Elvira Frosini e Daniele Timpano debuttano con Tanti Sordi alla Sala Umberto di Roma per Romaeuropa Festival, progetto dedicato alla figura di Alberto Sordi scritto con Lorenzo Pavolini e in scena insieme a Barbara Chichiarelli e Marco Cavalcoli. Intervista
Un bar tranquillo, pulito e illuminato bene direbbe Hemingway, uno di quei bar storici di un quartiere popolare, certo un posto perfetto per fare un’intervista. E invece no: incontrare Elvira Frosini e Daniele Timpano equivale a evocare probabilmente dei demoni che si manifestano con rumori di aerei, autoambulanze, sirene di un poliziesco anni Settanta, bicchieri in frantumi indistinguibili dal ghiaccio dello spritz, vecchi che urlano e mandano a quel paese l’operatore telefonico, padroni di cani che abbaiano (tutti e due, i cani e i padroni). E questa intervista, o meglio, ciò che ne resta nella registrazione.
Cosa vi ha attratto di Alberto Sordi?
Frosini: Sordi è un essere mitologico, di lui ci ha incuriosito molto l’iconicità, romana ma anche nazionale, quella figura dell’italiano che ha attraversato 60 anni di carriera e molta storia d’Italia, interpretando ruoli sempre diversi pur tuttavia restando sé stesso. È entrato nel bagaglio di tutti, anche i più giovani, incarnando più i difetti che i pregi degli italiani. E Tanti Sordi infatti, il titolo, svela questo nostro rapporto contraddittorio, il riconoscersi nel bene o nel male, con piacere o disgusto, in questa figura.
Timpano: E poi c’è anche il fatto banale che a Roma trovi la sua faccia in ogni pizzeria, sempre con il piatto di spaghetti, perché nel dopoguerra c’è questa invenzione dell’immaginario italiano attraverso il cinema, e questo accade con tutto, dal fascismo fino alla Roma papalina e risorgimentale che per esempio abbiamo visto nei film di Luigi Magni: le cose che ci hanno raccontato avevano la faccia di quelle persone e Sordi, anche quantitativamente avendo avuto una carriera lunga di 160 film dagli anni Trenta in poi, lo rappresenta più di tutti.
Sordi forse rappresenta un po’ quella figura del padre di cui impariamo crescendo a riconoscere i difetti, le malizie, con la grande sorpresa dei figli che fino a quel momento l’hanno considerato al pari di una statua classica, immutabile, divino. È possibile dunque ridurlo a un discorso sulla società italiana?
T: Non è il padre padrone, ma il padre simpatico e fastidioso, a cui in fondo perdoni tutto. C’è da considerare anche che noi tutti abbiamo una visione “morettiana” del problema Sordi (Nanni Moretti, in Ecce bombo, grida agli avventori di un bar: “Ve lo meritate Alberto Sordi” ndr) e siamo abituati, ereditando un pregiudizio della critica militante di decenni fa, a considerare la commedia italiana al di sotto di un livello intellettuale, quindi vedendo nella faccia di Sordi una figura che incarna valori regressivi; siamo pertanto figli di quella interpretazione allo stesso modo di come siamo i figli di Sordi e Anna Longhi nell’episodio Le vacanze intelligenti (da Dove vai in vacanza? AA.VV. del 1978 ndr), quelli che hanno studiato, si intendono di cultura e mandano i genitori a guardare una mostra d’arte contemporanea, quindi questo fantoccio sedicente popolare un po’ ci sembra falso e lo disprezziamo, un po’ ne riconosciamo il valore di rendere vitale anche un film mediocre attraverso l’ambiguità e ci affascina perché popolari siamo anche noi, come appunto i figli che alla fine del film si trovano a mangiare i maccheroni con i genitori.
Sono appunto Tanti, i Sordi. Ce n’è uno o alcuni a cui vi siete particolarmente legati o ispirati?
F: Tra tanti film – molti ne citiamo in brevi frammenti – ce ne sono due che più di tutti fanno da filo conduttore: Polvere di stelle, che ci riporta a un discorso sul teatro perché racconta di una compagnia scalcagnata che durante la guerra cerca di fare successo e quindi i soldi (e dunque, in romano: tanti sordi), quindi si lega al tema del popolare attraverso il varietà di allora, ma di cui noi abbiamo visto anche le estreme conseguenze della TV di Berlusconi e in genere della civiltà commerciale; l’altro invece è appunto Le vacanze intelligenti (episodio diretto dallo stesso Sordi ndr) che ci permette di fare invece un discorso sull’arte, o meglio su questa frattura mai sanata tra l’arte bassa, popolare, e l’arte colta che ancora oggi è così forte.
T: Sono i due poli opposti di riferimento per lo spettacolo, che poi anche simbolicamente rappresentano il rapporto dialettico che c’è tra i nostri coproduttori: il luogo che ospita il debutto, la Sala Umberto in cui lo stesso Sordi ha recitato e che eredita il testimone di quel teatro popolare, e il Romaeuropa Festival che ha tutta l’ambizione di essere una vetrina internazionale rivolta alle classi colte. Questa apparente distanza, che sul piano dei contenuti si è forse ridotta, è rimasta tale dal punto di vista del mercato, perché noi stessi ci troviamo a fare spettacoli in luoghi diversi tra loro, con un diverso pubblico, saldando insieme ciò che è pensato per l’elite e ciò che è considerato mainstream. Del resto lo spunto iniziale di questa idea risale a trent’anni fa, quando ho visto Totò principe di Danimarca di Leo de Berardinis, che si basava proprio sull’incontro di popolare e colto, di avanguardia e classico, mettendo in scena una compagnia teatrale disgraziata che per fare i soldi tenta di fare un classico come Amleto. Un po’ come stiamo cercando di fare noi (ride ndr).
Per questa avventura avete un compagno di viaggio che fin dall’inizio firma insieme a voi il testo e l’ideazione: lo scrittore Lorenzo Pavolini. Com’è stato lavorare con un componente esterno alla compagnia?
T: Tutto nasce da una suggestione che Lorenzo Pavolini, già conoscitore dei nostri lavori, aveva avuto dal nostro precedente Zombietudine, considerando la tenera disperazione che coglieva i personaggi chiusi in un teatrino, barricati all’interno, che un po’ gli ricordava i teatranti sfigati dei film di Sordi che facevano varietà in provincia. Dal confronto con Pavolini è venuta presto anche l’idea di legare questa suggestione invece al panorama colto che si intravedeva dentro Le vacanze intelligenti, così da generare quel contrasto che ci sembrava ancora urgente.
F: Abbiamo parlato letto e guardato tanto, isolando dei nuclei di riferimento, confrontandoci sui tanti temi e scegliendo poi quelli che avremmo svolto. Un anno fa è iniziata la scrittura ed è stato sorprendente perché noi due siamo abituati a scrivere insieme, ma anche con Pavolini lo schema è stato simile, prima scrivendo e poi affrontando la costruzione di strutture drammaturgiche più solide, inviandoci testi su cui poi gli altri avrebbero riscritto, tagliando e aggiustando secondo un’intesa naturale. Poi col tempo abbiamo deciso insieme di allargarci, anche produttivamente, fino a diventare in quattro sulla scena (con Barbara Chichiarelli e Marco Cavalcoli ndr), cantare, ballare, creare costumi e luci con maggiore ambizione.
A questo proposito incuriosisce che al progetto sonoro abbia lavorato Ivan Talarico, un cantautore e attore così atipico e originale…
F: Insieme a Ivan Talarico abbiamo scelto delle musiche prese dall’epoca del varietà che lui ha rielaborato, creando delle nuove canzoni arrangiate su un’identità simile; oltre a questo ha creato proprio il suono dello spettacolo, atmosfere completamente diverse dalla canzone. E poi ci ha aiutato a cercare il modo di eseguire i brani seguendo delle nostre caratteristiche personali, perché al fondo di tutto per noi deve essere chiaro che a interpretare lo spettacolo siamo noi come individui.
T: Anche il lavoro di Talarico rispecchia la dicotomia di quei due film polo, perché da un lato c’è lo sbaraccamento del varietà, con tutte le ambiguità nostalgiche, retrò, dall’altro può sembrare vicino allo squallore del cabaret televisivo, tenendo insieme simpatia e fastidio. E poi c’è la parte della musica colta, quindi atmosfere più fredde, astratte, più adatte al contesto della mostra d’arte che appare in Le vacanze intelligenti.
Si diceva prima, avete attraversato e attraversate molti spazi di diversa natura, quindi intercettando diversi tipi di pubblico. Com’è cambiata la vostra relazione con lo spettatore nel tempo?
F: Paradossalmente, pur cambiando molto, non è cambiato poi nella cosa fondamentale: che si tratti di un teatro grande o una piccola saletta, fin dalla scrittura noi immaginiamo sempre che ci sia qualcuno di fronte a noi. Ottantanove per esempio inizia proprio dal rapporto con il pubblico che viene chiamato subito a partecipare, e pur facendolo in piazze diverse, palchi diversi, sento che questa cosa resta identica.
T: Quello che non è cambiato con il tempo è soprattutto mantenere chiaro un rapporto se non di prossimità di compresenza, quindi nulla di quello che scriviamo per il palco deve restare lì sopra ma sempre finire di fronte, sugli sguardi, pensando all’evocazione di un’assenza – o forse di una possibile presenza – a un’intenzione che sottintenda un po’ lo smarrimento di qualcuno davanti a noi. E anche l’evoluzione dello spazio scenico, la decisione di cosa mettere in primo piano o no, di come far apparire un oggetto, non può prescindere da questo pensiero.
Simone Nebbia
Roma, Teatro Sala Umberto 3-6 ottobre 2024
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In corealizzazione con Teatro Sala Umberto