Questa recensione fa parte di Cordelia di ottobre 24
Gentili Baro d’evel, vi parlo a nome della città di Roma, in cui avete appena portato Qui som?, precisamente al Teatro Argentina per Romaeuropa Festival. Ecco, vedete, vorremmo chiedervi una cosa: non è che potreste ricominciare da capo? No perché l’energia trascinante, l’intelligenza e la sapienza tecnica che avete riversato sul palco, in mezzo alla platea, fuori dal teatro, sono qualcosa di così raro e soprattutto, sapete, finiti questi mesi festivalieri ci aspetta ben poco con cui misurare le nostre urgenze di grandiosità artistica. Tredici attori, ma anche danzatori, cantanti, musicisti, performer, insomma tredici a fare di uno spettacolo (in – almeno – quattro lingue) la materia viva per riempire ogni angolo del teatro (con qualche uscita dai margini, sulla strada di fronte). C’è un elemento che sopra ogni altro sembra prendere corpo nella creazione di Baro d’evel: gli avvenimenti, ossia il tempo e lo spazio in cui si manifesta la relazione tra cose e persone, sembrano come cambiare di stato e gli oggetti tramutarsi in corpi vivi, o l’inverso; ne è un esempio tra tanti la scena di una danza nel fango, in cui sembra che sia proprio il fango stesso a divenire danza, oppure un Leviatano peloso che danza a modo suo ondeggiando su sé stesso, che occupa tutto il fondale, diventa un mare che restituisce indietro i rifiuti di plastica (ah, se davvero potesse!), sembra insomma che l’informe e dinamico infinito possa fare il percorso inverso e farsi misura del finito, ossia che renda pensabile l’impensabile. E non è per questo che l’essere umano ha in dotazione l’arte? Per un atto di superbia, forse. Sostituirsi a un’entità creatrice. Ma nel passaggio di stato c’è un altro elemento ricorrente: la situazione nasce da una buffoneria, un meccanismo comico lascia via via crescere una imprevedibile e radicale profondità; in tal modo si riesce a parlare di guerra a partire da quella danza del fango in cui si scivola e si fa scivolare qualcuno, raggiungendo poi una compattezza tribale che ordina i moduli coreografici nel nitore arioso del canto. L’ultima frase del testo recita: “Non è il pieno, è il vuoto, è quel che resta dopo che è difficile”. Ecco, appunto, non potreste rifarlo da capo? (Simone Nebbia)
Visto al Teatro Argentina. Crediti: Autori: Camille Decourtye e Blaï Mateu Trias; Con Lucia Bocanegra, Noëmie Bouissou, Camille Decourtye, Miguel Fiol, Dimitri Jourde, Chen-Wei Lee, Blaï Mateu Trias o Claudio Stellato, Yolanda Sey, Julian Sicard, Marti Soler, Maria Carolina Vieira, Guillermo Weickert; Collaborazione alla regia: Maria Muñoz – Pep Ramis / Mal Pelo; Collaborazione alla drammaturgia: Barbara Métais-Chastanier; Scenografia e costumi: Lluc Castells; Disegno luci: Cube / María de la Cámara et Gabriel Pari; Collaborazione musicale e creazione del suono: Fanny Thollot; Collaborazione musicale e composizione: Pierre-François Dufour