Recensione. Abbiamo visto Lo sciamano di ghiaccio a Transart Festival, in una fabbrica di trinciatrici. Lo spettacolo di Fabio Cherstich è andato in scena anche a Ravenna Festival e a Reggio Emilia per Festival Aperto
“Per noi il ghiaccio è sciamanico. È qualcosa di vivo. Ci adattiamo al ghiaccio oppure lui si adatta a noi. Non è solo bianco, ha le sue sfumature: c’è il ghiaccio vecchio e quello nuovo, quello dolce e quello salato. Ha un’anima, è vivo. È sciamanico”. Questa riflessione di Robert Peroni, un altoatesino che ha finito per stabilire la propria esistenza e il proprio sguardo sul mondo in una delle zone più remote del pianeta, nella Groenlandia orientale, sintetizza in modo efficace il cuore del racconto della performance Lo sciamano di ghiaccio, diretta da Fabio Cherstich. Un cuore del discorso che è anche il punto di intersezione di una serie di questioni – antiche e moderne – che attraverso la lente dell’estremo nord, interroga molti aspetti della nostra contemporaneità.
Performance sonora, diario di viaggio, istallazione musicale: è difficile racchiudere in una sola definizione l’opera diretta da Cherstich con la complicità di tanti artisti musicali e visivi. Partitura musicale (diretta da Oscar Pizzo) e partitura della drammaturgia (affidata a Guido Barbieri) si intersecano in una narrazione che in certi momenti procede in parallelo, e in altri si intreccia profondamente. Sullo sfondo il racconto di uno dei luoghi più remoti del pianeta, un tratto di Groenlandia ancora meno abitato della costa principale, quella che guarda il Canada, dove si trova la capitale Nuuk: per fare un esempio, la capitale conta meno di diciannovemila abitanti, mentre Tasiilaq, la città più grande di quest’area del paese, arriva a malapena a duemila.
Un elemento di impatto estetico sono certamente i luoghi raccontati visivamente, che scorrono davanti con la loro compattezza cromatica in lunghe, feroci distese di bianco che sembrano non conoscere fine, oppure in compatti notti artiche che lasciano senza fiato per la loro livida bellezza. E probabilmente i visual del progetto hanno giovato di una cornice particolare a Transart, festival multidisciplinare che ha il suo epicentro a Bolzano ma si estende per tutta la regione: la fabbrica di trinciatrici Seppi di Mezzolombardo, in Trentino, che ha aperto le sue porte per accoglie l’opera in un ampio ambiente, stipato di materiale e attrezzature, si rivela una cornice unica, in grado di dialogare con le immagini ed esaltarne l’aspetto evocativo.
Tuttavia l’estetica malinconica dei luoghi, così ipnotica, potrebbe finire persino per trasformarsi nella comfort zone di un approccio esotizzante, che gli autori rigettano fin dai primi momenti: la voce di una donna inuit, che parla nella sua lingua, diventa un messaggio sull’impossibilità di comprendere le questioni che abitano mondi radicalmente diversi dal nostro senza un percorso che richieda tempo e tensione verso l’altro. Non vi racconterò la mia storia, dice, perché non siete in grado di capire la nostra cultura. E allora la sfida diventa quella di lavorare attorno a questo silenzio del racconto.
Un lavoro non da poco, se non fosse presente tra gli artisti coinvolti (ha qui il ruolo di videomaker) lo scrittore, viaggiatore e fotografo Pergiorgio Casotti, profondo conoscitore di questo lato della Groenlandia, su cui ha scritto un prezioso volume intitolato Uppa, uscito nel 2023. “Uppa” vuol dire forse, ed è «la parola più usata a Tasiilaq e la più sottintesa per qualsiasi cosa riguardi la vita di un essere umano in Groenlandia». Forse si incontrerà una persona, forse si porterà a termine quello che stiamo facendo, forse compirò quel viaggio. Qualunque attività umana è soggetta al forse in cui le condizioni climatiche estreme di queste latitudini le sottopongono. Per arrivare da un luogo all’altro, ad esempio, può occorrere servirsi di un elicottero che “forse” partirà: si può dover aspettare diversi giorni prima di poter fare il passo successivo. Il senso di sospensione e isolamento aleggia per tutta la narrazione di questo libro estremamente interessante, che affresca alcuni dei temi che finiranno poi nello spettacolo Lo sciamano di ghiaccio (Casotti ha compiuto il viaggio di documentazione assieme a Cherstich).
Tra questi spiccano i temi dello sradicamento culturale, del suicidio giovanile, della trasformazione climatica. La modernità ha fatto molto, in termini materiali, per chi vive nell’Artico, eppure allo stesso tempo sembra aver spalancato un vuoto che ricorda le ampiezze desolate di alcuni paesaggi groenlandesi. Un esempio è la tradizionale caccia alla foca, che incrocia contraddizioni insanabili: da un lato la condivisibile impostazione europea che punta alla messa al bando di una pratica che mette a rischio estinzione le foche; dall’altro l’effetto sociale di questa trasformazione che ha nella caccia i momenti centrali della propria cultura, i cui esponenti vengono spinti verso una vita di inattiva, di sussidi o di altre pratiche di sussistenza. Il senso di sradicamento cresce, mentre cresce il pericolo che attraversa lo stesso ambiente groenlandese, giacché i processi estrattivi delle risorse di questa terra – sia in termini minerari che di caccia industriale – sono saldamente in mano a gruppi multinazionali esteri. Ma l’ambiente è a rischio anche per la crisi climatica globale, che vede proprio nei ghiacci artici un elemento di estrema fragilità. È allora comprensibile come l’incrocio di tutti questi fattori rendano la popolazione inuit groenlandese tra le più fragili del pianeta in termini psichici, con la più alta percentuale di suicidi al mondo, in particolare tra i giovani: nella popolazione giovanile il 25 percento ha almeno una volta tentato il suicidio; una persona su quattro.
Ma non c’è soltanto la profonda frattura tra antico e moderno a condurre il racconto de Lo sciamano di ghiaccio, opera che sceglie di abitare le contraddizioni di questa terra nordica: laddove i panorami possono presentarsi come desolati, essi risultano anche bellissimi; laddove prende corpo l’idea di uno sradicamento simbolico irreparabile, lì si affacciano costrutti culturali in grado di fondere moderno e antico (e di dirci qualcosa anche su noi abitanti delle fasce temperate); laddove lo spaesamento sembra dilagare, un senso forte di appartenenza all’ambiente torna ad affacciarsi.
Questa affascinante dualità è realizzata in scena soprattutto grazie al contrappunto della musica al racconto, e in particolare grazie alla voce di Karina Moeller, cantante inuit di stanza di Danimarca, in grado di posizionare sulla giusta frequenza emotiva le immagini che scorrono sui due schermi – uno centrale, tradizionale, e uno tondo laterale, dove si alternano in volti delle voci che sentiamo raccontare, o non raccontare, la propria storia, come tanti elementi di un’unica partitura.
E tutto si ricongiunge proprio in quel riferimento del titolo allo sciamanesimo, che potrebbe apparire persino scontato per via del processo di esotizzazione che gli occhi occidentali compiono sulle realtà (per loro) periferiche, e che invece si ribalta in metafora del presente. Tutto è legato all’ambiente, la sua trasformazione è la nostra trasformazione, il suo rifiorire il nostro rifiorire, il suo deprimersi il nostro deprimersi. Un’ampia fetta dell’antropologia contemporanea e della filosofia che si occupa di scienze naturali sta prendendo a prestito proprio il sapere delle culture sciamaniche per spiegare questo processo che – nelle nostre estati torride, nei territori devastati dagli incendi e dagli alluvioni – ci riguarda in modo molto poco astratto, ma concreto, urgente. La sussistenza dei viventi non è più una questione che può tenere concettualmente separata la sfera dell’umano da quella dell’animalità, a cui per altro appartiene, o del mondo vegetale. E nemmeno da quella degli elementi, poiché essi si adattano a noi (agli effetti dell’antropizzazione) come noi ci adattiamo a loro. Ecco allora che la periferia si rovescia nel centro di un discorso che ci riguarda tutti, quello della crisi climatica e delle trasformazioni ecologiche, che in modo non solo teorico, ma pratico, interrogando tutti noi sul senso del nostro stare nel mondo.
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Una postilla sulla formula del Festival Transart, che non è soltanto la nota distintiva di un festival di arti performative che sceglie di abitare il territorio altoatesino (e in questo caso trentino) attraversando location sempre diverse, luoghi non deputati, come parchi, spazi industriali, ex caserme, luoghi della produzione, baite. Questa formula permette di scoprire luoghi diversi, certamente, ma cambia anche le dinamiche della percezione, aggiungendo, amplificando, intrecciandosi al linguaggio della performance. È avvenuto certamente Lo sciamano di ghiaccio ma anche per le due performance ispirate al dada che sono andate in scena il giorno successivo negli spazi della Fondazione Dalle Nogare, spazio per l’arte contemporanea che si occupa di mostre e si staglia in cima a un pendio alla periferia di Bolzano, in una collina piena di filari di viti. Per raggiungere la visione di Shuffle, performance musicale ideata dall’artista e compositore statunitense Christian Marclay, o di LemoDada dell’artista giapponese Akemi Takeya, si passa attraverso un pezzo di paesaggio iconico della zona per addentrarsi in un luogo modellato da un codice globale, quello degli spazi espositivi contemporanei. Il primo è un gioco musicale, che vede duettare il clarinettista inglese Gareth Davis e la voce di basso di Andreas Fischer, seduti a un tavolo come fosse ad una cena, procedendo per esplosioni e guizzi orchestrati da grande ironia; il secondo una danza allucinata tra simil-bambole voodoo con teste di limone, dove all’ironia dei gesti senza logica apparente della performer – un confronto (certamente molto dada) tra corpo e limone, scrive l’autrice – si interseca la forza, la quasi ferocia, di una tecnica vocale a cui Takeya si abbandona per sciogliere, sul finale, la performance in danza a cui invitare il pubblico. In queste performance – come presumibilmente anche nelle altre in programma che non ho avuto modo di visionare – le cornici del festival hanno sicuramente svolto un lavoro aggiuntivo, conoscitivo ed estetico.
Graziano Graziani
Settembre 2024, Mezzolombardo (Trento), Transart Festival
Lo sciamano di ghiaccio
musica di Massimo Pupillo
canto tradizionale Inuit Karina Moeller
drammaturgia Guido Barbieri
direzione musicale Oscar Pizzo
video Piergiorgio Casotti
regia, luci e scene Fabio Cherstich
con Massimo Pupillo live electronics Karina Moeller voce Manuel Zurria flauti Oscar Pizzo tastiera
direttore di scena Eleonora Pasini
tecnico del suono Bruno Germano
progetto luci Alessandro Pasqualini
coproduzione Ravenna Festival – Festival Aperto / Fondazione I Teatri Reggio Emilia – Transart Festival Bolzano