Una riflessione sullo stato della critica teatrale e sulla generazione nata su internet, dall’inizio degli anni 2000 ai nostri giorni, prima e dopo l’affermarsi dei social media. Quali sono le conquiste e le distorsioni del panorama della critica oggi?
Con questo testo Andrea Pocosgnich è intervenuto al convegno Illusioni Perdute. Cinque disputazioni sulla critica teatrale e l’arte scenica oggi, a cura di Massimo Marino tenutosi il 27, 28 settembre 2024 all’interno del cartellone del Ciclo di Spettacoli Classici del Teatro Olimpico di Vicenza diretto da Ermanna Montanari e Marco Martinelli. La traccia posta da Marino nel caso di questo intervento è stata: “L’illusione alternativa. A partire dalla proclamata crisi della critica datata anni 60-70 si sono cercate nuove strade per esercitare questa funzione. Quali sono state e che frutti o fallimenti hanno portato?”
Non è un caso che Massimo Marino citando Balzac abbia intitolato queste giornate di studi sulla critica teatrale “Illusioni perdute”. A me il compito di perlustrare forse l’ultima illusione andata perduta, quella del web, ovvero la possibilità da parte della critica teatrale non solo di ritrovare lo spazio perduto alla fine del XX secolo sui giornali cartacei, ma di recuperare anche il valore dell’indipendenza e dell’oggettività (a fronte però dei percorsi che fin dagli anni ‘60 la critica militante ha condiviso con gli artisti), di ritrovare la capacità di storicizzare in presa diretta non solo le estetiche della scena ma anche le evoluzioni, le involuzioni e le contraddizioni del teatro materiale (per come Alonge intendeva questa definizione, ovvero la dimensione di impresa della scena, anche quella bassa e commerciale. Il teatro dei registi, Editori Laterza 2006).
IL PANORAMA ALLA FINE DEGLI ANNI ZERO
Quando nell’estate del 2009 fondai teatroecritica, il panorama era già fiorente e io ero un lettore accanito di esperienze che avevano qualche anno alle spalle: in primis delteatro.it – aperto nel 2001 e fino al 2010 edito da Baldini e Castoldi, cosa che ai miei occhi di esordiente dalla doppia anima umanistica e tecnologica sembrava un unicum formidabile, una casa editrice che pubblicava una rivista online dedicata al teatro, alla danza, alle arti performative in generale -; poi la creatura di Oliviero Ponte Di Pino, ateatro (online dal 2001) e tuttoteatro.com (nato in una primissima forma già nel 1998), erano i padri e le madri di una nuova ondata (insieme a Drammaturgia.it, dramma.it); nel giro di qualche anno sarebbero arrivate le esperienze più giovani, come Klpteatro, Altre Velocità, Stratagemmi e Il Tamburo di Kattrin che nasceva proprio nel 2009, inoltre dal 2007 per 4 anni a Roma fu molto importante il lavoro de La differenza (rivista online fondata da Gian Maria Tosatti nata inizialmente per seguire il festival Teatri di Vetro). Prima dell’avvento dei social network, o meglio prima che questi diventassero centrali nel dibattito anche culturale, continuarono a nascere riviste dedicate alle arti della scena o al panorama del teatro italiano (ne cito alcune, anche se in realtà sono molte di più: paneacquaeculture.net, più recentemente l’Oca Critica o Theatron2.0 con un modello in cui la critica si ibrida con l’organizzazione e i servizi per il mercato teatrale) oppure – cosa che sarebbe avvenuta con maggiore frequenza – sono comparse riviste dedicate alla cultura in generale e allo spettacolo ma con importanti spazi per il teatro, si pensi a Doppiozero ad esempio.
Quelli citati erano esempi caratterizzati da modalità eterogenee di governance (teatroecritica, Altre Velocità, Stratagemmi e Il Tamburo di Kattrin erano guidati da collettivi, altri avevano modalità più classiche e piramidali…), ma in tutti era ravvisabile la necessità di uno scambio aperto tra diversi redattori e redattrici, forse anche per segnare uno scarto con la solitudine imperante della scrittura online di quei tempi che si concretizzava nella forma del blog (e che comunque aveva importanti rappresentanti anche nella critica teatrale, si pensi ad Andrea Porcheddu, al blog di Anna Bandettini su la Repubblica, a Laura Gemini, Enrico Fiore, a Marcantonio Lucidi). Per i più romantici quello del dispositivo redazionale era un modo anche per piantare un modello di pensiero e dibattito novecentesco nei nuovi luoghi digitali. Rispetto a questa esigenza di rendere il dibattito collettivo si pensi anche alla nascita di Rete Critica, nel 2011, da un’idea di Oliviero Ponte Di Pino, Anna Maria Monteverdi, Andrea Porcheddu, Massimo Marino.
Furono anni pieni di idee, ricchi di fermento creativo, di incontri e scontri, di possibilità e di riacquisita centralità; una vivacità inserita, va detto, in un preciso contesto, come osserva Sergio Lo Gatto in Abitare la battaglia (Bulzoni, 2022):
«Nei prossimi capitoli emergerà in maniera chiara come il fenomeno della critica teatrale sulla Rete sia legato a un preciso momento di convergenza storica e politica del sistema teatrale italiano, reso di certo interpretabile e trasformabile anche a partire dall’affermarsi di nuovi strumenti di comunicazione. L’osservazione della sua evoluzione porta con sé l’evidenza di un contatto genuino tra i protagonisti di queste invenzioni e di questi mutamenti, impegnati in un serrato dialogo con le antecedenti generazioni di professionisti e, al contempo e in maniera più o meno consapevole, nel confronto tra una e l’altra strategia.»
Ma quale teatro raccontavano e raccontano le riviste online di critica teatrale? Sempre nel volume di Lo Gatto viene citato questo stralcio di un’intervista a Oliviero Ponte Di Pino:
«Gli spettacoli di maggior richiamo “popolare” o “di consumo”, come certi musical, per esempio, nella critica online trovano pochissimo spazio. La ragione sta forse in un’affinità generazionale-ideologico-estetica tra la nuova critica e il nuovo teatro; e in fondo è certamente più interessante scrivere di queste esperienze, raccontarle, farsene testimoni, piuttosto che fare semplicemente i recensori.»
E infatti possiamo parlare, come suggerisce Lo Gatto di «affinità rispetto allo svolgimento di una pratica» tra le riviste nate tra il 2005 e il 2010 e il teatro che allora poteva essere chiamato indipendente.
La relazione con i lettori e le lettrici per queste webzine era, in quegli anni, molto precisa e diretta e viveva in quell’isola felice che era il web 1.0: quello delle nicchie culturali dure e pure, circoscritte ma ad alta densità di partecipazione. Gli articoli pubblicati prima dell’affermarsi dei social network, dunque fino alla prima metà degli anni ‘10, potevano generare lunghi dibattiti che per la natura stessa del medium, ovvero la compresenza di tutti i commenti sulla sola pagina web contenente l’articolo, restituivano sempre la possibilità di ricostruire un discorso e di mantenere un livello molto alto, anche attraverso pareri aspri o ironici. Tornando ora al rileggere i dibattiti nati sotto ad alcuni articoli – ricordo soprattutto il caso Macadamia Nut Brittle di Ricci Forte visto al Teatro Eliseo di Roma nel 2010, la cui recensione stimolò decine di commenti anche lunghi e approfonditi – l’impressione è che si sprecassero meno parole, meno occasioni di dialogo. Anche perché dal punto di vista dell’utilizzo di queste riviste online da parte delle lettrici e dei lettori, quegli anni furono caratterizzati dalla centralità della scelta: chi arrivava a leggere una recensione teatrale (ma questo valeva per tutto il giornalismo culturale e per l’editoria in genere) lo faceva per scelta, perché aveva salvato quell’indirizzo internet nella cartella dei preferiti, perché si era iscritto alla newsletter, ecc. Vi era sempre la scelta alla base della relazione con i lettori e le lettrici e non un algoritmo come accade oggi per chi utilizza i social media come flusso informativo.
LA CRITICA ONLINE E LO SPAZIO FISICO
Intanto la generazione della critica nata online cercava e trovava uno spazio nel mondo fisico attraverso momenti di formazione che cominciavano a ibridare sempre di più la figura del critico con quella dell’operatore, dell’organizzatore, dell’agitatore (di certo era già era successo in passato, pensiamo al famoso e stracitato giornale del Festival di Santarcangelo negli anni ‘90). Non parlerò qui dello sviluppo di queste pratiche perché è stato oggetto di altri momenti di studio, ma non possiamo non ammettere che la figura del critico cominciasse in questo modo a divenire sempre più interna ai processi organizzativi e creativi, determinando così da un parte la possibilità di una pedagogia del teatro – che potesse avere a che fare anche con la pratica spettatoriale e dunque con la scrittura critica e giornalistica come chiave di comprensione dell’opera – e dall’altra aprendo anche alla possibilità da parte del critico teatrale di vedersi, finalmente, retribuito il proprio lavoro.
LA QUESTIONE ECONOMICA
Arriviamo alla questione centrale: le risorse economiche di una professione che appunto senza risorse forse professione non è. Qui sta probabilmente la più grande tra le Illusioni perdute: la mancanza cronica di economie. La gran parte dei siti web, delle riviste online dedicate alla critica teatrale, non produce economie, solo alcune sono riuscite a creare una struttura con personale pagato grazie a progetti soprattutto di formazione legati a teatri, festival e scuole, ancora di meno sono quelle che riescono a creare un’economia per retribuire direttamente il lavoro editoriale (teatroecritica ci sta provando da alcuni anni, con grandi sforzi e difficoltà e facendone un punto quasi ideologico). Non conosco riviste online che si occupano solo di arti performative che sono diventate a pagamento secondo i consueti metodi di abbonamento che molti giornali online hanno cominciato ad affermare negli ultimi tempi. Insomma in gran parte di questo panorama l’attività critica e giornalistica rimane una passione, un hobby. E questo naturalmente come vedremo ha una ripercussione sulle scritture, sulla loro autorevolezza e sulla loro funzione rispetto al panorama teatrale, sulla capacità anche di passare il testimone alle nuove generazioni. I colleghi e le colleghe più autorevoli in circolazione, con pochissime eccezioni, esercitano più mestieri, alcuni insegnano o si adoperano per insegnare nelle università, altri nelle scuole e nelle accademie, altri fanno i giornalisti in ambiti più remunerativi e talvolta lontani. Di certo tutto questo appartiene alla nostra epoca e riguarda gran parte degli ambiti della cultura, ma a differenza di altri settori per la critica teatrale trovare una fetta di mercato, per dirla con le parole nette dell’economia, sembra essere molto più difficile: a causa del ristretto bacino di riferimento e a causa della sua natura, concepita spesso come approfondimento verticale dell’opera in una società tutta orizzontale, con un pubblico sempre più teso verso l’immagine o l’ascolto (e meno verso la lettura). Anche le nicchie di appassionati, le fanbase, oggi si mobilitano in massa soprattutto quando la scrittura è in grado di generare opinioni molto polarizzate. E poi la critica teatrale deve ammettere di essere caduta più volte nell’iperspecialismo, nella trappola di chiudere il proprio mondo in una recensione, quando invece dovremmo usare la recensione per raccontare il mondo.
Il sistema teatrale italiano non ha mai concepito fonti di sostentamento per il lavoro critico, da sempre ne ha bisogno, perché attribuisce un valore centrale allo scambio con la critica e difatti molti festival e teatri si adoperano per alleviare almeno i costi di ospitalità (apriremo poi una riflessione sulla questione etica). Ciò che manca è una presa di coscienza del sistema tutto, attraverso processi collettivi o attraverso uno spazio nei finanziamenti nazionali o degli enti locali. Gli unici bandi a cui la critica può partecipare sono quelli che hanno come output percorsi formativi o eventi (come incontri, convegni, ecc.). Dunque il teatro italiano, che spesso rivendica la necessità di una critica autorevole, forte, indipendente e in grado di fotografare anche le involuzioni artistiche, su tutto questo deve porsi degli interrogativi.
LA SITUAZIONE ATTUALE
In periodi recenti è avvenuto un ulteriore mutamento: il critico è oggi anche un influencer? Si tratta di piccoli numeri e non dei centinaia di migliaia di follower attratti dagli influencer di massa. E infatti qui sta uno dei problemi: il divario tra certi artisti e i critici rispetto alla capacità di spostare il consenso online, di orientare piccole o grandi masse, di fare comunità. Anche a questo si lega il problema dell’autorevolezza: l’opinione di un critico di fronte a quella di un artista con molto seguito sui social diventa molto difficile da sostenere, e d’altronde, ormai lo abbiamo capito, i social media non si configurano come un campo di dibattito neutro.
Ricordo qualche anno fa un post di Ascanio Celestini che stigmatizzava una recensione sulla rivista online Tempi Moderni (attualmente la pagina non è più presente), l’autore era Cristian Pandolfini e veniva accusato dall’artista anche di aver fatto alcuni errori di interpretazione dello spettacolo, ma al di là del testo giornalistico, quel critico sconosciuto difficilmente avrebbe potuto confrontarsi ad armi pari su un social network con un personaggio pubblico e i suoi centinaia di migliaia di follower.
«Ecco che i presupposti di contesto (la conversazione si svolge sulla pagina di Celestini, che verosimilmente ospita solo sodali) portano la figura di Pandolfino a perdere immediatamente credibilità perché questa manca di un sostegno e incontra invece un ambiente automaticamente ostile. La più evidente differenza rispetto alle dinamiche della carta stampata è che su quel mezzo una stroncatura più o meno marcata può avere un effetto immediato (a patto che venga siglata da una firma riconosciuta e su un supporto altrettanto autorevole), ma lo spazio di una replica occupa un tempo a sé.» (Sergio Lo Gatto, Abitare la battaglia, 2022, Bulzoni)
Dunque la domanda rimane: quanto la critica (cartacea e online) è autorevole? Il discorso è complesso e per forza di cose è legato alla presenza, alle capacità di ognuno e ognuna di noi, all’impegno ma anche al luogo in cui questo impegno si muove. E attualmente è influenzato da altre questioni: ad esempio l’annoso problema etico che riguarda la nostra capacità e possibilità di esercitare un giudizio libero all’interno di una serie di meccanismi, a partire già dall’ospitalità fornita dai soggetti che poi andiamo a recensire.
Da qui non posso non citare la difficoltà dell’attuale panorama critico nel fotografare la scena teatrale e i suoi mutamenti con la precisione e la meticolosità di un tempo e la sempre più diffusa scelta di non recensire spettacoli che non convincono e dunque il mancato esercizio di quella pratica, necessaria, ma difficilissima che è la stroncatura. Il discorso si allargherebbe e lo accenniamo solamente: da una parte c’è una prossimità con artiste e artisti derivata dalla condivisione di percorsi generazionali o da collaborazioni lavorative, dall’altra vi è anche una sfiducia nello strumento del giudizio severo proprio perché in fin dei conti c’è una contiguità tra questa generazione di critici e critiche e le prime che hanno dovuto modificare il proprio approccio di fronte al Nuovo Teatro dagli anni ‘60 in poi. Ora però bisognerebbe completare un processo di maturazione e tentare quantomeno di rimettere in discussione certi paradigmi, anche perché è sempre più difficile utilizzare categorie che in passato aiutavano a comprendere il panorama: teatro di ricerca, teatro d’arte, teatro commerciale, teatro istituzionale, teatro indipendente, ecc. Perciò è compito della critica tentare di creare mappature e sondare i valori in un panorama sempre più orizzontale.
In ultimo, è evidente la difficoltà della critica, soprattutto di quella online, di occuparsi di politiche culturali: oltre a teatroecritica e ateatro quali altre riviste online specializzate si adoperano per inchieste, interviste, reportage e riflessioni sul sistema delle arti performative in Italia? Qualcosa di più ogni tanto accade nei quotidiani cartacei e non, attenti per natura alle espressioni politiche (o talvolta partitiche) della cultura e provvisti di redazioni e del supporto legale per accompagnare i lavori di inchiesta. Il discorso relativo alle politiche culturali si ricollega a quello precedente sulla libertà e sull’etica: quando collaboriamo attivamente con un’importante istituzione teatrale di certo attiviamo un reticolo di percorsi che hanno una ricaduta importantissima per le comunità con cui entrano in contatto ma allo stesso tempo ci sottraiamo dalla possibilità di giudicare, raccontare e indagare quell’istituzione teatrale.
Il risultato di questo mutamento è la perdita di incisività della critica online nel dibattito complessivo: non è un caso che uno degli ultimi dibattiti molto forti sul teatro italiano sia partito da un articolo di Franco Cordelli sul Corriere, certo un pezzo che andrebbe utilizzato nelle università e nei nostri corsi per mostrare come non si dovrebbe guardare a un panorama teatrale complesso come il nostro, ma un articolo che ha mosso un dibattito come non accadeva da tanto tempo.
IN CONCLUSIONE
La critica deve tornare con gli occhi sul proprio oggetto del racconto, deve ritrovare le forze per rilanciare sguardo e dibattito e tornare ad essere il sismografo del sistema teatrale. Per farlo deve governare i processi relativi alle collaborazioni con gli artisti, regolamentarli ed essere trasparente con i lettori. Questo vuol dire che un lettore che entra nelle nostre piattaforme deve capire subito se quell’articolo che sta leggendo è frutto di una collaborazione o nato all’interno di un laboratorio, ecc. Inoltre i critici devono pretendere, a fronte dei piccoli aiuti che il sistema può mettere in campo, come nel caso dell’ospitalità o dei viaggi, la totale libertà di giudizio. Dovrebbe esserci da questo punto di vista un accordo, una sorta di legge naturale, per la quale il critico possa avere le mani totalmente libere, ed evitare così la classica affermazione, che spesso alcuni di noi rischiano di rivolgere a se stessi in silenzio: “come faccio ad essere così severo, mi ha ospitato e trattato benissimo, poi loro sono gentilissimi.”
Inoltre la critica deve fare lo sforzo di cercare le risorse, o utilizzare quelle che ha, per studiare e raccontare i processi politici ed economici che ci sono dietro a uno spettacolo e all’intera filiera. Fare lo sforzo di mettere di nuovo al centro delle questioni la politica culturale. E mi sembra che ora, in questo periodo in cui è la destra a governare i processi culturali, con aggressività e incapacità allo stesso tempo, ecco mi sembra che proprio ora ci sia bisogno di una critica che sia in grado di smascherare non solo le estetiche ma anche le politiche.
Andrea Pocosgnich
È un bellissimo intervento. Ma dal momento che si tratta di autorevolezza penso che la tipologia di scrittura non possa rimanere fuori dal discorso. La struttura di un pezzo, la sua chiarezza, la capacità di dare accesso a una visione dello spettacolo per il lettore, la compiutezza del dettaglio narrativo, sono elementi portanti per una comunicazione reclutante del lettore, troppo spesso opacizzata da citazionismi, superfetazioni linguistiche, derive ermeneutiche. Penso si debba partire anche da qui se si vuole discutere di autorevolezza. Grazie per l’articolo