Recensione. Al debutto italiano House di Amos Gitai, visto al Teatro Argentina di Roma durante la 39° edizione di Romaeuropa Festival.
Alte, ai lati della scena, due impalcature con su altrettanti musicisti, svettano su un tagliapietre e un operaio che allinea i blocchi; sul fondo, la videoproiezione di una donna (Jeanne Moreau) che dal palcoscenico di un altro teatro legge una lettera in cui ripercorre a memoria lo spazio vissuto, tra Israele e l’Europa. Ognuno suona con la propria voce: umana, musicale, del lavoro. Dopo la donna, ma dal vivo in scena, a prender parola ciascuno nella propria lingua – arabo, ebraico, francese, inglese, yiddish – saranno gli operai stessi, palestinesi a lavoro su una casa di Gerusalemme, o gli abitanti del quartiere, e ancora quelli del fabbricato stesso, che, nei vari passaggi di proprietà susseguitisi negli anni, fu dimora di un dottore palestinese fino al 1948, poi di ebrei, di diversa origine, cultura, generazione. Dai monologhi di tutti, che solo a tratti diventano dialoghi, emerge come per ognuno vivere sia, nella sua più profonda essenza, vivere uno spazio. Perché, con puntuale scrupolo toponomastico, le loro memorie e i loro progetti si rivelano associativi, intrecciati cioè a quelle dei luoghi; le loro identità costruite in relazione ai posti vissuti o nei quali ci si propone di vivere e abitare. Ma come?
Urgente la domanda, perché riferita alla situazione israelo-palestinese, non semplice la risposta. Al pari del disegno, stratificato e composito (come le memorie, i progetti, o la costruzione sempre in fieri dell’edificio, la scenografia costantemente ridisegnata dagli spostamenti a vista compiuti da tecnici che sono a propria volta corpi attoriali in scena) di House. Spettacolo che Amos Gitai, con La Colline Théâtre National di Parigi, porta al Teatro Argentina nell’ambito del Ref. Riprendendo la storia della casa passata di proprietario in proprietario (e che dunque di più vite è stata teatro), già raccontata da Gitai in una trilogia di film composta a distanza di anni (1980, 1998, 2006), House affronta la complessità di quell’interrogativo, debuttando a Roma un anno e un giorno dopo l’eccidio di Hamas del 7 ottobre, e mentre a Gaza e in Libano l’offensiva israeliana continua come annientamento sistematico, crisi umanitaria, violazione del diritto internazionale.
All’interrogativo “Come (e dove) vivere?”, del quale il presente rivela la drammatica urgenza, House guarda però da una posizione cronologicamente dislocata, non misurandosi, cioè, “di petto” con la catastrofe attuale, ma “arrestando” il racconto a qualche anno fa. Pure, è impossibile non leggervi il desiderio di parlare anche della contemporaneità, coerentemente col percorso di Gitai che, spesso, ha rivisitato il passato proprio perché vi si scorgessero anche le radici storiche del presente, per meglio metterne a fuoco complessità e contraddizioni, stratificazioni. Il che implica anche guardare alla contemporaneità non riducendola alle polarizzazioni in uso nella sfera dell’informazione o negli schieramenti semplicistici da social, strumenti comodi per retorica e azione sanguinarie dei governanti, considerando (ad esempio, e fra l’altro) che il premier israeliano, all’Onu, divide schematicamente i paesi islamici in “buoni e “cattivi”.
La complessità è invece ciò che anima a più livelli il gesto di Gitai. Traspare anzitutto dalle parole degli interpreti, dalla multiforme pluralità di sentimenti, progetti, ricordi. C’è il tagliapietre palestinese che lavora per coloro che dice di “odiare” e insieme sa bene che non può odiare un popolo; c’è la giovane ebrea israeliana che ha paura di attraversare un quartiere a maggioranza araba, e insieme si chiede se per questo sia da parte sua legittimo sentirsi in pericolo; c’è il nuovo abitante della casa che fu di arabi, orgoglioso borghese ebreo belga figlio di sopravvissuti alla Shoah, e dai cui discorsi promana senso di rivalsa dalle tinte sioniste e insieme fierezza della sua cultura francofona. Di tutta la diversità di figure, ragioni, visioni, memorie, che si susseguono abitando tra impalcature, blocchi di pietra, musica, di tutto questo lo spettacolo è – per dirla con il titolo di un altro film di Gitai – inventario (Devarim, ambientato però a Tel Aviv, tra i discendenti dei pionieri dello stato israeliano, senza orizzonti, smarriti). Perché House sembra inventariare, appunto, e invita a considerare una varietà di voci e figure diverse (palestinesi, ebrei, diversi per provenienza, età, storie), facendole esprimere secondo un andamento a-gerarchico, né polarizzato nel senso di uno “scontro” (tale da dover far prevalere qualcuno su un altro). Insomma, orizzontale. Il che può ricordare la forma filmica dei cameracar laterali o pianisequenza che Gitai ha tanto frequentato nel suo cinema: in Field Diary (1982) che “percorreva” la Striscia di Gaza fino al Libano meridionale, dove l’esercito israeliano inizierà l’invasione, e mostrando il caos militare e la tragedia umana dei profughi, o in Ana Arabia (2013), in cui una giovane giornalista scopre storie di coesistenza, tra arabi ed ebrei, in uno stesso quartiere di Tel Aviv. Quella del pianosequenza, del carrello, è una figura del linguaggio cinematografico che nel lavoro di Gitai si fa anche rifiuto del montaggio in uso nelle semplificate e schematiche restituzioni mediatiche dello scenario israelo-palestinese, a favore invece della continuità, complessità, ambiguità del reale.
Orizzontalità, ancora, è forse la forma di un’esistenza paritaria, democratica, e dunque: coesistenza, che contempli il diritto a vivere e ad abitare (e ad aver voce, posto l’avvicendarsi dei parlanti in scena) degli “uni” e degli “altri” uno spazio che è il medesimo, sebbene ciascuno possa vedervi cose diverse. Perché la stessa casa che nella memoria di alcuni è ancora quella della famiglia araba Dejani, per altre e più o meno recenti generazioni di emigrati ebrei, resta invece la propria. Oppure perché “Ogni generazione ha i suoi interpreti”, come recita, tradotto, il nome della strada in cui sorge l’abitazione, e dunque si danno più interpretazioni, più maestri, più voci da seguire.
Tale possibilità di restituire coloro che guardano a una stessa cosa in modi diversi e vivono di conseguenza (qualità del cinema di Gitai che il critico Serge Daney apprezzava recensendo proprio il film House, 1980), nello spettacolo è non solo esercitata dal susseguirsi di voci, ma anche dalla particolare relazione che si crea tra le proiezioni sul fondo della scena l’azione su palco. Perché le immagini mostrano a volte brani da altre opere del regista, come dalla Trilogia della casa, appunto, tali da invitarci a considerare la pluralità di tempi e storie e memorie che insistono in uno stesso luogo, il profondo risuonare del passato per tentare di comprendere il presente senza cedere a una visione invece piatta, schematica dello stesso, all’insegna di una mera contrapposizione di interi popoli necessariamente e in ogni caso violenta.
Oppure, lo schermo proietta un’azione che si svolge nel qui e ora del palco, ma osservata da un punto di vista diverso, dall’alto o più ravvicinato, e comunque altro da quello che può averne chi sieda in platea o nei palchi. Si tratta di sguardi differenti, ma simultanei e compossibili. Perché gli interrogativi su “come vivere, come abitare” in Medio Oriente, con i quali House si misura, non possono esaurirsi in risposte rese da un’unica e semplificante prospettiva.
Tentare di accostare la realtà non da una sola parte, ma le realtà concrete di ogni parte e della loro esistenza, considerare le tante voci che abitano House, è forse un possibile modo per costruire qualcosa che non sia contrasto, barbarie, supremazia, ma finalmente il luogo in cui sia possibile vivere, coesistere. Non a caso, Gitai, architetto di formazione, ha usato di recente a questo proposito le metafore dei “ponti” (ossia l’elemento che, da una tensione, riesce a unire, sovrasta l’ostacolo), dei “cantieri aperti”. E proprio la proiezione di un cantiere – non diverso da quello che abbiamo visto rimodularsi dal vivo sulla scena – quello di House-film, poco dopo che uno dei personaggi ha ricordato che lo stato israeliano requisì per legge le abitazioni dei “proprietari assenti” e in realtà costretti alla fuga dopo l’occupazione e i massacri di Deir Yassin nel ’48, s’imprime sulla rappresentazione prima del buio sul palco. È fuori di quello che l’opera di costruzione, necessariamente, dovrà continuare, ma in modo diverso: considerando di tutti le voci con necessaria complessità, ricomponendo i monologhi sentiti in scena. Facendone, nella vita, dialoghi.
Antonio Capocasale
Roma, ottobre 2024, Teatro Argentina, Romaeuropa Festival
HOUSE
Scritto e diretto da: Amos Gitai
con: Bahira Ablassi, Ghassan Ashkar, Dima Bawab, Benna Flinn, Irène Jacob, Alexey Kochetkov, Micha Lescot, Nathan Mercieca, Pini Mittelman, Kioomars Musayyebi, Menashe Noy, Danni O’Neill, Minas Qarawany
assistente di scena: Talia de Vries
adattamento testo: Marie-José Sanselme , Rivka Gitai
scenografia: Amos Gitai assistente Philippine Ordinaire
costumi: Marie La Rocca assistente Isabelle Flosi
illuminazione: Jean Kalman
suono: Éric Neveux
direzione musicale: Richard Wilberforce
collaborazione video: Laurent Truchot
trucco e parrucco: Cécile Kretschmar
preparazione e direzione dei sottotitoli: Katharina Bader
costruzione della scena presso: atelier de La Colline – théâtre national
General tech manager : Laurent Mathias
Light tech : Jacques Grislin
Sound tech : Michael Schaller
Video tech: Alexis Cohen
Dresser: Lise Crétiaux
Make-up and hairdressing on tour: Jean Ritz
Production of the international tour: Sorcières&Cie
Head of production: Véronique Felenbok
Tour management: Ondine Buvat
Crediti di Produzione
produzione: La Colline – théâtre national (Parigi)