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La living retrospective di Manon Santkin nel solo di Mette Ingvartsen

Foto bea Borgers

C’è sempre qualcosa di commovente quando un artista ripercorre il proprio percorso: teatro e vita coincidono quando al palcoscenico si dona l’esistenza. In Molière, quel bellissimo film del 1978 diretto da Ariane Mnouchkine, sulla vita del drammaturgo e attore, la regista francese voleva raccontare la vita di compagnia, le difficoltà e le gioie di una comunità che attorno al palcoscenico si raccoglieva e si sfaldava. Thomas Bernhard ha scritto Minetti, ritratto di un artista da vecchio per omaggiare e rendere immortale l’attore che per anni aveva vestito i panni dei suoi personaggi. Perché ci sono fili invisibili che legano le vite degli artisti e delle artiste della scena, gli ensemble, ai palcoscenici calcati, alle creazioni di cui sono stati protagonisti, ma il tempo non ha pietà delle idee, delle intelligenze, dei corpi.

Foto bea Borgers

Chi si occupa di spettacolo con arte e coscienza per tutta la vita, non fa altro che sondare la caducità della creazione, la sua impermanenza: essere vita all’ennesima potenza per un tempo misurabile e poi scomparire. Non bastano le riprese video per ritornare a quella vita, in quanto creazione organica e misteriosa, ci vuole il teatro stesso, ci vuole una pratica di stregoneria scenica, un rito di evocazione. È questo d’altronde il risultato più evidente di Rush, lo spettacolo di Mette Ingvartsen e Manon Santkin  che ha impresso un salto di qualità al calendario di Short Theatre. E non è un caso quella congiunzione tra il nome della coreografa e quello della performer, perché è evidente quanto l’idea di Ingvartsen si sia nutrita dell’inventiva, del corpo e della presenza scenica di Saktin. La coreografa danese ha voluto racchiudere vent’anni di carriera e dunque vent’anni di collaborazione con la performer in un solo di un’ora e mezza. È il corpo nudo di Saktin a farsi archivio, con la potenza però di far tornare al presente il passato: il rischio di un lavoro del genere è quello di rendere omaggio solo alla nostalgia, ai tempi che furono, quando eravamo giovani, performanti e abitavamo un mondo diverso e apparentemente più semplice; ma l’intuizione di Ingvartsen sta proprio nella necessità di trasformare il materiale evocato in qualcosa che abbia validità nel qui e ora, non solo nella memoria. Allora, di certo il corpo è un archivio, ma è anche una sorta di macchina del tempo che però non agisce su di noi ma sull’opera, ricreandola nel presente. D’altronde è la stessa coreografa e regista, proprio in una conversazione con Manon Santkin a spiegare: «I was looking for a way to make a living retrospective».

Foto Bea Borgers

Lo spazio di uno delle sale de La Pelanda è vuoto, sono pochi gli oggetti visibili nel bianco del pavimento e del fondale – qualche telo termico (quelle coperte argento e oro che siamo abituati a vedere durante i soccorsi per gli sbarchi dei migranti), un altoparlante al centro, un tavolo e ai lati un paio di quelle macchine per soffiare via la sporcizia dalle strade. Quando lo spettacolo inizia la performer è fuori scena, sentiamo la sua voce: ci racconta gli attimi prima dell’entrata e lo fa al presente, legando da subito il passato, spiegando come il nervosismo che ora la sta attraversando ci sia sempre stato, anche quando solitamente dietro alle quinte è con i suoi colleghi e colleghi, ci dice di essere nuda e di come spesso abbia bisogno di urinare prima di entrare in scena, ci spiega come il suo corpo sia cambiato dopo il parto. Sentiamo il rumore della pipì e dopo qualche attimo la donna è in scena: il suo corpo di certo non è più giovanissimo, ma porta con sé la bellezza di una vita vissuta, ma è atletico ed energico. Santkin già prima di entrare riesce a stabilire una relazione unica, incrollabile, con il pubblico: in questo suo darsi completamente non c’è nulla di magico, esoterico o serioso, c’è un’intima ed empatica ironia, una franchezza estrema grazie alla quale il pubblico è sullo stesso piano dell’artista, non può esserci giudizio. Ma attenzione, questo non implica un azzeramento né del piano performativo dell’interprete né del piano della spettacolarità.

Foto Bea Borgers

Rush, come suggerisce il titolo, dall’inglese, è una corsa, nel passato, a cominciare da Manual Focus (2003), qui la performer indossa la maschera di un uomo, ma la indossa sulla nuca, per poi spostarsi in quadrupedia creando così un’immagine inquietante, umana e mostruosa al contempo. Santkin è sempre a proprio agio stratificando il racconto attraverso aneddoti e piccole spiegazioni sui concetti che muovevano le opere, operando con azioni fisiche con cui mostrare frammenti di performance, le posizioni dei suoi compagni di palcoscenico, gli accadimenti, l’atmosfera. Il baricentro dello spettacolo e forse il momento più importante è relativo alla rievocazione di To Come (extended), qui la performer riesce a mostrarci, come se lo avessimo sotto gli occhi, tutto l’erotismo ma anche l’arguta ironia (esemplare il gioco con quattro spettatori che salgono sul palco per dar voce a un orgasmo ascoltato in cuffia) di un’opera che, con quindici performer sul palco, voleva esplorare le possibilità erotiche dello spazio e dei corpi. In Why We Love Action (2007)  è il cinema (e il dispositivo del green screen) ad essere messo sotto la lente d’ingrandimento del performativo. C’è spazio anche per un’immagine dal forte senso estetico e poetico: come accadeva in The Artificial Nature Project (2012), la performer veste una tuta da lavoro e mette in moto i soffiatori, che puntati sullo sfondo fanno sì che i teli termici fluttuino nello spazio. Viene da pensare all’estrema fragilità umana, alla caducità dei nostri corpi spolpati dal tempo.

Il pubblico è partecipe dell’esperienza, non solo perché viene continuamente chiamato in causa, Santkin è in dialogo costante, come se il pubblico fosse un altro personaggio sempre presente lì sul palco e d’altronde l’allestimento di Mette Ingvartsen è in questo senso spietato, non ci sono bui, o cambi di luce e atmosfere in cui nascondersi, Santkin lavora senza rete, sempre en face, con la sua naturalissima nudità e un carisma vitale, da grande attrice, con il quale salta da un punto all’altro del palco o ci trascina in un travolgente swing: sessualità, potere, politica, ambiente; il corpo diventa megafono di una moltitudine e gli applausi del pubblico salutano una performance unica e catartica.

Andrea Pocosgnich 

Settembre 2024, Pelanda, Roma, Short Theatre

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RUSH

concetto e coreografia Mette Ingvartsen
con Manon Santkin
assistente coreografico Thomas Bîrzan
direzione tecnica e disegno luci Hans Meijer
tecnico del suono e sound design Milan Van Doren
assistenza tecnica Jan-Simon De Lill
musica Will Guthrie, Peter Lenaerts, Gregorio Allegri, Gene Krupa and Buddy Rich, Benny Goodman
management Ruth Collier
produzione e amministrazione Joey Ng
comunicazione Jeroen Goffings
produzione Great Investment vzw
co-produzione STUK co-finanziato da Creative Europe programme of the European Union per DANCE ON PASS ON DREAM ON, VIERNULVIER, Festival Montpellier Danse 2024, Tanzquartier Wien, Charleroi danse centre chorégraphique de Wallonie – Bruxelles, SPRING, CND Centre national de la danse, Perpodium

Great Investment è supportato da The Flemish Authorities, Tax Shelter of the Belgian Federal Government, The Danish Arts Council & The Flemish Community Commission (VGC)

ph. Bea Borgers

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Andrea Pocosgnich
Andrea Pocosgnichhttp://www.poxmediacult.com
Andrea Pocosgnich è laureato in Storia del Teatro presso l’Università Tor Vergata di Roma con una tesi su Tadeusz Kantor. Ha frequentato il master dell’Accademia Silvio D’Amico dedicato alla critica giornalistica. Nel 2009 fonda Teatro e Critica, punto di riferimento nazionale per l’informazione e la critica teatrale, di cui attualmente è il direttore e uno degli animatori. Come critico teatrale e redattore culturale ha collaborato anche con Quaderni del Teatro di Roma, Doppiozero, Metromorfosi, To be, Hystrio, Il Garantista. Da alcuni anni insieme agli altri componenti della redazione di Teatro e Critica organizza una serie di attività formative rivolte al pubblico del teatro: workshop di visione, incontri, lezioni all’interno di festival, scuole, accademie, università e stagioni teatrali.   È docente di storia del teatro, drammaturgia, educazione alla visione e critica presso accademie e scuole.

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