempre più verso il distopico – terribilmente credibile e disturbante – delle immagini generate con l’AI. Si resta storditi, inermi, fino alla sequenza finale: un suono sordo accompagna un lungo, abbacinante bianco da cui impercettibile emerge uno dei pochi messaggi verbali, una condanna universale a tutte le forme di guerra.
Questo smarrimento, condizione di un’umanità che assiste alla propria estinzione, torna visibile negli occhi grandi di Aura Ghezzi, interprete di Con La Lingua Sulla Lama scritto e diretto da Tolja Djokovic. Si tratta del primo studio frutto di un lavoro del duo Tostacarusa sulla fiaba, sull’adolescenza e sul terrore che scorre in entrambe. La visione placida di una madre che culla un figlio è bruscamente rotta da un grido di terrore, cui segue una sequenza di gesti disperati e vorticanti che si mutano in caduta, tuffo, forse un ritorno al grembo materno. Quella che era una madre diventa una figlia e compone l’elenco delle terribili violenze contenute nelle fiabe. Il punto di vista che si sceglie di adottare è quello di chi, adolescente oggi, sembra nato con la consapevolezza della fine, privato di futuro, rassegnato e fermo nel suo smarrimento. Aura Ghezzi parla infatti con voce ferma, quasi monotono, guardando negli occhi uno ad uno gli spettatori raccolti in cerchio per poi infine cospargersi la testa di argilla e farsi sepolcro di sé stessa. Se le premesse di questo primo studio sono di grande interesse, la struttura interna può trovare nella sua evoluzione un’efficacia maggiore a sostegno della narrazione, perché la componente drammaturgica risulti maggiormente integrata all’azione scenica.
A metà tra l’installazione e la performance, Rifugio, lavoro nato dalla collaborazione tra Michele Bandini e l’architetto-artigiano francese Maël Veisse, invita ad esperire la dimensione dell’abitare, del condividere. Accompagnati nella suggestiva dimensione di un bosco ricreato al centro della navata sconsacrata della chiesa di Santa Caterina, gli spettatori vengono accolti nel silenzio di un rituale solenne, rotto solo dal fischiare di una teiera: il suono corrisponde a un invito non detto a prendere un the trovando il proprio spazio all’interno di una struttura lignea, una piccola casa rialzata e raccolta. Quello spazio intimo e condiviso viene abitato da parole pescate e restituite dagli spettatori, confusamente: un racconto scomposto si impasta delle voci più diverse, tratteggiando i contorni di un cammino solitario alla ricerca di un rifugio, un luogo sicuro, un posto dove tornare, dove chiamarsi per nome. Specularmente siamo condotti all’esterno, ma sempre raccolti, vicini, uniti in un giuramento, una promessa d’amore alle storie, al potere trasformativo della parola condivisa: se non abbiamo più un luogo da chiamare casa, se non abbiamo più maestri da ascoltare o preghiere da pronunciare, avremo sempre delle storie da condividere, amuleti protettivi che si attivano solo nell’incontro.
A corollario di questa esperienza, come in un flusso ininterrotto di suggestioni che risuonano tra un luogo e l’altro, assistiamo alla replica di Untold della compagnia Unterwasser. Il lavoro d’ombre di Valeria Bianchi, Aurora Buzzetti e Giulia De Canio si fonda sull’attivazione di un’attenzione profonda e immaginifica per raccontare ciò che non si dice, quel dolore che non si può pronunciare, che vive nel segreto di ognuno e che affratella tutti. Untold è il viaggio di tre solitudini che nell’incontro trovano la salvezza. L’apparato visivo potente di Unterwasser è pensato per produrre il contrario di un’illusione: come in una danza vediamo i tre corpi delle performer muoversi al servizio della visione e così sappiamo che quella magia non è un prodigio illusorio ma ha una sua formula, fatta di perizia, cura e dedizione.
Perizia, cura e dedizione sono gli stessi elementi che sostengono la pratica culturale di Umbria Factory: fare incontrare artisti e spettatori nella dimensione del rischio e metterli nella traiettoria fertile della scoperta e del mutuo nutrimento.
Sabrina Fasanella
Umbria Factory Festival 2024
Spoleto 26-29/09, Foligno 26/09 – 3-6/10 – 11-13/10