Al Teatro Elfo Puccini si è svolta la 38° edizione di MILANoLTRE, festival di danza che quest’anno ha portato a Milano, per la prima volta, un focus con tre prime nazionali della CocoonDance Company. La compagnia svizzero/tedesca è guidata dalle creazioni coreografiche dell’ex danzatrice Rafaële Giovanola in cui è centrale la sperimentazione dei linguaggi legati al corpo, anche estranei alla danza.
L’ambiente che avvolge la sala Shakespeare durante la presentazione in prima nazionale di Hybridity, primo dei tre lavori portati a MILANoLTRE dalla CocoonDance Company, è un’atmosfera nebbiosa e rarefatta che sfuma l’oscurità di fondo. Se questa risulta spumosa, il palco invece si presenta geometrico nelle forme, scandito da un quadrato bianco che riflette da terra una luce particolare di polvere fumante. Alcuni performer sono posizionati in controluce a lato, formando un piccolo nucleo di corpi indistinti. Non capiamo con immediatezza se siano 5 o 6, in prospettiva alcuni si sovrappongono alla vista e ne percepiamo solo schiena e gambe irrequiete, che calpestano il suolo con il tremore di un tic.
È da questo tic che sembra originarsi il movimento coreografico, ripetuto come un’eco ossessiva dai reflussi dei beat elettronici che fanno da contrappunto musicale: un tic che incalza dal tallone – quasi sempre sospeso come se ci fosse un filo a tenderlo verso l’alto – scorre e scivola frammentato verso i polpacci, circuisce le articolazioni e si dirama nel resto del corpo producendo degli spasmi improvvisi e quasi scomposti di busto, braccia, capo e collo, anche se bloccati e controllati nell’esito del moto. Il movimento, così organizzato, si sgretola e ricompone per moduli che i performer, come particelle indipendenti, reiterano con piccole variazioni all’infinito, modificando le proprie traiettorie attraverso un ritmo misto di pause e riprese elaborate a partire dai blocchi “difensivi” dell’arte marziale del Thai Boxing. Anche i vestiti – pantaloncini corti e canotta larga – ricordano la pratica thailandese, che viene utilizzata dalla nota coreografa Rafaële Giovanola come un ricettacolo di gesti e segni da cui poter attingere per ampliare gli orizzonti del proprio linguaggio performativo, fondendolo a quello della danza classica. Questa contaminazione orizzontale, che integra al movimento definito del balletto il meccanismo istintivo di attacco e sottrazione del combattente, è il cuore pulsante di Hybridity: ogni “azione verso” sembra trasformarsi inevitabilmente in una “fuga da”, risolvendosi in quello che potremmo definire quasi un ipnotico tentativo collettivo di schivare dei pericoli fantasma.
Al pericolo e alla schizofrenia esercitativa di Hybridity segue, invece, la calma e l’ossessione ripetitiva di Standard. Già dal titolo si comprende come in questo lavoro la coreografa non si concentri tanto sull’ibridazione dei linguaggi esterni alla pratica performativa, quanto più sulla “regola”, su una formula di danza ereditata e rielaborata a partire da un modello di riferimento (in questo caso i balli di sala) che viene standardizzato attraverso un’inversione. Ecco che i performer, questa volta su una piattaforma di un nero lucidissimo che ne moltiplicherà esponenzialmente i riflessi, si muoveranno fluidi e morbidi, disegnando schemi e motivi coreografici con una sincronia dalla precisione spiazzante, ma a testa all’ingiù. Come formiche che si rincorrono, ripeteranno senza sosta uno schema facendo oscillare da quadrupedi il busto e mantenendo sempre salde gambe e braccia a terra. Non c’è altro oltre allo schema, non c’è altro oltre alla ripetizione speculare. Un mondo capovolto è il terreno di gioco, un mondo che i performer abitano con vestiti “omologanti” che ne confondono il sesso, forse l’unico mondo possibile dove riuscire finalmente a mettere in discussione i concetti di genere, etnia e identità. Un mondo, per questo, di creazione e dissolvenza, che parte dalla composizione coreografica per decostruire i principi stessi della forma (per esempio negli effetti frammentati della superficie riflettente).
È quest’astrazione, prodotta con metodo e sperimentazione collettiva, la cifra portante degli acuti lavori dell’ensemble guidato da Rafaële Giovanola, fondatrice assieme al drammaturgo Rainald Endraß della compagnia nel 2000. E il risultato, qui, non è tanto da ricercare nello spettacolo-oggetto, un lavoro finito e pre-confezionato da poter assaporare e ammirare con una certa distanza, bensì è da considerarsi nella sua possibilità creativa di farsi e ricostruirsi incessantemente, di presentarsi come un’opera senza drammaturgia apparente, un work in progress denso, ripetitivo a tal punto da divenire ipnotico e ossessivo, matrice al tempo stesso di un linguaggio altro, mutevole e sempre vivo. E come dimostra anche l’ultimo lavoro presentato al festival, Chora, che ha previsto la copresenza e copartecipazione sul palco di artisti e spettatori, il lavoro di CocoonDance vuole essere “un’opera aperta”, un esercizio sì virtuoso, ma che conserva tutti i tratti della forma laboratoriale. Qui lo spettatore, non più agente passivo ed esterno, viene chiamato ad essere un elemento di percezione interno che modifica lo stare sul palco di ogni performer e incide sulle dinamiche di coordinamento e relazione. Si tratta di uno scambio nuovo, live, a cui è impossibile sottrarsi. Uno scambio che richiede di darsi. Uno scambio con corpi altri non pensati (precisamente chiamati unthought bodies) che continuamente sfuggono. Fuggono da sé, fuggono da noi, fuggono dalla categoria fissa della definizione, ma si aprono inevitabilmente alla possibilità di contaminazione e metamorfosi.
Andrea Gardenghi
Visti al Teatro Elfo Puccini di Milano, all’interno del palinsesto di MILANoLTRE
Hybridity – Standard – Chora