Intervista. Insieme a Giandomenico Cupaiuolo, Danilo Giuva e Roberto Magnani, Licia Lanera porta in scena un allestimento basato sulla raccolta di racconti di Pier Vittorio Tondelli, Altri libertini, per Romaeuropa Festival. Una conversazione con la regista e attrice barese.
Licia Lanera la conosciamo da tempo. L’abbiamo vista nascere e crescere, prima con Fibre Parallele e poi con Compagnia Licia Lanera, dove ha consacrato il proprio nome innalzandolo a ente produttivo. Il gruppo è al lavoro a Ravenna. Ci diamo appuntamenti che poi, matematicamente, saltano, per impegni d’uno e dell’altra. Non c’è modo nella parola scritta di rendere conto dell’inflessione della voce ferma e compita nelle prime battute e di come si trasformi, nel corso di quasi tre quarti d’ora di telefonata in cui si produce un domino di emozioni, nel rantolo appassionato di chi davvero crede nel proprio lavoro. È una mattina di primo ottobre, su un terrazzo romano e in una sala prove romagnola. Ma ci incontriamo sulla stessa linea d’urgenza. E questa è la selezione di discorsi più ampi e infuriati, a uso di chi vorrà scoprire di più di questa artista ormai affermata e solida, alle prese con una delle figure che la nostra Storia ha ammesso alla memoria ma che, forse, troppo spesso rimuove.
Come sei arrivata all’intenzione di lavorare su Pier Vittorio Tondelli?
Per me Tondelli è come Giacomo Leopardi: una figura antica ma immensamente immersa nel contemporaneo. Avevo avuto un incontro, molto breve e fugace, con la sua scrittura quando ero più giovane. Poco prima del Covid ho iniziato a leggere la raccolta di saggi Un weekend postmoderno e sono rimasta catturata da quel modo di narrare la realtà, dalla descrizione dei paesaggi come da quello spaccato di mondo di anni Ottanta e primi Novanta, così pieno di tratteggi spassosi, di intuizioni. È stato divertente anche ritrovare recensioni di artiste e artisti che avrei poi conosciuto e con cui avrei avuto a che fare. E poi quella lingua così parlata, così piena di dialetti e di espressioni appuntite. Già in un capitolo di Guarda come nevica, I sentimenti del maiale, che racconta la figura di Majakovskij, avevo rubato un brano a Tondelli, quello in cui descrive l’uccisione del maiale.
La produzione saggistica ha poi lasciato il posto ai romanzi e, quando ho letto Altri libertini, sono rimasta folgorata, perché conteneva tutto il mio mondo. Ho percepito una strana unione, una corrispondenza a livello personale: quell’ironia che si catapulta nella tristezza più profonda, una sorta di montagne russe che davvero mi riguarda; quel rappresentare se stesso come il “peggiore”, quello sguardo libertino, appunto, verso l’esistenza. Va detto che io ho una predilezione per la narrazione portata a teatro: amo l’idea che continuamente sia svelato il meccanismo della rappresentazione, soprattutto oggi che a quella rappresentazione non riesco più a credere.
Perché non ci credi più? Eppure tutto, oggi, è rappresentazione.
Appunto! Penso che la rappresentazione, almeno in teatro, debba invece evolvere o essere svelata per creare un patto con uno spettatore non più passivo e incantato da cose facili, ma provocato verso l’azione. Allora, in una guerra alla rappresentazione, questo mi pare un lavoro importante.
Tondelli è un autore che è stato riscoperto da un rinnovato interesse, anche e soprattutto dopo la sua scomparsa, nel 1991, dalla intellighenzia di scrittori e scrittrici “di sinistra”. È stato valorizzato, certo, ma molto presto storicizzato e, a volte, anche banalizzato forzandolo in una forzata categorizzazione di tematiche e di pensiero. Mi fa venire in mente che la sorte è simile per altre figure controculturali e maudit, come Jean Genet o, più di recente, Bernard-Marie Koltès in Francia. Quella stessa mentalità progressista o, appunto, “libertina”, a posteriori tende ad anestetizzare la potenza di certe figure, a musealizzarla. Pensi che portarne in scena la parola fatta corpo possa liberare Tondelli da questo giogo?
Parto dal lavoro sulla drammaturgia, che ha scelto tre racconti (Viaggio, Altri libertini e Autobahn, NdR), ha effettuato alcuni tagli, incastrato in un unico racconto e a loro volta li ha intrecciati a scritture mie, in parte relative al contesto dell’Italia di allora, al rapporto con la Democrazia Cristiana o alla “purezza” del Sud barese, fino ad aspetti più privati, che riguardano l’infanzia degli interpreti, il rapporto con nostra madre, i nostri anni Ottanta e come ci hanno fatto diventare. Ultimamente mi sto occupando di autori italiani prestigiosi (come il Pasolini di Orgia o il Tarantino del dittico Love Me, NdR) perché mi interessa guardare a quel genius loci, per cui siamo diventati famosi in tutto il mondo (il grande cinema, la grande letteratura, etc.) e che ora sembra essersi perso, trasformandoci in un paese totalmente imbarbarito. Mi interessava guardare come rapidamente sia cambiato il nostro paese, individuare il ciglio del precipizio, quella dimensione politica sempre più vorace, la nascita delle TV private, il berlusconismo, il capitalismo sfrenato.
E di questo che cosa resta?
Dico tutto questo per rispondere alla tua domanda, dicendo che forse io sono la prima a incastrare Tondelli dentro quella “Storia”. Tuttavia poi autori come Tondelli (come e ancor più di Koltès) entrano in alcune vicende dinamiche, in ragionamenti più elaborati e puntuali che affondano nelle profondità dell’essere umano: succede allora che, quando scavi dentro, il contesto intorno si perda, torni all’essenza; quando qualcuno parla dell’animo umano parla anche di te, a te, in qualunque epoca ti trovi. E così accade con i personaggi che ho maneggiato io. Sfibrando il contesto, levando riferimenti all’Europa o all’Italia di allora, ecco che torna tutto attuale, rimane l’essere umano di fronte a una vertigine. Il 1980 è quando esplode il reflusso: il privato, le notizie rosa, la patinatura inizia a venire fuori e chi non si sente rappresentato da questa piccola borghesia con le comodità, seduta a casa di fronte a Heather Parisi, si rifugia nella marginalità e nell’eroina. Che cos’ha di così lontano da noi?
Poco, sono d’accordo.
Veramente poco. Da tutte le parti esistono persone non riescono a ritrovarsi in questo mondo perfetto. Allora torno a ciò che dicevo prima: il teatro è il luogo dove ci si può sentire peggiori senza stare male. Mi piace raccontare le storie dei peggiori così che io stessa possa dare il peggio di me: le storie dei peggiori ti fanno rispecchiare, trovi te stesso negli altri. È il contrario di quella patinatura dei social, dove tutti ricadiamo, inclusa me: quando mi fotografo, mi guardo e mi sento bella, se scorro Instagram ci sarà qualcuna più bella, attraente, interessante di me, che mi farà sentire peggiore e non potrò mai confessarlo. Lì, come in televisione o al cinema, sono tutti “migliori”: tutti ce l’hanno fatta. Ma non è vero, non è vero che tutti ce la fanno, non è vero che tutti ce la possono fare. Proprio la nostra generazione è stata ingozzata di merendine e di sogni, ci hanno fatto immaginare di tutto. E oggi forse è ancora peggio: tutti credono di poter essere influencer e avere tutto.
Noi siamo esattamente coetanei, quindi abbiamo vissuto entrambi l’eredità sfibrata che ci è stata consegnata. E questa esplosione di fittizia popolarità e successo per tutti. Ci è precipitato chi è nato nei primi anni Ottanta, come noi, ma in modo diverso gli adolescenti di oggi. Forse la generazione di mezzo è riuscita a trovare una propria personale salvezza. E sentirsi, anche se non per forza il “peggiore”, almeno non necessariamente il “migliore” della schiera è importante. Ma trovo soprattutto interessante mescolare il tuo pensiero personale con quello dell’autore che qui ti fornisce il materiale. Puoi raccontarmi qualcosa di più del processo di produzione e di creazione?
Comincio col dire che siamo riusciti a costruire una produzione per ben 60 giorni di prove, cominciata già un anno fa, andando oltre i tempi canonici. Degli eccessi che gli spettatori si aspettano resterà poco, il testo e lo spettacolo sono molto misurati e asciutti, questo perché in generale sto andando in una direzione di regia che punta alla fondamentale essenzialità: mi interessano semplicità e pulizia chirurgica; credo che la mia maturità registica possa stare nel raggiungere l’osso della parola. Allora nello spettacolo la parola è sovrana, ma poi ci sono i corpi degli attori. È poi successo qualcosa in cui speravo, di certo permesso da un tempo di produzione così lungo: a un certo punto noi stessi (oltre alla regista, che interpreta se stessa, in scena ci sono Giandomenico Cupaiuolo, Danilo Giuva e Roberto Magnani, NdR) non sappiamo più se siamo noi o Tondelli a parlare. Siamo totalmente calati in questo lavoro, la rappresentazione è completamente saltata, non solo nella forma, quando siamo dentro siamo “quella roba lì”. Alcune battute assegnate a me riguardano la mia biografia o quella degli attori, ma certe espressioni provengono invece da appunti privati dall’archivio di Tondelli, e si sono mescolate a quel che ho scritto. Sono io la prima a non riconoscere il mio dal suo. Il corpo degli attori si trasforma in quello dell’autore, è un processo di inabissamento che avviene abitando la parola dall’interno. “Siamo solo noi”, come canta Vasco.
Spettatrici e spettatori di oggi che cosa potrebbero trovare? Mi interessa anche e soprattutto lo sguardo più giovane, che per il nostro teatro è più difficile interrogare.
Credo che la nostra generazione, oltre alle precedenti, ritroverà qualcosa che la riguarda. L’effetto sui giovanissimi me lo chiedo anche io e sono molto curiosa. Se sapevo che di fronte a Con la carabina un adolescente sarebbe rimasto turbato, mi chiedo che cosa un ventenne possa vedere qui. Mi interessa capirlo soprattutto in un mondo come quello di oggi, in cui il corpo è saltato in aria: in un racconto così fisico e viscerale, che ha come protagonisti dei ventenni, che cosa vedranno? Qualcosa di disperante a cui vorrebbero arrivare o un grande punto interrogativo di fronte a qualcosa che non appartiene a loro? Di certo la nostra generazione può ritrovarsi e, forse, tremare. Aggiungo che per questo lavoro sono stati fondamentali i testi di Paolo Morando, Dancing Days ‘78 – ‘79 e ‘80, dove si guarda all’Italia di allora, dalla Lega ai “paninari” fino a Sposerò Simon Lebon e tutto questo benessere. Questa promessa resa ai quarantenni li ha fatti rimanere a cavallo tra vecchio e nuovo mondo; siamo incastrati, schiacciati tra il lavoro precario e una ricerca, galleggiante, di terre e di isolotti. Siamo un esercito di naufraghi.
Licia, dobbiamo salutarci e già so che molto di quel che ci siamo detti in questi 40 minuti non riuscirà a essere pubblicato nella conversazione. Ma un’ultima domanda non riesco a non fartela. Di produzione abbiamo già parlato, ma voglio chiederti una battuta anche breve sulla questione del “capocomicato”. Era la tua parola chiave, proiettata a schermo all’Arena del Sole di Bologna, alla premiazione del Premio Ubu 2023, e proprio su queste pagine (in interviste ad Antonio Latella e Andrea De Rosa) e su quelle che le hanno commentate se ne è parlato. Di certo poche figure ancora portano avanti questa pratica che tende ad accentrare l’attenzione su un nome e che va a scapito delle individualità di attrici e attori. Insomma, qual è il tuo pensiero?
Come ho detto, con Altri libertini mi sono presa il lusso in uno spettacolo di mia produzione: è sostenuta dal Teatro delle Albe, ma ho voluto io esigere tempi infiniti, anche facendo altre attività oltre alle prove. Allora. Io non mi chiamo Eduardo Scarpetta, non porto avanti una tradizione famigliare, ma forse porto avanti una tradizione italiana, innanzitutto. Oggi ci si dimentica di riconoscere la storia, l’archeologia e il contesto culturale: l’Italia è un paese di capocomici: i contratti ti chiedono il “nome in ditta”, perché l’attore (o l’attrice) è il nome principale. La nostra è una tradizione di attori e di famiglie che hanno creato compagnie e che con il loro “carro” hanno girato questo e altri paesi. Oggi che cosa vuol dire portare avanti questa tradizione? Avere un’autonomia produttiva. Io non vado a cercare un nome, piuttosto mi autoeleggo a “nome”, ma mi sento il punto centrale di una raggiera che si espande da me, direi che sono al centro di una ruota. In come lavoro non ci sono individualità, si tratta di portare avanti una dimensione da “carrozzone” in cui stiamo insieme, e ci divertiamo come pazzi. Non è un teatro piramidale, ma orizzontale, anche se non è un collettivo in cui ciascuno dice la propria, ma una struttura in cui io decido il da farsi, senza però frustrare nessuno. Non vuol dire avere delirio di onnipotenza; essere al centro di una ruota che gira significa anche assumersene le responsabilità, per poter continuare a dire ciò che ho detto tempo fa: “Io sono nata per questo”.
Sergio Lo Gatto
Roma, Teatro Vascello, 15-16 ottobre 2024, Prima assoluta.
Date in calendario tournée
15 – 16 OTTOBRE 2024 | Romaeuropa Festival 2024 |
Teatro Vascello, Roma
18 OTTOBRE 2024 | Cocoricò, Riccione
dal 29 OTTOBRE AL 3 NOVEMBRE 2024 | Piccolo Teatro Studio Melato, Milano
23 – 24 NOVEMBRE 2024 | Altri Mondi 2024/2025 | Teatro Piccinni, Bari
9 DICEMBRE 2024 | Duende Festival | Brescia
13 DICEMBRE 2024 | Teatro Asioli, Correggio
14 – 15 DICEMBRE 2024 | Teatro Arena del Sole, Bologna
DAL 9 ALL’11 GENNAIO 2025 | Teatro Rasi, Ravenna